Scusate le spalle

Illusionismo, innovazione e nuove concezioni dello spazio nelle figure di spalle di Arnolfo di Cambio

Le famose polemiche della storia dell’arte riguardano per lo più periodi d’innovazione e gli artisti pionieri che vi dettero inizio: così recita sir Gombrich[1] in “Arte ed erudizione” (“A cavallo di un manico di scopa”, 1963), e decisamente Arnolfo di Cambio rientra sia nella definizione di pioniere, sia nel contesto di polemiche attributive. Riguardo la prima, vorrei approfondire un elemento innovativo che da Arnolfo in poi segnerà l’arte italiana e non solo: il coinvolgimento dello spettatore e il ruolo attivo che Arnolfo per primo gli riconosce.

 Un’opera sicuramente autografa di Arnolfo è il Presepe di S. Maria Maggiore, datato circa 1290/1292, di committenza papale. E già a questo proposito c’è da dilungarsi; la committenza risale a papa Niccolò IV, francescano, che negli stessi anni si adoperò anche per la basilica di San Francesco ad Assisi dove il Maestro di Isacco tradusse in pittura lo stile scultoreo di Arnolfo (Gnudi). È una delle molte testimonianze del riconoscimento ufficiale di cui godeva Arnolfo, come ad esempio l’esonero dal pagamento delle tasse che il Consiglio dei Cento gli conferì nel 1300 per il merito dei lavori a S. Maria del Fiore a Firenze, e sono molteplici gli incarichi eseguiti da Arnolfo per l’Ordine Francescano, da S. Giovanni in Laterano a Roma fino a S. Croce a Firenze.

In base alla Legenda Major di San Bonaventura di Bagnoregio, la tradizione del Presepe si fa risalire a S. Francesco, che nella notte di Natale del 1224 allestì il primo Presepe a Greccio: è quindi una devozione particolarmente legata all’Ordine. La ricreazione dell’evento della nascita di Cristo rientra nel programma di predicazione tipico degli ordini pauperistici, destinato non solo ai ceti alti ma soprattutto al volgo, e sicuramente la rappresentazione del Presepe era di comprensione più rapida ed immediata di un’astratta allegoria.

 C’è un elemento particolarmente innovativo nel Presepe arnolfiano: la figura del Re Mago inginocchiato che porge la schiena agli spettatori, definito dalla Romanini come un Caravaggio ante litteram (anche Caravaggio lavorò per ambienti pauperistici, ma per lo più rappresentava piedi scoperti come simbolo di umiltà su indicazione del Borromeo[2]). In base al “criterio di visibilità”, segno distintivo dell’opera di Arnolfo, possiamo dedurre dalla lavorazione solo su tre lati e dalla schiena accuratamente rifinita del personaggio che la sua posizione era proprio questa di spalle agli spettatori: per la contemplazione della Natività, certo, ma non solo.

 Già nello stesso “criterio di visibilità” arnolfiano, ovvero la rifinitura delle sole parti destinate ad essere viste secondo precisissimi calcoli ottici, troviamo un segno del passaggio rivoluzionario dall’arte concettuale all’arte illusionistica.

 A partire dall’arte primitiva, ciò che conta non è tanto la verosimiglianza formale del soggetto dipinto, quanto la sua funzione rappresentativa, o per meglio dire: la funzione psicologica della rappresentazione, la creazione di sostituti con il minimo di requisiti riconoscibili (immagine minima) che saranno in quantità inversamente proporzionale alla familiarità/pertinenza biologica con l’oggetto rappresentato. Per fare un esempio: bastano pochi segni distintivi per riconoscere un viso umano[3], da qui anche la “paura” (di warburghiana memoria) di una copia troppo fedele. Si tratta dunque di un’immagine concettuale, astratta e convenzionale, riconoscibile da pochi tratti significanti - come i disegni primitivi o quelli dei bambini - e che acquista un valore diverso a seconda del contesto e della familiarità con l’oggetto rappresentato. In effetti è su questo meccanismo inconscio che si fondano test psicologici come quello delle “macchie di Roshack” e alcune illusioni ottiche come i volti rovesciati.

 Per il passaggio dall’arte concettuale a quella illusionistica è necessario un mutamento nella funzione dell’immagine: ovvero la possibilità di evocare anche qualcosa che non è rappresentato, l’idea che un disegno a due dimensioni suggerisca uno spazio tridimensionale, e che “esistano” anche le parti nascoste dell’opera. Ma è possibile immaginare qualcosa che non è visibile solo se ci sono dei riferimenti specifici riguardo le dimensioni e lo spazio, una sorta di guida per l’osservatore che può così partecipare all’opera dietro i suggerimenti dell’artista.

In fondo anche l’arte illusionistica si basa su convenzioni stilistiche, perché per essere capita deve avere rapporto con il contesto e le tradizioni precedenti; perfino un’arte d’avanguardia, volutamente di rottura con le convenzioni, deve conoscerle e tenerle presente per poterne prendere le distanze: la creazione artistica è quindi sempre legata alle aspettative, altrimenti non potrebbe essere recepita.

Se, secondo Wölfflin, un’opera d’arte deve più alle opere d’arte precedenti che non all’osservazione della natura, bisogna però aggiungere che c’è differenza tra influenza e ricezione (Miner): la prima come un atto passivo da parte del ricevente, la seconda come un momento attivo, una scelta tra i diversi modelli offerti da integrare con altri per la creazione di un linguaggio personale, diverso e nuovo da quello precedente. Ed è appunto questo l’atteggiamento di Arnolfo, la sua interpretazione dell’antico non più come copia ma come parte integrante, capita e assimilata, del proprio stile.

 Un personaggio di spalle, quindi, stimola la fantasia dell’osservatore e permette di partecipare all’opera immaginandone il volto e l’espressione tramite il contesto in cui è situato. L’esempio forse riesce meglio con la pittura, perché in una scultura a tutto-tondo l’illusionismo in questo senso è generalmente minore, ma nel caso di Arnolfo di Cambio la situazione è particolare: già lo stesso criterio di visibilità presuppone un rapporto illusionistico con l’osservatore[4], sia per le deformazioni ottiche calcolate sulla prospettiva del punto principale di osservazione, sia per la lavorazione delle sole parti visibili.

 Un tratto decisivo dello stile di Arnolfo è la rifinitura delle sole parti in vista, tipico del suo stile ma nient’affatto diffuso all’epoca. Il criterio di visibilità è in pratica un processo ottico di natura illusionistica, che ha l’effetto di “finito” su tutta l’opera, e che rende a tutto-tondo sculture in realtà cave o di spessore esiguo.

Inoltre l’attento studio dei giochi di prospettiva fa sembrare armoniche membra accorciate di proposito (come negli accoliti reggicortina del monumento De Braye) o addirittura mancanti (angeli reggicortina nel monumento a Bonifacio VIII).

La portata innovativa di questo stile è importante: presuppone lo studio dei punti di vista da cui l’opera poteva essere osservata, e quindi già la considerazione dello spettatore come parte integrante del processo artistico.

 In un personaggio di spalle tuttavia c’è di più: immaginarne il volto significa partecipare attivamente all’atto creativo sulle indicazioni che ci ha suggerito l’artista stesso, cioè il ruolo e il contesto del personaggio ci danno un indizio per indovinare ad esempio che espressione potrebbe avere[5]: si tratta di un immagine evocativa, in cui più è importante la parte mancante, più l’immaginazione è stimolata. Una specie di allusione che stimola il processo ricreativo dell’osservatore, simile all’uso dello sfumato e delle ombre in Rembrandt.

 Mentre gli altri due Magi si avvicinano dialogando, quello inginocchiato guarda verso il Bambino in gesto di contemplazione più che di omaggio, e chi osserva il Presepe di Arnolfo si trova nella sua stessa posizione: diventa quindi una specie di guida per entrare allusivamente nella scena, perché un Presepe è sempre una rappresentazione, la ricreazione di un evento, quasi teatro.

Sono già state notate le analogie tra la figura del Mago inginocchiato (di sicura attribuzione ad Arnolfo) e la Rebecca dalle storie di Isacco ad Assisi, di attribuzione ancora discussa. La posizione è sicuramente simile, del Mago si intravede il volto, Rebecca è completamente girata ma si possono dedurne i lineamenti dall’affresco precedente. Tuttavia nel personaggio di Rebecca non c’è più la funzione di guida che invita ad entrare, perché non si trova tra lo spettatore e la scena (non sta “guardando” insieme al pubblico) ma si allontana ad azione già finita a cui comunque ha dato partecipazione attiva, e l’azione è data dal confronto tra le due scene, che mantengono la stessa identica inquadratura come fosse una scenografia.

A parte la differenza di ruolo, l’impostazione è la stessa, sia nelle pieghe della veste, sia nella sobria ambientazione: è evidente l’influenza francescana, in particolare nel Presepe: un’iconografia recente, che avrà grande seguito ma diventerà anche uno dei temi prediletti per sfoggi di eleganza cortese o esotica. I Re Magi di Arnolfo, invece, hanno come soli attributi delle discrete corone e i doni che portano in omaggio, la loro venuta dal lontano Oriente non è un evento mondano e non ha niente di favolistico, partecipano alla scena con sentimento senza ostentare autorità regale. È un sentimento religioso che si esprime nell’atto stesso, il divino che si preannuncia nella vita terrena come la vita eterna nel monumento De Braye: lo stilnovismo di Arnolfo, qui nella rappresentazione di evento storico in cui Dio si è manifestato nella realtà, una compresenza di sacro e attuale.

C’è inoltre da notare che la bordura dello scollo della veste è pressocchè identica a quelle degli angeli reggicortina del monumento a Bonifacio VIII, anch’essi annunciatori in terra di un messaggio celeste.

 Arnolfo ed il Maestro delle storie di Isacco sono i primi, negli stessi anni e nello stesso giro di committenze, a sfruttare le possibilità illusionistiche dell’arte: i personaggi di spalle sono un chiaro esempio di una nuova concezione spaziale, che coincide anche con una nuova visione dell’uomo: non ancora con l’autonomia che gli sarà data nel Rinascimento, ma già partecipante attivo del divino in uno spazio fatto su misura per lui.

 Sorretto da un accurato studio dello spazio, basato anche sull’interpretazione dell’antico e delle molteplici influenze della sua variegata formazione, Arnolfo lascia una lezione che sarà ripresa in primis da Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova, dove farà largo uso del personaggio visto di spalle, aggiungendo anche le gambe viste a 180°.

I punti di incontro tra Giotto ed Arnolfo sono molteplici[6], a partire dal comune apprendistato presso Cimabue, tuttavia, come nel cantiere di S. Maria del Fiore, Giotto prosegue quello che Arnolfo ha iniziato.

Del resto, Arnolfo e il fantomatico Maestro di Isacco sono la base per la nascita di tutta la successiva “arte moderna”.

 

guendaflower settembre 2003

 

note


[1]  Edgar Wind , “L’eloquenza dei simboli”, Adelphi 1992

 [2] Maurizio Calvesi, “Le realtà del Caravaggio”, Einaudi 1990

 [3] un riferimento interdisciplinare: “…come dire i caratteri dell’alfabeto, e seggiole e vaselli e altri arnesi di cento specie, e cose simili, nelle quali inoltre mi figurava di scorgere parecchie diversità di fisionomia, che riputandole argomento di buona o cattiva indole, m’erano poi motivo d’amar queste e d’odiar quelle.”

Giacomo Leopardi, “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica” 1818.

[4] Nel caso del monumento a Bonifacio VIII, l’illusionismo è regolato in particolare sullo sguardo del celebrante e quindi con una funzione liturgica specifica nel monumento funebre.

 [5] In seguito nella storia dell’arte non mancano esempi di come l’illusionismo diventi quasi un trucco: difficilmente nel ritratto di profilo di Federigo da Montefeltro si potrebbe immaginare l’altro lato del volto devastato dalle cicatrici. È quindi sempre l’artista che guida sapientemente la fantasia dell’osservatore.

[6] Nell’affresco con la “Morte del cavaliere di Celano” (Assisi, storie di S. Francesco) c’è un'altra citazione arnolfiana, ovvero la struttura a baldacchino che coinciderebbe con le ipotesi ricostruttive dell’originaria composizione del monumento Annibaldi a Roma; riguardo la sostituzione nell’affresco con la tavola imbandita invece del corpo del giacente, si potrebbe forse azzardare un’interpretazione eucaristica.

 

bibliografia

-"Arnolfo di Cambio",  Enciclopedia dell'arte medievale , Roma , Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991

- Angiola Maria Romanini, Ipotesi ricostruttive per i monumenti sepolcrali di Arnolfo di Cambio. Nuovi dati sui monumenti De Braye e Annibaldi e sul sacello di Bonifacio VIII, in I, "Akten des Kongresses "Scultura e monumento sepolcrale del Tardo Medioevo a Roma e in Italia", Rom 4.-6. Juli 1985", a cura di J. Garms, A.M. Romanini, Wien 1990

- Angiola Maria Romanini, Gli occhi di Isacco. Classicismo e curiosità scientifica tra Arnolfo e Giotto, "Arte medievale", s. II, 1 (1987)

- Angiola Maria Romanini, L’arte medievale in Italia

- Ernst Gombrich, A cavallo di un manico di scopa, Leonardo arte 2001