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Beatrice
Il racconto acquista quindi un tono piuttosto romanzesco, come appare evidente dalle molteplici inesattezze.
La fonte dello Stendhal afferma che Beatrice ha solo sedici anni quando viene portata al patibolo, ma tutti gli storici sono concordi nel dire che ha già compiuto i venti.
Com'è possibile che una cronaca che si presume scritta solo tre giorni dopo l'esecuzione della sentenza si sbagli così clamorosamente di ben quattro anni?
Altro particolare piuttosto inverosimile è il fatto che Beatrice e Lucrezia non solo assistono al delitto, ma vi partecipano attivamente buttando giù il cadavere dal balcone. Anche supponendo tutta la disperazione che avevano accumulato in tanti anni, com'è possibile che due nobildonne come loro avessero il coraggio e la forza di trascinare il corpo sanguinante di un uomo adulto, tanto più che c'era chi poteva farlo per loro?
In Stendhal Marzio ritratta la sua confessione, vinto dalla bellezza di Beatrice. Questo elemento, sia pur d'effetto, non risulta di fatto dagli atti del processo, che, anzi, si basarono proprio su quella testimonianza.
D'altro canto, fra la fine del '700 e la prima metà dell'800, si registra una fioritura di relazioni, biografie, racconti allargati e colorati di nuovi elementi fantastici, e perfino illustrati, tra gli altri, da Bartolomeo Pinelli in Italia. Pittore e incisore (1781-1835) soprattutto di scene popolari, il Pinelli rifiuta il caricaturale, ma le sue opere sono p73 avvolte da un alone romantico.
Alla vicenda dei Cenci egli dedica 10 tavole che rispecchiano il lievitare della leggenda a scapito della storia. Nella fig.3 (ad es.) ciò risulta evidente: Beatrice e Lucrezia assistono all'omicidio di Francesco. Mentre la matrigna sta in disparte chiaramente sconvolta, la giovane, quasi piegata sul letto e per nulla impressionata, sembra quasi che esorti i sicari ad agire velocemente.
L'espressione del viso, come anche nella fig.2, mostra quella determinazione che manca ai due uomini. La fig.4 illustra la scena immediatamente susseguente: sono le due donne che si disfano del cadavere, come vuole la leggenda.
Nella fig.6 Beatrice e Lucrezia ascoltano la lettura della sentenza di morte. E' evidente che le reazioni emotive non sono materia per gli storici; negli atti del processo, infatti, non si fa menzione degli stati d'animo dei condannati, cosa che invece è abbondantemente presente nella letteratura. In questo senso c'è una differenza notevole fra Shelley e Stendhal: il primo ci presenta una Beatrice idealizzata, forte fino in fondo che dà coraggio alla matrigna; nel secondo è proprio quest'ultima a rinfrancare la fanciulla disperata, così come si evince anche dalla stampa del Pinelli.
Diverse sono le stampe che illustrano una cronaca anonima p73 edita nel 1849 (10). Le figure 8 e 9 sono di tenore più popolare, vicine al caricaturale; vogliono suscitare l'orrore, ma i gesti enfatici e i personaggi caratterizzati in un solo senso, rendono le immagini inverosimili e grottesche.
Rappresentativa del pensiero straniero sulla religione in Italia è la fig.10. L'atmosfera è molto cupa. La figura di Beatrice, più chiara, sembra essere circonfusa di un alone di grazia soprannaturale. Al tono mistico contribuiscono i ceri e le suore vestite di nero che camminano in processione con lo sguardo basso. La giovane condannata indossa anch'ella un velo, che però le lascia scoperti i capelli lunghi e biondi; stringe fra le mani un crocifisso a cui sembra quasi aggrapparsi come a cercare conforto nella religione che, invece, la sta mandando a morire. Gli attributi fisici, la rassegnazione e la compostezza che esprime il suo volto, la fanno apparire come una Madonna Addolorata.
" La religione nella mente di un cattolico italiano si intesse all'intera tela della vita. Ella è adorazione, fiducia, rassegnazione, penitenza, ammirazion cieca, non mai una norma di condotta morale. Ella non ha alcun legame con la virtù." (11) Un'ulteriore conferma viene dalla fig.11, anch'essa francese e dello stesso periodo. Gli attributi iconografici sono
(10) - Beatrice Cenci Romana - Storia del sec. XVI - Ed. Rocchetti - 1849
(11) - Dalla prefazione a " The Cenci " di P.B.Shelley p73 piuttosto simili e hanno la stessa valenza.
Nel 1839 Agostino Ademollo (1799-1841) pubblica il romanzo storico " I Cenci ". Privo di rilievo, è stato probabilmente composto con intenti polemici contro gli abusi e le atrocità giuridiche del '500.
Sempre nel 1839 appare la tragedia " Beatrice Cenci " del poeta polacco Juljusz Slowacki (1809-1849) che la scrive a Parigi dopo un viaggio in Italia e un soggiorno di tre mesi a Roma. Essa ha più che altro il valore di una fantasia romantica, e non è da annoverarsi fra le cose migliori dello Slowacki. Durante gli anni passati in carcere, Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873) scrive il suo romanzo storico " Beatrice Cenci ", pubblicato nel 1854. L'argomento offre all'autore la possibilita' di sfoggiare il suo stile declamatorio, il suo gusto del truce e dell'orrido di derivazione byroniana, e di dar sfogo alla sua intensa passione politica. La verità storica è però stravolta: nel romanzo Francesco Cenci è ucciso non dai sicari, ma da Guido Guerra, innamorato di Beatrice, che sorprende il conte nell'atto di violentare la fanciulla. E' poi l'omicida stesso a confessare il delitto. Nonostante gli sforzi dell'avvocato difensore (il Farinaccio), la giustizia papale, atterrita dai delitti e dalle rapine con cui i Cenci infestano la città, condanna a p73 morte la giovanetta.
Il Guerrazzi cambia la storia per mostrare una Beatrice innocente e vittima, mentre lo Shelley, pur creando una protagonista più colpevole, la rende infinitamente più pura nella trasfigurazione della poesia.
Allo stesso anno 1854 risale un rifacimento della tragedia di Shelley, ad opera di Giovanni Battista Niccolini. " Mi giovi il confessare che io non tradussi la Beatrice con la timida fedeltà di un interprete, ma bensì la imitai con libero ardimento di poeta." (12) In realtà non è proprio una libera imitazione; in molti punti risulta una versione più o meno infedele del testo inglese. L'autore riprende dallo Shelley anche alcuni facili errori in cui egli è caduto, come quello di porre Petrella sugli Appennini Pugliesi, e quello di far dire a Francesco che uno dei suoi figli fu ucciso di notte mentre ascoltava la Messa (un cattolico sa bene che di notte non c'è la Messa, tranne a Natale). In quanto alla storia, la Beatrice di Niccolini rimane tragedia dell'inglese, che ci presenta la fanciulla parricida, Beatrice è qui innocente perseguitata dalla malvagità, ma lo scrittore fallisce il bersaglio, dandoci un'opera misera ed incolore.

(12) - G.B.Niccolini - Dal Discorso sulla tragedia greca - Opere - Vol.I
p73 Tutt'altra atmosfera si respira nella tragedia scritta da Antonin Artaud (1896-1948) nel 1935.
Non è un caso che " Les Cenci " sia nata come forma tragica: Artaud attinge molto agli antichi greci, soprattutto la sua concezione di teatro come peste, come catarsi. Il parallelo con l'Edipo Re è quasi inevitabile: ritroviamo il tema dell'incesto e l'azione che parte da un delitto. Les Cenci ci interessa come Mito ricreato: "Il padre è un distruttore. E'in questo modo che questo soggetto fa rivivere il Grande Mito. La tragedia è un Mito che porta alla luce delle verità. E poichè Les Cenci è un Mito, diventa una tragedia quando viene adattata per il teatro." (13)
Ma la differenza sostanziale è che la tragedia greca usava un mito già noto solo per coinvolgere lo spettatore, mentre noi non sappiamo quasi niente di Beatrice Cenci: l'equivoco è quindi nella funzione del mito.
Artaud rinnova questo mito immergendolo nella disperazione esistenziale e nella crudeltà del suo tempo. La coscienza che non ci sia nessuno che si salvi dalla spirale del male e dall'ingiustizia della vita, spinge Cenci alla distruzione della società, cominciando dalla propria famiglia, e su Beatrice porta a compimento insieme la distruzione dell'anima e del corpo.
Nelle tre scene del I atto, Artaud ha compendiato tutti i motivi della tragedia: la lotta fra l'uomo e la società, (13) - A.Artaud - Le Figaro, 5/5/1935 p73 l'amore impossibile di Orsino per Beatrice, l'odio del conte Cenci verso la famiglia, gridato davanti a tutti, la passione incestuosa del padre per la figlia. In queste premesse l'azione si svolgerà con crudele coerenza.
" Les Cenci non sono ancora il Teatro della Crudeltà, ma lo preparano." (14) Doveva essere lo spettacolo di presentazione per una seconda stagione che invece non ci fu mai.
Che cosa intendeva allora Artaud per Teatro della Crudeltà?
" Teatro della Crudeltà vuol significare teatro difficile e crudele anzitutto per me stesso. E, sul piano dello spettacolo, non è questione della crudeltà che possiamo esercitare gli uni sugli altri, bensì di quella assai più terribile e necessaria che le cose possono esercitare a nostro danno. Noi nonsiamo liberi. (...) Tutto ciò che agisce è Crudeltà.
(...) Propongo di far ritrovare agli spettatori le sensazioni più sottili attraverso l'organismo. Per questo nel mio teatro, lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda. " (15)
Artaud vuole rifondare il linguaggio del teatro: rinnovare suono, luce ed azione, per farle interagire totalmente; intende resuscitare un'idea di spettacolo totale. Più si va avanti nel testo, più diminuiscono le parole e aumentano le didascalie, le scene, l'azione; ciò è coerente con quanto teorizza Artaud a proposito dello spettacolo.

(14) - A.Artaud - Oeuvres Complètes - Gallimard 1956 - 74.
(15) - A.Artaud - Oeuvres Complètes - op. cit.
p73 Il linguaggio tende a utilizzare lo spazio. Ecco una delle sue ossessioni: il tema del movimento circolare, della gravitazione. Tutta questa mobilità attorno ad un centro culmina logicamente nella ruota del supplizio finale. Les Cenci sono, per eccellenza, la " pièce du cercle."
In un interessante articolo, Jean-Pierre Jouve individua i principali temi della tragedia." Il primo tema è l'autarchia del male. Che fare contro il demonio, padrone della situazione? Qui la risposta sarà fornita dal sangue stesso del demone e dal delitto su sua figlia.
Il secondo tema tragico è più profondo ancora: è quello del Sacrilegio, il Sacrilegio nei confronti della religione. L'orrore del crimine vuol rigettare il crimine su Dio. L'ultimo tema, il più generale, è quello della Fatalità dell'istinto, e nutre i primi due. Il problema dei Cenci è l'incesto. L'essere più carico di incesto sarebbe ancora, per paradossale che sembri, Beatrice, quando lo confessa con questa frase terribile:<< La sua immagine vivente (di Cenci) è in me come un crimine che debba a forza portare.>> " (16)
La realtà storica in questa pièce è solo un pretesto; Artaud si sofferma sul parossismo, come se la storia dei Cenci fosse colta nel cuore di un'unica scena di furore. " Un soggetto barbarico, fuori dal tempo; voglio uno spettacolo
(16) - J.-P.Jouve - Nouvelle Revue Française - 1/6/1935 (17) - A.Artaud - Oeuvres Complètes - op. cit. p73 che lasci gli attori e il pubblico esausti. " (17) Beatrice non è più l'eroina pura di Shelley o Stendhal, ma si fa strada la convinzione che in fondo sia un essere uguale a suo padre e che quindi il delitto diventi inevitabile. " Perchè ho paura che la morte mi riveli che ho finito per assomigliargli. " (18)
La fanciulla è posseduta da due forze: il desiderio del bene edello spirituale e la sua attrazione per il male, che è nel sangue dei Cenci. Questo conflitto è simboleggiato dal sogno che ella racconta a Lucrezia: è il suo desiderio di sfuggire al proprio destino, rappresentato dal padre.
Nella scena del banchetto Beatrice urla in faccia al genitore la terribile frase in cui è compendiata tutta la tragedia: " Bada, se Dio ascolta la maledizione di un padre malvagio, che non armi la mano dei suoi figli. " (19)
Dopo la violenza del padre, Beatrice è scatenata e a chi tenta di calmarla può rispondere con azioni e gesti sovrumani. Il male, come la peste, è penetrato in tutto il suo essere; l'unica colpa che la ragazza ammette è quella di essere nata.
Ma la tara che ha nel sangue sta per manifestarsi in tutta la sua potenza: ad una azione di rigorosa crudeltà, Beatrice contrappone una reazione più violenta, e il parricidio segue ineluttabilmente. " Ormai non posso più credere se non alla
(18) - Les Cenci - Atto IV scena III. (19) - Les Cenci - Atto I scena III. p73 giustizia che sceglierò io stessa. " (20)
Durante la scena con i sicari muti non si poteva mostrare con più evidenza che è lei a compiere il delitto sul padre. Nella scena successiva Beatrice, così ferma nel suo proposito fino a quel momento, ha un cedimento, come se la colpa la schiacciasse, ma poi riprende la sua impassibilità, tenendo testa da sola alle accuse del cardinale. Nell'ultima scena ci sono nettussime le antinomie dell'arte di Artaud: ad azioni crudeli si alternano squarci di poesia. Così la tortura a cui è sottoposta Beatrice è quasi annullata dai motivi elegiaci delle sue parole. La sorte della giovane donna è rigorosamente determinata dal destino, ma non per questo meno degna di pietà. La prima de Les Cenci ha luogo il 6 Maggio 1935 al Teatro delle Folies-Wagram. " Dans la salle, tout était contraste. Pour cette tragédie somptueuse faite d'éclat et de ténèbres, de beauté et de révolte, on a choisi le théatre le plus laid de Paris." (21) Lo spettacolo però non ha successo e dopo solo 16 repliche viene cancellato, ma quelli che hanno potuto assistervi ne hanno ricavato un'impressione indelebile. La tragedia scritta è solo un'intelaiatura attorno alla quale è stato costruito tutto lo spettacolo: Les Cenci diventa un'entità viva solo sul palcoscenico. La pièce è (20) - Les Cenci - Atto III scena I (21) - Raymond Latour - Paris Midi - 7/5/1935 p73 inseparabile dal suo spazio. Artaud affida a Balthus il compito di creare le scene e i costumi. Il pittore inventa per Les Cenci uno spezio prodigioso, uno scenario al contempo interiore, simbolico, italiano, nel quale tutto si concatena in una semplicità e forza estreme. Scenario costruito, sul quale si cammina, essenzialmente architettonico, dove un'intima discordanza contenuta entro l'urto dei colori e certe rotture delle forme, produce quella sonora dissonanza che oggi ci aspettiamo. La traduzione sul piano scenico della predilezione artaudiana per l'ocolarità vorticosa, spiralica, pulsionale, è data da Balthus in questo allestimento: uno spazio monumentale, insieme ascendente (colonne, scale, loggiato, arcate interrotte nello spazio) e sotterraneo, da prigine piranesiana (funi, argani, ruote di tortura, piantazione piramidale). La colonna contro il cielo eleva il palazzo Cenci ad un' altezza che fa spavento; i tendaggi rossi sembrano grumi di sangue rappreso. Balthus conosce il simbolismo delle forme come quello dei colori (verde per la morte, giallo per il peccato); usa questi strumenti nella sua scelta dei costumi e nel disegnare il suo magnifico décor. Le luci intermittenti rosse e verdi significano malvagità e sangue versato. Le luci complesse, i movimenti dell'individuo e della massa, i rumori, la musica, rivelano allo spettatore che lo spazio forma col tempo una realtà "affettiva". Alla fig.12 (a,b,c) vediamo varie riproduzioni di questo p73 scenario, nel momento del banchetto (atto I sc. III). Cenci annuncia ai convitati che i suoi figli sono morti. Lucrezia, che si era alzata, crolla di schianto tra le braccia di Beatrice, che la rincuora. Gli altri ospiti sono impietriti e increduli, ma non hanno il coraggio di schierarsi contro il conte. Visivamente Beatrice si pone già in opposizione al padre, preannunciando la sua reazione e la richiesta di aiuto agli ospiti, che cadrà però inascoltata. Per la scena del banchetto Artaud ha usato come modello il dipinto del Veronese "Le nozze di Cana" (fig.13), ma in modo molto più barbarico. Da questa tela riprende il motivo architettonico della balconata con la scala a sinistra, e delle colonne. Ma la cosa più importante è la trasposizione nella pièce dello spirito conviviale e di festa quasi orgiastica che si respira nel quadro. Un ulteriore punto di contatto col Veronese potrebbe eesere la figura di Gesù al centro del dipinto: durante il convivio Cenci fa un accenno alla Messa e al sacrificio che vi si consuma ogni volta. "Il prete beve il suo Dio nella messa. Chi può dunque impedirmi di credere che sto bevendo il sangue dei miei figli? " (22) Alla scena del banchetto si riferisce anche la fig.14: è il momento in cui Beatrice, sconvolta, si erge fieramente contro il padre: ha già trovato dentro di sè la forza per reagire ad una situazione che si sta facendo sempre più insostenibile. (22) - Les Cenci - Atto I scena III p73 Cenci è quasi assente, sembra che non si curi di lei; probabilmente sta facendo con gli occhi il giro della sala per vedere le reazioni degli ospiti, oppure non presta attenzione alla figlia perchè ha già deciso cosa le farà dopo. Il grandioso sforzo di conferire anima e vita per trascinarvi gli spettatori, come " al centro di una rete di vibrazioni sonore" (23) è posto in atto nella scena del banchetto con il movimento di gravitazione imposto agli attori, con l'impiego ossessivo del suono, che l'autore avrebbe voluto diretto, e con l'uso dei manichini. Rifacendosi agli schemi del Teatro della Crudeltà, Artaud utilizza i manichini per esprimere sulla scena visivamente ciò che le parole non riescono a dire. "I manichini dei Cenci avranno la funzione di far dire agli eroi del lavoro ciò che li angustia e che la parola umana è, incapace di esprimere. Tutto ciò che è rimproveri, rancori, rimorsi, angosce, rivendicazioni, sarà funzione dei manichini di esprimerlo." (24)
In questa famosa scena del banchetto sono soprattutto le azioni a scandire il ritmo drammatico, le parole servono solo da commento sonoro. Tutti i suoni sono stati così amplificati, dai passi ai rintocchi delle campane. Anche nella tragedia di Shelley il banchetto è una delle scene fondamentali (atto I sc.III). E' interessante notare che la costruzione dei dialoghi e la (23) - A.Artaud - Oeuvres Complètes - op.cit. (24) - A.Artaud - Oeuvres Complètes _ op.cit. p73 reazione di Beatrice sono pressocchè uguali, sia qui che in Artaud. Evidentemente quando leggiamo "Ho ripreso da Shelley tutto ciò che c'è in lui di ordinata esposizione e di lirismo", le ipotesi che ci vengono in mente sono due: o questa scena per Artaud era talmente "ordinata e lirica" da non necessitare di nessun cambiamento, oppure possiamo essere indotti a pensare che abbia preso da Shelley qualcosina di più di quel che dichiara.
In ogni caso i passaggi sono gli stessi: annuncio di qualcosa di bello da parte di Cenci, premonizione e angoscia di Beatrice, notizia della morte dei figli, cedimento di Lucrezia e opposizione della ragazza al padre, con il solito contorno di ospiti succubi e servili.
Nella fig.15 vediamo una foto dell'allestimento londinese del 1959 all'Old Vic Theatre. Rispetto alla fig.12, l'atmosfera è molto diversa. Naturalmente il fatto è quasi del tutto dovuto alla scenografia, che in Balthus è moderna, stilizzata, si avvicina molto a quella costruttivista. Quella inglese mi sembra invece molto curata filologicamente: siamo all'interno di un palazzo del '500, tetro ma sfarzoso, illuminato da decine di candele, con un maestoso colonnato sullo sfondo. Il momento è quello in cui Beatrice ha la conferma dei suoi presentimenti ed ha un cedimento: le due donne si sostengono vicendevolmente. Il padre ha in mano la coppa di vino con la quale brinda alla morte dei figli e dice di berne il sangue. Gli ospiti sono immobili perchè non hanno il coraggio di mettersi contro il potente nobile.
p73 Beatrice è lontana dal padre, ma, di lì a poco, troverà la forza per fronteggiarlo. "Empio, non io, ma tu! (...) Non verrà dal male altro che il male." Per questo dovrà subire l'oltraggio.
Le scene su cui Artaud fonda la sua tragedia sono soprattutto tre: quella del banchetto, di cui abbiamo già parlato, quella dell'assassinio (che è duplice, divisa com'è tra tentativo non riuscito e riuscito) e quella della tortura e della condanna.
Il delitto è preparato nel II atto e viene tentato nel III. In mezzo a uno spaventoso uragano entra Orsino seguito dai due sicari muti. Con la scelta di due assassini che non possono parlare e che devono esprimersi solo a gesti, Artaud rinnova la tecnica del delitto a teatro, per significare che le azioni violente si compiono, non si enunciano, nè tantomeno si raccontano dopo che sono accadute.
La fig.16 illustra la scena, altamente drammatica, in cui Beatrice, senza parlare, avvolge intorno ai sicari i loro mantelli rosso sangue, rendendo i due uomini simili a mummie, e mettendo nelle loro mani, le uniche parti scoperte, le armi del delitto. Poi, senza una parola, li rispedisce verso Cenci addormentato.
Per mostrare che sono semplici esecutori, Artaud li fa muovere come dei robot. Un tale momento, che ha della pantomima e della coreografia, fa una forte impressione.
Quando i sicari hanno un momento di titubanza, rivelato dai gesti, Beatrice, con parole forsennate, li soggioga. Non si p73 poteva mostrare con più evidenza che è lei a compiere il delitto sul padre.
Nella fotografia, le facce degli assassini sono impostate come quelle dei mimi, con un'espressività esasperata proprio perchè manca la parola. Il viso di Beatrice, invece, è calmo e deciso ed ella indossa il suo abito nero da omicida. La posa statica degli uomini ci riporta al discorso dei robot. Dopo il delitto comincia l'inchiesta, e Beatrice viene arrestata. Bernardo, che ha con lei un rapporto quasi morboso, si precipita a stringerla. (Atto IV sc.II) La fig. 17 è colta in questo momento: il ragazzo abbraccia la sorella, rendendo visibile la loro ambigua relazione. Subito dopo avrà una vera e propria crisi di nervi perchè non vuole essere staccato da lei: il suo viso allucinato è molto eloquente in questo senso. Col suo comportamento, il giovane fa presagire la sua natura, di vero piccolo Cenci. Il viso di Beatrice è invece sereno e quasi trasfigurato: è il momento elegiaco della pièce; ella si scioglie in un canto per guarire il fratello dal male dell'esistenza. Non si accorge neanche del soldato che le lega le braccia: parla come se tutto ciò non la riguardasse.
La scena è piuttosto cupa; il punto più luminoso è naturalmente il viso della fanciulla.
L'ultima scena è quella della ruota. "Beatrice appesa per i capelli e spinta da una guardia che le torce le braccia all'indietro, cammina seguendo l'asse della ruota della tortura. Con lei c'è Bernardo che la segue, traboccante di p73 ammirazione." (25)
L'attrice che impersonava Beatrice ottenne di spostare l'asse della ruota da verticale ad orizzontale, come mostra la fig.18. "Vestita con un abito blu cielo, da martire, i capelli tirati indietro, le braccia legate alla ruota - e l'illuminazione artistica! - la tortura sembra una sfilata dell' ultima moda in una grande sartoria " (26)
La fotografia ritrae Camillo che chiede a Beatrice di confessare il suo delitto. Ella non lo guarda nemmeno: ha appena terminato il suo canto ed è ancora immersa in quella atmosfera elegiaca. A destra c'è un soldato che le legge la sentenza, ma l'unica cosa che la ragazza risponde è: "Accetto il delitto, ma nego la colpa." (27)
A sinistra si vede Bernardo, in mezzo alle guardie, proteso verso di lei per poterle dare un ultimo abbraccio. Vicino a lui c'è un frate, ma la religione in questo momento è inutille. Sullo sfondo è come se ci fosse del fuoco, che per Artaud è un elemento purificatore perchè cancella tutto.
L'elemento della ruota è significativo: è uno dei temi principali di Artaud, una delle sue ossessioni. Tutta la mobilità attorno ad un centro che c'è nella tragedia culmina inevitabilmente nel supplizio finale.
"Il principio della ruota esisteva fin dal principio, e (25) - Les Cenci - Atto IV sc.III (didascalia) (26) - Gerald D'Honville - Le Petit Parisien - 12/5/1935 (27) - Les Cenci - Atto IV sc.III p73 prima del principio: è di ogni eternità. Inoltre la visione concreta di questa ruota, al termine della tragedia, riassume e definisce lo stile dato da Artaud a tutta la messa in scena. Grande realizzazione teatrale quella che, con un atto scenico, dimostra alla fine il senso di ciò che era in principio." (28) Fanno parte degli articoli su questa rappresentazione anche due disegni. Quello della fig.19 parla di vestiti. E' interessante perchè riproduce la moda dell'epoca, ma soprattutto perchè descrive l'abito indossato da Beatrice: è un vestito verde pallido con una cintura di colore rosa. Non sappiamo a quale scena si riferisca, ma conosciamo però il significato che Artaud dava ai colori: il verde rappresenta la morte, quasi ad indicare che Beatrice vi è predestinata fin dall'inizio. Il secondo disegno è invece una caricatura (fig.20). In primo piano c'è Beatrice, impersonata da Iya Abdy, donna molto bella di origine russa. Tutti i critici che assistettero allo spettacolo parlano della sua bellezza, dei suoi capelli quasi leonini e dei suoi movimenti violenti e talvolta infantili, ma molto efficaci; sono però tutti concordi nell'affermare che sarebbe meglio stesse zitta perchè ha un accento e una dizione pessimi. Nella caricatura sono sotolineati i capelli, ma soprattutto la bocca rigorosamente chiusa. (28) - J.P.Jouve - Nouvelle Revue Francais - op.cit. p73 Artaud, invece, sullo sfondo, sembra che si agiti per trovare qualcosa, ma ha l'aria di chi non trova quello che cerca. La posizione è piuttosto singolare, probabilmente per ironizzare sulla sua recitazione esagerata e forsennata, sopra le righe. Lo sfondo è inesistente, l'unica cosa importante sono i due attori. Un'altra rappresentazione importante della tragedia si è avuta a Brno, al Teatro di Stato Generale, il 15 settembre 1967. Il punto di partenza non sono state le indicazioni sceniche che Artaud scrive nel suo testo, ma le fotografie dello spettacolo del 1935. Se si confrontano le foto di questa versione con quelle dell'originale, si rimane colpiti dalla saggezza austera della messinscena, che non ha le sfumature barocche dello spazio animato da Artaud e Balthus; qui c'è invece ampiezza decorativa e sontuosità di costumi.
La fig.21 si riferisce alla scena del banchetto: in questo senso si può comparare alla fig.12. La prima sembra scattata dopo la seconda, anche se di poco. Nella 21 vediamo che Lucrezia è proprio caduta a terra, mentre sullo sfondo Cenci ha il suo delirio di potenza. Nella foto dello spettacolo di Artaud invece Beatrice sorregge la matrigna che, pur se sofferente, si tiene in piedi, mentre Cenci le guarda con disprezzo prima di cominciare la sua invocazione al cielo.
Ma la differenza fondamentale fra queste due immagini è il punto di ripresa. Tutte le foto di Artaud sono centrali e vogliono inquadrare tutta la scena, al massimo restringono p73 il campo a 2 o 3 attori. Le foto di Brno invece sono scattate da una persona fra le quinte, oppure in una simulazione di recita perchè hanno diverse angolature e molti primi piani. La fig.22 per esempio è praticamente un ritratto di Beatrice, con lo sfondo che serve solo per farci capire in che momento ci troviamo; dà ben pochi appigli per identificare l' azione. Il vestito bianco indica che la scena del banchetto si è chiusa, e probabilmente questa è la tunica che Beatrice indosserà quando sarà portata alla ruota. (vedere la fig.23) L'espressione è preoccupata, ma non eccessivamente: è più una serena rassegnazione, in attesa della condanna per un gesto di cui non si sente colpevole.
Tornando alla fig.23, è lampante la sua derivazione dallo spettacolo di Artaud, in particolare dalla foto 18. Si notano anche le differenze di ambientazione già rilevate: le sfumature barocche del '35 contrapposte alla saggezza austera del'67.
Anche se la fig.23 ha un campo più ristretto, viene da supporre che non ci sia molto altro sulla scena, che dalla foto risulta alquanto spoglia. Unica presenza è quella di Bernardo, accovacciato ai piedi della sorella per starle vicino fino all'ultimo.
Nella fig.18 c'è invece molta animazione, e Bernardo viene trattenuto dalle guardie. La figura stessa di Beatrice contiene notevoli differenze con l'altra versione: in quella di Artaud è in una posa languida e poco naturale e indossa un abito non molto adatto alla situazione (sembra quasi da p73 sera). L'altra Beatrice, al contrario, è semplicissima nella sua tunica bianca ed è lineare anche nella posa. Il viso ha gli occhi chiusi, come ad indicare che ha accettato la suasorte ed è serena. La ruota della versione 1935 è più piccola ma lavorata con del metallo e delle borchie, inserendosi pienamente ancora una volta nelle caratteristiche dello spettacolo. Quella della versione 1967 è quasi il doppio di Beatrice, la sovrasta totalmente, simbolo della giustizia umana. La fig.24 è tratta dalla rappresentazione della tragedia di Shelley del 1959 (atto V sc.II). Qui la situazione è un pò diversa da quella di Artaud perchè l'inglese parla anche degli interrogatori e del processo, mentre nella versione francese Beatrice è messa immediatamente alla ruota. Shelley ci dice che i Cenci sono arrestati dopo che Marzio, catturato, confessa accusandoli. Beatrice, Lucrezia e Giacomo vengono messi a confronto col bandito e la fanciulla, con la sua bellezza, lo fa ritrattare, respingendo le accuse.
La foto si riferisce proprio all'autodifesa di Beatrice, che usa molti argomenti, soprattutto commoventi, per discolparsi e muovere a pietà i giudici. La posizione e il viso della ragazza indicano innocenza, e tutti i presenti ne sono colpiti. Al centro ci sono Lucrezia e Giacomo, molto apprensivi perchè sanno che dal discorso dipenderà la loro vita. Nell'angolo sinistro invece Marzio è legato ai ferri della tortura ed ha l'aria rassegnata di chi non può sfuggire nè a p73 Beatrice, nè alla giustizia. Lo sfondo fa sentire pressante e presente il potere del Papa, con quella costruzione che sembra Castel Sant'Angelo, come a preannunciare il destino della sfortunata famiglia Cenci.
In Italia la tragedia non è stata molto rappresentata, con l'incredibile eccezione del Teatro alla Ringhiera di Roma, che l'ha tenuta in cartellone per quasi 10 anni, a partire dal 1970. Ispiratore e regista di questo teatro è Franco Molè, che vi recita anche.
Il testo della sua versione è stato riscritto da Giancarlo Iosimi che si è basato su tre documenti relativi ai Cenci: la copia uscita in volume da Gallimard, il brogliaccio della messa in scena originaria e una copia precedente l'edizione Gallimard. E' quindi una versione decorosa, anche se stonano in fondo allo spettacolo brani da "Il teatro e la peste".
La rappresentazione segue piuttosto fedelmente il testo di Artaud, dandone un'interpretazione di straordinario fascino plastico attraverso gesti, suoni, parole, grida, annientamento fisico, costumi. Questi ultimi, "nel loro malato gonfiore e nella loro allusa animalità" (29), sono di plastica e deformati in chiave satirica.
"Colorito e spesso pungente è l'aspetto più strettamente visuale della rappresentazione: gli spiritosi costumi, i materiali scenici, il fondale pittorico di Raffaele Leomporri (vedere fig.25), la gradazione degli aspetti luministi- (29) - Odoardo Bertani su L'Avvenire p73 ci" (30) Man mano che lo spettacolo procede spariscono dei pezzi dai costumi, fino a che gli attori, ma soprattutto le attrici, rimangono senza niente addosso e senza difese.
Molè vuole sia ampliare le risonanze contenutistiche, sia operare su un'autonoma via di compiaciuta violenza rappresentativa. Egli arriva a sottolineare, accanto alla perversione dei costumi, lo smarrimento spirituale, nel quadro di un destino per niente cieco. I torbidi legami fra i personaggi, soltanto accennati in Artaud, qui sono violentemente caricati: legami lesbici o di invertiti. Non solo, ma demistifica e ridicolizza perfino la figura di Beatrice, capovolgendola in donna arida e calcolatrice, battuta dagli eventi ma per niente bisognosa di compassione.
E' efficace anche l'inserzione di un tono popolaresco nel ruolo di Beatrice allorchè sta per affrontare la morte. A questo proposito si possono notare frequenti cambi di registro, d'una varietà estrema, da quello tragico a quello grottesco, a quello, soprattutto nel finale, ironico.
"Molè coglie bene solo l'aspetto della faccenda che coincide con la sua evidente convinzione che non esistesse in quella bolgia romana nessuna innocenza, neppure tra la vittime (perchè sono complici). I rapporti tra i personaggi sono colorati da un'ambiguità sarcastica; gli slanci delle anime oppresse, quando non puzzano di ipocrisia, aspirano all'oleografia" (31). In effetti, nel dramma di Artaud, non c'è (30) - Aggeo Savioli su L'Unità p73 una separazione fra buoni e cattivi, ma piuttosto una differenziazione di tempi, una scelta di moduli crudeli. In questo modo non ha preso posizione per nessuno dei personaggi, o, meglio, di ogni personaggio ha fatto un Cenci.
Il regista non ha preteso di rifare il testo per dargli ad ogni costo un'attualizzazione, e con l'inserimento di poche note di quegli anni '30 ha voluto appunto mostrare che il suo è un "divertissement", sia pure condotto con molta serietà. Seguendo questi concetti, Molè e i suoi attori hanno inventato uno spettacolo che è un'incessante scoperta, ogni volta da un'angolazione diversa; ha il valore di una violenza psicologica da cui lo spettatore riesce a sottrarsi soltanto dopo molti minuti che il sipario è sceso. Interessante è il modo in cui il regista ha cercato di tradurre in termini spettacolari la lezione di Artaud, che, sfiduciato nelle possibilità di comunicazione della parola, a suo avviso logorata da una tradizione retorica, si proclamava convinto della necessità di integrarla con il gesto, con una partecipazione totale del fisico, dei sensi, indispensabili per riprendere un dialogo con gli spettatori. Se Franco Molè come regista abbia cercato o meno di avvicinarsi a una regia artaudiana, è cosa di poca importanza. Ciò che conta, per una valutazione del suo lavoro, è vedere fino (31) - Massimo Dursi su Il Resto del Carlino p73 a che punto abbia dato corpo alle ilusioni rivestite di parole da Artaud. La recitazione di Molè è piuttosto convincente, molto aggressiva; ha una deformazione antinaturalistica apprezzabile per la sua chiarezza e una gestualità consonante; c'è un lavoro di ricerca sulla recitazione e la gestualità. Dalla parte delle interpreti femminili, c'è un decorativismo piacevole alla vista ma superficiale. Luisella Boni è Beatrice Cenci: estranea al suo tragico personaggio, dice con fredda efficacia la sua parte, offrendosi anche in atteggiamenti "osés". La scena dello stupro, che Artaud non si sogna nemmeno di mostrare, è colta, nella fig.26 nella sua fase finale. Beatrice è nuda, stesa sul letto, non reagisce alla violenza del padre. Incrociando le braccia sul petto assume una posizione da martire, come se il fatto fosse inevitabile, ma c'è sempre un sottofondo di ironia. Cenci sta dando libero sfogo a tutti i suoi istinti più bassi e animaleschi: la sua posizione in questo senso è illuminante. I vestiti di Beatrice, ammucchiati di lato, possono simboleggiare la sua purezza, che ormai la ragazza si è sfilata di dosso come una scomoda gonna di gommapiuma. Dopo la violenza però Beatrice comincia a pensare alla vendetta che le permetterà di riappropriarsi simbolicamente dei suoi vestiti. "Qualcosa si deve fare! Un'azione immensa che cancelli perfino l'ombra di questo delitto". E' a questo punto che Orsino le propone la vendetta personale: "Agite, ma agite in sordina. E' l'ora degli assassini p73 segreti (...) Per l'azione vera e propria ho due muti...". Questa è appunto la fig.27: i volti dei due ex-innamorati sono seri, tesi, danno 'impressione di stare macchinando le modalità dell'azione. L'unico segno dell'antico amore è il fatto che Orsino abbraccia le gambe alla donna, e rimane quindi un po' subordinato rispetto a lei. Nella foto si vede che Beatrice ha cominciato a rivestirsi, segno che ha cominciato a combattere. La fig.28 è l'immancabile scena dei sicari, una delle più riuscite ad Artaud. La differenza con la fig.16 è notevole; nello spettacolo del '35 la pantomima fra Beatrice e gli assassini muti era come un balletto fra i tre attori, soli sulla scena. Molè invece riempie il palcoscenico con tutti i partecipanti alla congiura, anche se il concetto di fondo rimane lo stesso: è solo Beatrice che uccide il padre. Lo vediamo dalla posizione delle due donne e dei sicari: Lucrezia ha paura e fa un gesto come di sgomento, mentre la giovane è fermamente determinata, con i pugni serrati come se impugnasse lei stessa i coltelli. I due uomini dimostrano anche in questa versione la loro funzione di automi, fantocci in mano ad una volontà più alta e decisa. I loro costumi ricordano curiosamente le carte da gioco di "Alice nel paese delle meraviglie"; anch'esse sono sottomesse totalmente alla loro regina (in questo caso Beatrice) e non hanno volontà propria. Sullo sfondo, a sinistra, è inevitabile la presenza della Chiesa, rappresentata qui da Camillo, la quale, con la sua lunga mano, ha sempre tessuto le fila di ogni macchina p73 zione. Beatrice torna ad essere completamente vestita perchè, compiendo il sacrificio, ha cancellato l'oltraggio. Ma la giustizia è già in movimento: Camillo accusa i Cenci di omicidio e li arresta per portarli alla tortura. Staccandosi completamente da Artaud, Molè elimina la ruota (vedere fig.18) e al suo posto mette una struttura a Y, che vorrebbe essere una croce, anche se un po' particolare. Beatrice, legata a questa struttura, è di nuovo svestita, anche se nega la sua colpa. Nella fig.29 è consolata da Bernardo, che ha con lei un rapporto ambiguo. (Atto IV sc.III) Nella stessa scena (fig.30), Beatrice si confronta con Camillo che le chiede di confessare, ma lei è diventata ormai la caricatura della martire: ne ha la posizione e ha perfino l'aureola. L'espressione di Camillo è quasi diverti- ta, c'è sempre un certo distacco. Convinto dal successo delle riduzioni sceniche degli Indifferenti e della Mascherata, nel 1954 Alberto Moravia, decide di fare egli stesso un'esperienza drammaturgica proprio intorno al personaggio di Beatrice Cenci. L'autore dichiara di aver voluto fare "un tentativo di tragedia elisabettiana con un argomento laziale del '500". Appare così subito evidente che la vicenda altro non è che un filo conduttore, un pretesto, non per offrirci uno spaccato di vita tardo- rinascimentale, nè per esporre delle convinzioni politiche, bensì "per dibattere sulla scena le grandi questioni dell'u p73 manità". Manca infatti in questo dramma l'intrigo politico, tutto sembra pettegolezzo. I personaggi sono ridotti al minimo indispensabile: Francesco, Lucrezia, Beatrice, Olimpio, Marzio. La tensione è mantenuta nella cellula familiare, e "l'intera azione si svolge nella Rocca della Petrella, lontano da Roma, ed è troncata subito dopo il delitto. L'economia così raggiunta dà al dramma un'unità esemplare". (32) Eccezion fatta per l'ambientazione nella sala principale della rocca con "alle pareti trofei di caccia" "pochi mobili massicci e rustici" e "tre grandi finestre...che danno il senso dello spessore delle muraglia", i riferimenti al tempo in cui i fatti accaddero sono pressocchè inesistenti: il tutto sembra svolgersi al di fuori dellla Storia, e gli anonimi stracci di cui sono vestite Beatrice e Lucrezia ne danno atto. Per quanto riguarda strettamente la vicenda, Moravia si è attenuto ai fatti riportati nella biografia storica di Corrado Ricci (33). In realtà la tragica storia si configura subito come un groviglio di moderne psicologie , di sentimenti visti alla luce dell'oggi, ed i grandi temi della letteratura dell'autore sono i veri protagonisti: la noia, il sesso, la disubbidienza, l'innocenza perduta. I personaggi sono delle funzioni, sono le parole che dicono, nessuno (32) - Nicola Chiaromonte - La situazione drammatica - 1960 (33) - Corrado Ricci - Beatrice Cenci - op.cit. p73 può essere preso come protagonista, ognuno è servo dell'altro. Ognuno di essi ha una storia diversa, è solo la situazione ad unirli, non certo un'equivalenza di desideri. Nella trgedia classica c'è un'azione centrale a cui tutti concorrono, tutti sono uniti da uno stesso intento, il pathos è massimo là dove gli animi s'incontrano per scontrarsi con un avversario che è unico (il Fato). In Moravia ogni singolo personaggio è chiuso ineluttabilmente in se stesso (dramma dell'incomunicabilità) è, indicativo in questo senso, sono i lunghi monologhi e il rifiuto di sapere per non entrare nel gioco (Marzio:"No, non ditemi nulla, me ne andrò e tornerò quando tutto sarà finito" Atto II sc.I; Lucrezia:"Io non voglio neppure sentire più nulla di questa morte... voglio soltanto...tornare a Roma e non sapere più nulla, non udire più nulla." Atto II sc.II). I personaggi, svuotati di volontà, non possono che avere desideri, sogni, trscendendo così la storia per divenire le maschere stesse di quei sogni. Le situazioni, di conzeguenza, sono subite ("Noi siamo i figli delle nostre azioni" Atto III sc.IV) e i gesti sono tanto gratuiti quanto inevitabili. Nella fase finale c'è un recupero della forma tragica: c'è l'arrivo di Lucrezia che racconta di aver sentito della venuta di un giudice (Tirone), assolvendo così la funzione del "messo"; mentre il giudice diviene il "coro" che chiude la tragedia con il suo commento. Moravia ci consegna così una Beatrice Cenci diversa da tutte le altre:"copia conforme del padre Francesco tragicamente p73 iniziata dallo stesso ad una vita che non abbia << il saporedella noia >>, quello della << vita normale >>. Beatrice non ha niente di candido in sè, non è la fanciulla che anche nel disperante Artaud grida sulla ruota << Accetto il delitto, ma nego la colpa >>; la libertà a cui aspira è quella del padre, cioè il disporre di una vita in cui piacere e potere siano gli unici fini. Beatrice ha già lasciato la sua innocenza in un'infanzia infangata dalle provocazioni paterne" (34), anche se quell'innocenza ella continua disperatamente a cercarla fino all'ultimo (35) ed è forse questo il motivo in lei dominante, questa brama di purezza, questo eccesso di innocenza che come tutti gli eccessi (Francesco lo sa) è ad un passo dalla perversione. (36) Momento centrale della rivelazione di Beatrice è quello in cui (Atto II sc.VI), essendo informata dal padre che egli vuole riportarla a Roma e maritarla, ella non ne vuole sapere ("Io non partirò di qui...perchè è troppo tardi") e, poi (sc.VII), fa credere agli altri che il cambiato atteggiamento del padre è solo una commedia per nascondere le sue (34) - Paolo Lucchesini, da La Nazione 24/6/84 (35) - Epilogo sc.III. Beatrice:"Io sono ancora la fanciulla che il giorno del delitto si guardava sbigottita le mani sporche di sangue..." (36) - Atto I sc.IV. Francesco:"Ma non vedi, Olimpio, che c'è relazione tra l'innocenza di Beatrice e l'eccesso delle punizioni che le infliggo?". E poi nell'atto I sc. VIII anche Marzio:"La figlia è fatta della stessa natura del padre: tanto il padre è eccessivo nella sua perversione, altrettanto lo è lei nella sua innocenza". p73 vere intenzioni. La figlia del conte Cenci dunque, mente. Lo fa consapevolmente, per i propri fini. La figura di Francesco esce dal dramma di Moravia rinnovata. L'autore ci offre un personaggio mefistofelico, un angelo che diventa maligno e rappresenta il Male, e lo fa costruendo una storia inverosimile: il conte Cenci è stato nei primi trent'anni della sua vita un vero gentiluomo, cortese, compito, leggiadro e anche pio, divenuto diverso poi a causa della noia. (" Ma la noia, Olimpio, la noia di tutto questo! Io non volevo essere un gentiluomo morto, bensì un uomo vivo. E allora scoprì per caso che tutto quello che facevo di buono e di bello mi uccideva, mentre il contrario mi restituiva alla vita." Atto I sc.V). Francesco diviene così un personaggio tutto novecentesco e giustificato dalla sua "incapacità di vivere" non meno degli altri ma sicuramente più consapevole di loro. Così dati ipersonaggi, la storia non può che essere quella. Padre e figlia sono troppo simili e quando un somigliante incontra se stesso, muore. Cenci violentando la figlia cerca di allontanare da sè l'immagine che ha di se stesso, poichè vede in lei quella parte di sè che ha rifiutato. Il dramma si muove in un'atmosfera immobile, fra le pareti di una stanza che sembrano vanificare i gesti e le parole dei personaggi, un tableaux vivent della noia e della indif ferenza; e anche quando il conte viene ucciso la tragedia è mancata. Il vero tragico di Moravia, che poi è quello con temporaneo, sta tutto lì in quella impossibilità di trage p73 dia, di esplosione delle passioni che rimangono imprigionate nella coscienza più o meno consapevole di ogniuno. Moravia " è riuscito a rappresentare la storia dei Cenci nelle sue fasi essenziali ", "ma non si può certo dire che sia riuscito a motivarla". "Se non c'è riuscito la ragione è che egli è rimasto fermo al significato privato della storia e non ne ha reso esplicito quello <> mostrando in Francesco, oltre che il padre mostruoso, il tiranno, e in Beatrice, oltre la parricida, la ribelle. Shelley, questo lo aveva fatto nel contesto del suo anarchismo angelico. Mora via avrebbe potuto farlo nel contesto del nichilismo contem poraneo." (37). Le rappresentazioni del testo moraviano sono tre, e più precisamente nel 1955, nel 1957 e nel 1984. All'Agosto del 1955 risale l'esordio sulle scene, al Teatro Santana di San Paolo del Brasile, ad opera della Compagnia del Teatro Italiano diretta da Lucio Ardenzi, con Anna Proclemer e Giorgio Albertazzi. L'accoglienza del pubblico e della critica non è delle migliori: "La Beatrice Cenci di Moravia non soddisfa pienamente. L'autore ha trovato l'equi valente teatrale delle sue analisi letterarie, manca però all'opera scenica il dominio dei mezzi tecnici specifi- ci" (38). Il 3 Agosto 1957, finalmente la "prima" italiana nella (37) - Nicola Chiaromonte - La Situazione drammatica - op. cit. p73 splendida cornice della Rocca di Senigallia, con la regia di Vito Pandolfi. Scene e costumi sono gli stessi della rappre sentazione sudamericana. Repliche si hanno nella piazza del Duomo di San Gimignano, a Fiesole e in altre piazze della provincia. Attori: Filippo Scelzo (Francesco), Gabriella Andreini (Beatrice), Elda Tattoli (Lucrezia), Fernando Cajati (Olimpio), Gianni Severoni (marzio) e Roberto Paolet ti (Tirone). Buona l'accoglienza del pubblico e della critica. "La regia di Vito Pandolfi accorta e intelligente, ha condotto al successo un testo un po' scabroso per la sua letterarietà, conferendogli agilità, ritmo e snellezza."(Lamberto Trezzi ni) (39). "Moravia ha trovato in Vito Pandolfi un collabora tore acuto e rispettoso, la cui discrezione è sembrata coincidere con la volontà di non sopraffare un testo, la cui ortodossia, dal punto di vista drammatico, poteva apparire perfino sconcertante." (Raul Radice). "L'interpretazione è stata eccellente: Filippo Scelzo è stato un Francesco quasi perfettamente malvagio e vizioso. Gabriella Andreini ha interpretato piuttosto bene il ruolo della protagonista, ruolo che tuttavia meritava una maggiore partecipazione da parte della giovane attrice." (Trezzini) " Non ultimo merito di Pandolfi, il quale disponeva di poco danaro, sta nell'a ver riunito un gruppo di attori non di primo piano (qualora si escluda Filippo Scelzo che ha dato vigoroso rilievo al (39) - Lamberto Trezzini - Sipario n.137 - 1957. p73 personaggio di Francesco), ma ben affiatati. Beatrice era una giovane alle prime prove, e la sua sicurezza, le intona zioni esatte, la volontà di penetrare il personaggio e la capacità di esprimerlo sono state accolte con aperto favore" (Radice) "Moltissima la gente che assisteva a Senigallia e molta anche a San Gimignano." (Trezzini) Purtroppo la critica si è soffermata molto sul testo di Moravia e ha liquidato la rappresentazione con poche parole. Forse ha pensato che questa non aggiungesse nulla di impor tante al dramma letterario, o forse la portata dell'avveni mento (uno scrittore così amato e contestato al tempo stesso alla sua prima prova con la drammaturgia) ha gettato la sua ombra sul lavoro di chi evidentemente ha avuto un ruolo più che altro di intermediario fra l'autore e il pubblico del teatro. Cerchiamo quindi di ricostruire la rappresentazione attraverso le foto di scena. Fig.31: Atto I sc.III. Da sinistra: Lucrezia, Beatrice, Marzio. Marzio annuncia il tradimento: non è Giacomo che sta arrivando bensì il signor Francesco ed Olimpio. "Segue un lungo silenzio, le due donne sono impietrite." (didascalia). Il volto di Beatrice è illuminato, il suo sguardo è rivolto al cielo ed è l'ultima volta che lo sarà. La fanciulla è colta qui nel momento di massima delusione, che lascia scoperta tutta la speranza che c'era in lei. E da questo momento la sfida è aperta tra lei e il cielo. Le due donne non sono proprio vestite di stracci come le descrive Mora via, ma i loro abiti hanno il sapore di una nobiltà consun p73 ta. Fig.32: Atto I sc.finale; in Moravia in realtà corrisponde alla VII delle 10 scene del I atto. Il regista ha evidente mente effettuato dei tagli. Se analizziamo le parti taglia te, vediamo che esse sono per lo più commenti dei personaggi all'accaduto, quindi non essenziali allo svolgimento dell'a zione. E' questo il momento in cui il padre ordina alla figlia di ritirarsi nella sua camera ("Vattene nella tua stanza e restaci finchè mi piacerà") dopo averle fatto confessare con un trabocchetto di aver mandato una lettera implorante aiuto al fratello Giacomo. Appare qui in tutta la sua evidenza il rapporto del padre con la figlia: Francesco (Filippo Scelzo) è un uomo possen te, barbuto come tutti gli uomini malvagi che si rispettino (a teatro, si sa, l'abito fa il monaco) ed è "ritratto" col braccio e l'indice tesi nell'atto imperioso dell'ordinare. In realtà la sua figura incute meno paura quando si osserva che egli è appoggiato ad una sedia, gesto che non si addice ad un uomo forte e ci ricorda che comunque il conte non è più tanto giovane. Di fronte a lui Beatrice in piedi, con la testa bassa, il suo corpo ritto si oppone al comando pater no. I due sono sullo stesso piano e non c'è molta distanza fra loro. Fig.33: stessa scena della precedente. "Francesco esce trascinando Beatrice". Si chiude così il I atto, con il padre che porta via con la forza la figlia p73 disubbidiente che non si dibatte, anzi si abbandona, subisce la situazione, poichè sa di essere impotente, ha la testa bassa e anche strisciando non sembra perdere la sua dignità. Fig.34: atto II sc.III. Francesco e Lucrezia. Stando al testo di Moravia, in scena dovrebbe esserci anche Marzio, ma qui non è visibile nè direttamente nè indirettamente dagli atteggiamenti e dalle espressioni degli altri due. E' possi bile ugualmente che egli ci sia visto che in realtà la sua funzione è più che altro quella di un servo di scena, di un regista interno. E' il momento in cui, fallito il piano dell'imboscata dei briganti a Cenci, il conte torna a casa e Lucrezia è incre dula nel vederlo ancora vivo. "Ma tu sei vivo, marito mio, sei vivo." E Francesco:"Ma che ti prende?" La donna è visi bilmente commossa. Chiusa com'è nel suo vestito dalle mani che così lunghe che sembrano imbalsamarla, Lucrezia è un personaggio al quale è negata ogni possibilità di azione. Fig.35: atto II sc.VI. Francesco e Beatrice. Il padre ha annunciato alla figlia che vuole portarla a Roma e maritarla, ma ella non ne vuole sapere. Francesco:"Beatri ce, tu devi obbedirmi" (la prende per un braccio). Beatrice:"Lasciatemi". E' questo il momento di scontro massimo fra i due. France sco, annoiato dalla sua stessa crudeltà, vuole cambiare, ma la figlia è lì a ricordargli che è troppo tardi. C'è stato qui un ulteriore avvicinamento, il padre ha giocato la parte del buono, la figlia ormai forte e disillusa lo ha contra p73 stato con coraggio, c'è quasi uno scambio di ruoli per capirsi meglio; scopertisi così uguali, lo scontro risulta inevitabile e Francesco fa appello alla sua autorità pater na. Scena fortemente drammatica, ci avevamo quasi creduto, peccato che ci sia l'orologio da polso di Filippo Scelzo a ricordarci che è tutta una finzione! Fig.36: atto II sc.X. Da sinstra: Francesco, Olimpio, Mar zio, Lucrezia, Beatrice. E' l'ora della cena. Francesco annuncia che vuole si parta tutti per Roma e invita tutti al matrimonio di Beatrice, chiede quindi un brindisi. ("Ora vi prego di bere alla mia salute e di augurarmi felicità e lunga vita".) La figlia del conte Cenci questa volta guarda il padre negli occhi, ormai sa quello che vuole, colui che le sta davanti per lei ora è già un fantasma, non le fa più paura. Fig.37: stessa scena della precedente. Notiamo qui che Olimpio, che nella foto precedente guardava Cenci, adesso ha lo sguardo basso, viceversa Lucrezia che prima fissava il pavimento adesso ha lo sguardo rivolto al marito, Marzio si è spostato venendo al di qua del tavolo centrale, L'unica a rimanere immobile è Beatrice. Non ci sono altre foto in cui ella guarda qualcuno in viso (lo vedremo poi anche in quelle con Olimpio), in fondo il suo unico interlocutore possibile è il padre, sia pure in nega tivo. E' ben visibile qui la sobria scenografia con "pochi mobili massicci e rustici" che rispetta il desiderio del drammatur p73 go. Fig.38: atto III quadro II sc.II. Da sinistra: Marzio, Lucrezia, Olimpio e "fuori campo" Beatrice. E' questa la scena in cui Lucrezia cerca di convincere Olimpio e Marzio a non commettere l'omicidio. L'attenzione dei tre è rivolta a qualcosa che non rientra nell'inquadra tura: è Beatrice. Lucrezia:"Non fatelo, non date retta a Beatrice, sarà la prima domani a ringraziarvi per non averlo fatto". Con l'espressione sconsolata, la mano tesa, il busto curvo in avanti, Lucrezia ha l'aspetto di una mendicante. Fig.39: stessa scena della precedente. Questa volta, però, Beatrice rientra nell'inquadratura. Lucrezia si getta supplice ai piedi di Olimpio, ma i due uomini pendono dalle labbra di Beatrice, aspettano che ella parli: seduta come una regina è lei che comanda il gioco. Lucrezia:"Non fatelo per l'amor di Dio". Olimpio:"Noi lo facciamo perchè la signora Beatrice lo vuole". Fig.40: atto III quadro II sc.V. Beatrice e Olimpio. Il delitto è già avvenuto, e Beatrice non è più determinata come prima, adesso trema e ha paura. Nella foto Olimpio cerca di rassicurarla, anche se il suo braccio protettivo non ha effetto sulla donna che è visibilmente tesa, anzi infastidita da quel gesto che è ben poca cosa rispetto al dramma che la sua coscienza vive. Gli sguardi dei due perso naggi non solo non si incrociano, ma non hanno neanche un punto di attenzione comune. La vicinanza dei loro corpi è direttamente proporzionale alla distanza dei loro spiriti: p73 ciò che li univa era una situazione (le prepotenze di Fran cesco), adesso che questa è cambiata (Francesco è morto) i due appaiono come due estranei, non hanno più niente da dirsi. Fig.41: ancora la stessa scena. E' qui ancora più evidente ciò di cui sopra. Fig.42: lo spettacolo è finito, gli attori ringraziano. Gli altri quattro attori guardano l'Andreini: questi applau si sono per lei."La sua sicurezza, le intonazioni esatte, la volontà di penetrare il personaggio e la capacità di espri merlo, sono state accolte con aperto favore" (Radice). L'ultima rappresentazione della Beatrice Cenci di Moravia risale al 1984: nella Sala delle Pietre del Palazzo Comunale di Todi apre la seconda "Settimana Tudertina", piccolo festival di teatro e musica. Regia di Enzo Siciliano. Scene e costumi di Flaminia Petrucci. Interpreti: Isabella Martel li (Beatrice), Livia Montanari (Lucrezia), Giorgio Crisafi (Olimpio), Luigi Diberti (Francesco), Sergio Rubini (Marzio). "Enzo Siciliano, che è alla sua seconda prova registica, ha sfrondatoe snellito alquanto il copione originario, concen trandolo nell'arco di un centinaio di minuti: la durata se si vuole di un film di media lunghezza"(Aggeo Savioli)(40). "Opportunamente tagliata da Siciliano; bene l'aver chiuso la tragedia con l'annuncio dell'arrivo dell'inquisitore: l'epi (40) - Aggeo Savioli - da l'Unità, 26/6/1984. p73 logo non sarebbe stato che una ripetizione dei fatti" (Paolo Lucchesini) (41). "Gli estremi sviluppi della trama sono lasciati in sospeso, e tutto si risolve in un'attesa tra angosciosa e annoiata (che potrebbe ripetersi all'infinito come in un inferno sartriano) per la punizione dei colpevoli. (Savioli) "Enzo Siciliano, poi, ha messo molto del suo come regista traspo nendo la tragedia dal 1599 agli anni del suo concepimento, con la Rocca che diventa una casa di campagna arredata con un bric à brac di mobili polverosi. (Lucchesini). "Ambienta to lo spettacolo su uno spazio frontale molto ampio, all'in terno di una scenografia architettonica assai suggestiva, congruamente arredata, priva di sipario e di quinte, è quasi come se gli attori qui agissero sopra un largo schermo." E ancora: "Gli abiti che gli attori indossano sono novecevte schi, ma variamente retrodatati, con una accentuazione di signorilità provinciale tra decadente e snob." (Savioli). "Beatrice e Lucrezia in abito da cocktail." (Lucchesini). "Ogni tanto da un registratore ascono raffiche di ballabili moderni e, ad un certo punto, Beatrice impugna una piccola rivoltella. E' una scelta legittima ma anche acuta della regia." (Roberto De Monticelli).(42)."Il contributo degli interpreti è stato determinante a cominciare da Luigi Diber ti. Eccellente anche Isabella Martelli, Beatrice insinuante, (41) - Paolo Lucchesini - articolo cit. (42) - Roberto De Monticelli - Il Corriere della Sera - 26/6/84. p73 diabolica." (Lucchesini). "La recitazione ha più la qualità di una lettura, seppur concitata e drammatica, che di una interpretazione vera e propria. Sincera con buoni momenti, ma forse priva della fosca determinazione che il ruolo del titolo richiederebbe, Isabella Martelli." (De Monticelli). "Certo, agli interpreti si richiede uno sforzo particolare, che non tutti sono in grado di fornire al meglio. La Martel li ha una sua ombrosa e scontrosa grazia, tale da farci intravvedere ancora e sempre, nel profilo di Beatrice, i lineamenti di un'altra indimenticabile creatura moraviana, la Carla de Gli Indifferenti." (Savioli). "Molti applausi al termine per attori, regista e Alberto Moravia, festeggiatis simo." (Lucchesini). Uno spettacolo, dunque, questo del Siciliano, sicuramente nuovo e originale. La storia di Beatrice Cenci è qui solo una trama sottile, per mostrare il vero volto della tragedia moraviana: i costumi e la scenografia contemporanei altro non sono che la più naturale concretizzazione di un testo che è tutto novecentesco. Fig.43: prima parte del dramma. Beatrice e Francesco. Vediamo subito Beatrice in primo piano: in abito da sera scollatissimo, con guanti lunghi che sono il simbolo di seduzione per eccellenza, ella è "sdraiata" sul tappeto, dove dovrebbe avercela buttata il padre; in realtà, se non conoscessimo la storia, potremmo anche pensare che la donna (perchè il termine fanciulla qui è quanto mai inadeguato) si sia stesa di sua spontanea volontà. L'espressione del suo p73 volto è ambigua: un misto di dolore e piacere. E'evidente qui che siamo lontani sia dalla cinquecentesca figura esile di fanciulla degna di pietà popolare, sia dall'eroina o dall'angelo idealizzati dal Romanticismo. Il padre, sopra di lei non è più un essere diabolico, ma in uomo con i suoi pensieri e desideri. Sullo sfondo i mobili disordinati della scenografia di Flaminia Petrucci. Fig.44: Beatrice ed Olimpio. Sicuramente il delitto è già avvenuto poichè i due sono distanti, e la posizione del corpo di Beatrice, nonchè dei suoi piedi, dà l'idea di uno scatto all'indietro. L'espres sione del volto di lei e soprattutto dei suoi occhi sbarrati è tipica di una donna afflitta da nevrosi. Il volto di Olimpio non è ben visibile, ma ingiacchettato e con le spalle basse e curve, non ci dà l'impressione di una gran personalità: "insipida anima bella da fotoromanzo" lo defi nisce il critico Nico Garrone. (43). Fig.45: Beatrice e Lucrezia. Dopo il delitto, Beatrice cerca di calmare la matrigna; anche qui "donne sull'orlo di una crisi di nervi." (43) - Nico Garrone - La Repubblica - 10/4/84. p73 A R T E ---------------- Immancabili all'appello arrivano anche i pittori e gli scultori a dare un volto finalmente al nostro personaggio. Sicuramente l'immagine più popolare di Beatrice è quella del quadro (cm75x50) conservato alla Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma. (fig.46). La leggenda vuole che l'autore sia Guido Reni, il quale avrebbe ritratto la condannata in prigione prima della morte. Su questa paternità e sulla credibilità di una simile storia, critici d'arte e storici hanno versato fiumi d'in chiostro, creando così una querelle che tutt'oggi sembra non essersi spenta. I primi dubbi sull'attribuzione al Reni sorgono nel 1787 a Friedrich Wilhelm Basilius von Ramdohr per il quale il dipinto risponde profondamente al gusto settecentesco. Sottrarsi però al fascino di una fanciulla ritratta nelle sue ultime ore di vita, risulta difficile. Così l'800 conti nua a vedere stampe e dipinti raffiguranti il pittore bolo gnese all'opera. (figg.47;48;49). Lo stesso Shelley nel 1819 commenta: "Il ritratto di Beatri ce nel Palazzo Colonna (44) è un vero capolavoro: fu fatto (44) - Il quadro nel 700 appartiene alla collezione Colonna, solo a 800 inoltrato passa a quella Barberini. (45) - P.B.Shelley - Prefazione a The Cenci - op.cit. p73 da Guido durante la sua permanenza in prigione. Ma è altresì interessante come gradevole modello di naturale abilità. Ritroviamo nella figura una tranquilla e pallida compostez za: sembra triste e affranta nello spirito anche se la disperazione così espressa è illuminata da una dolce rasse gnazione. La testa è avvolta nelle pieghe di un bianco tubante da cui si dipanano, per ricaderle sul collo, bionde ciocche dei suoi capelli. I tratti del volto sono squisita mente delicati, le sopracciglia spiccate e ad arco; le labbra mantengono quella sensibilità che la sofferenza non riesce a cancellare e che forse nemmeno la morte potrebbe soffocare. La fronte è spaziosa e gli occhi, che ci hanno colpito per la loro vivacità, pur essendo appannati e gonfi di lacrime, rimangono di una bellezza dolce e serena. L'in tera figura è pervasa da quella semplice dignità che, insie me con la squisita gradevolezza e la profondità della tri- stezza, la rendono così inesprimibilmente patetica". (45). Ed effettivamente il dipinto in questione, sarà pure una coincidenza, riflette la descrizione che di Beatrice danno le cronache: "La più parte delle cronache la descrivono piccola, ma di portamento grazioso, con occhi belli, naso profilato, guance rotonde con fossette tali che parea sempre sorridere e pure al mento una fossetta, e bella bocca e bionda capigliatura inanellata, che cadendole giù per la fronte le dava una grazia bellissima". (46). (46) - A. Vecchini - La Lettura - op.cit. p73 Nel 1877 però il Bertolotti constata che il quadro non è riportato nei vecchi inventari della collezione Barberini, e che la figura ivi rappresentata non era affatto un angelo innocente. (47). Nel 1837 esce uno scritto del prof.Giuseppe Costa intitolato "Beatrice Cenci e il mistero di un ritratto svelato" (48) In questa pubblicazione l'autore sostiene che il famigerato dipinto non sia autentico e che sia invece una libera imita zione di un altro molto più bello di cui egli ha preso visione. (fig.48). Mettendo a confronto i dipinti Costa sottolinea la superio rità, in quanto a bellezza, dell'<>: "Nella <> invece tutto tradisce uno studio d'imita zione libera e non fedele nella visione coloristica resa un po' sorda e plumbea. Nel viso è afflosciato tutto l'ovale magnifico dell'originale: gli occhi sono languidi, il naso un po' schiacciato...la bocca di forma molto comune... secco nel disegno..." L'autore aggiunge a sostegno di se stesso: "Le mie impressioni e il mio così reciso giudizio non si creda che siano sorti da un immediato e rapido confronto dei due dipinti, ma sono frutto di attento esame, di lungo studio e di minuziosa analisi fatta in parecchi anni." L'attribuzione del "suo" originale al Reni sembra ovvia all'autore, visto lo stile perfettamente consono all'artista (47) - A.Bertolotti - F.Cenci e la sua famiglia - op.cit. (48) - G.Costa - B.Cenci e il mistero... - 1937. p73 bolognese, e a questo proposito egli propone un confronto fra il viso di Beatrice e quello di San Michele Arcangelo (sempre del Reni) nella Chiesa dei Cappuccini a Roma (fig.49): i due volti sono molto simili. La leggenda popolare, infatti, vuole che il volto dell'Ar cangelo raffiguri Beatrice, mentre il diavolo schiacciato dai suoi piedi è Clemente VIII. Sembra così chiarito il mistero; ma ancora nel 1951 Ottorino Monntenovesi scrive: "Quali fossero le fattezze del volto di Beatrice finora non era dato sapere. Il famoso ritratto, già nella Galleria Barberini, dipinto da Guido Reni, non si riferisce certo a lei, e riguarda un'amica o una modella del Reni medesimo".(49) Il critico non fa nessun riferimento allo studio del Costa, e che non ne fosse a conoscenza sembra un po' improbabile. Passa poi ad illustrare la sua scoperta: "Di recente invece ho potuto esaminare un busto in marmo (fig.50) scolpito sul finire del secolo decimosesto, di proprietà dei discendenti di Lucrezia Petroni. Ritrae la stessa Beatrice...di grandezza naturale...Sul davanti della base è inciso, in caratteri capitali, un nome: <>; al di dietro una data: <<1598>>, nella forma meno usitata: <>. Il capo è coperto da un drappo a larghe pieghe...gli occhi hanno le palpebre molto abbassate...il naso è piuttosto lungo...piccola invece la bocca...sul mento una fossetta". Montenovesi conclude poi che tale busto è (49) - Ottorino Montenovesi - Capitolium n.9-10 - 1951. p73 l'unico ritratto esistente di Beatrice Cenci.