ANALISI ESTETICA a cura di: PAOLO MENEGHETTI

LA FINESTRA

(Gianni Maria Tessari inquadra lo “psicologismo”!)

   Secondo lo psicologo Anton Ehrenzweig, il più “fortunato” fenomeno estetico induce a manifestare (grazie alla coeva “percezione oculare”, resa da parte di qualsivoglia spettatore esterno) una “forma… di rappresentazione mentale” (adesso, intendiamo una tipica essenza concettualistica!) davvero molto “articolata”. Per lui, quando si va a contemplare una certa opera d’arte, accade che ogni normale “fruitore” conclusivo tenda a… semplificarla (parlando in chiave visiva). La considera dotata di un “aspetto” alquanto elementare, ovvero “articolato” (nella misura in cui tutte le sue diverse qualità accidentali vengono “collegate” fra di loro, così da “formare” una sola figura oculare). Tale semplificazione percettiva costituisce un problema tipicamente “gestaltico” (in chiave psicologistica).

   Tra l’altro, accade che Tessari decida di dipingere molte finestre, le quali (seguendo lo studio di Winny Scorsone) simboleggiano talune surreali (quantunque più decisive) “lenti … d’ingrandimento metropolitano”. Basta osservare la loro precisa disposizione: si percepiscono (agli occhi del coevo spettatore) come (tendenzialmente) assai ravvicinate, così da occupare gran parte della sottostante “parete murale (architettonica)”. Alla fine, pare che ogni diverso palazzo (di volta in volta ripreso) si trovi a “riflettere” quasi completamente. In alternativa, si può notare l’inserimento (ancor più strano!) di poche finestre (in molti casi, appena due…), proprio di fronte ai grigi condomini abitativi (secondo una “scala di grandezza” volutamente sproporzionata), come se in realtà queste non appartenessero sul serio ai suddetti edifici. Qui, la resa finale ci porta a credere che le “aperture” (davvero estese!) vogliano essenzialmente “zoomare… se stesse”. Esse stanno quasi a dimostrare che dietro di loro compare un mondo ancora “intensivo” (s’intende: rivitalizzato, mutevole, sentimentale), anziché un rione appena banalmente grigio. Invece, al di fuori di questo nuovo tempo… “dinamico” (tutt’altro che passivamente “appiattito”, dal più “regolare” tran-tran quotidiano), sembra che le strade s’incrocino assieme, senza però portare (sul serio) da qualche parte. Ovviamente, si cerca di dipingere il monotono “reticolo urbanistico”, dove ciascuna via non può mai “uscire” (verso la campagna ancora incontaminata).

   Naturalmente, è anche vero che l’arte degli uomini primordiali risulta del tutto inconscia. Lì, abbondano i “simbolismi sessuali”, mentre la necessaria (coeva) rimozione gestaltica (tesa a formalizzare la nostra visione) resta persino troppo “stilizzata”. Nel disegno rupestre, allora, notiamo che la correlata semplificazione è decisamente poco “articolata” e concettualistica. Dunque, tale creazione artistica rimane (per converso) molto inconscia, se la sua (ineluttabile) “accordatura gestaltica” ci pare persino massimamente… “elementare” (essenziale). Ancora una volta, si tratta di accettare una tesi alquanto ambivalente, secondo la quale, quando la tipica “semplificazione percettiva” (in primis, di stampo visivo) venga per così dire accentuata, succede che lo spettatore esterno non sappia più riconoscere alcuna precisa “figura di rappresentazione”. Ovviamente, è proprio a causa di questa sottile “esperienza gestaltica” che noi andiamo a “condensare” (insieme) tutte le varie forme dettagliate, adesso riunificate in una sola “icona” generalizzante. Dunque, la “stilizzazione” risulta fortemente simbolistica (nella misura in cui vagheggia, dentro di sé, un gran numero di altre eventuali figure similari). Ehrenzweig parla di una possibile condensazione percettiva, come se il nostro coevo “senso oculare” (dopo aver “intravisto”, in chiave mentale, la già citata sovrapposizione prospettica) perdesse la propria consueta “intensità” di… definizione (ossia, la più opportuna “sensibilità per delineare al meglio ogni singola forma”).

   Ora, è curioso sottolineare che Gianni Maria Tessari ha deciso di dipingere molti murales urbani, inseriti dentro ai “necessari” palazzi urbani. Valga come utile esempio (in merito a questa frequente nuova “direttiva” pittorica) la tela chiamata GMT 1 (colorata ad olio, risale al 2006). Il murales compare sulla sinistra del quadro, e sembra quasi “raccontare” (al coevo spettatore esterno, ma pure al piccolo “uomo” che viene dipinto lungo la strada) una vera e propria “favola” del nostro “tempo… metropolitano”. Fuor di metafora, noi sosteniamo la tesi per cui esso desidera “stilizzare” (virtualmente) tutti i più “comodi” codici linguistici moderni, “costruibili” (o meglio, edificati…) in base a tante banali “convenzioni” culturali. Dunque, il murales ci fa tornare… indietro nel tempo, esattamente perché attesta (simbolicamente) la già citata finestra… “intensamente” psicanalitica. Ricordiamo che solo mediante questa noi possiamo vivere in maniera sul serio “attiva”, passionale, felice. Il murales si manifesta attraverso una grafica (una trascrizione… di “codici linguistici”!) puramente “elementare”, primitiva: in poche parole, si “racconta” in via del tutto favolistica. Esso va “sciogliendo” (a condensare, ripetendo la bella espressione usata da Ehrenzweig…) la più banale parola convenzionale, la quale viene anche “sovrapposta… in se stessa”. Ciò accade dal momento che questa singolare “grafica” tende a confondere (fra di loro) i segni letterali (esasperandone le dimensioni!). In fondo, riteniamo che il writer “urbano” operi in modo tale da rendere la “sua” parete quasi illeggibile, con ogni esito svanente (o “liquefatto”!) del caso. Basta sapere che, molto spesso, la si dipinge tramite l’aerografo: una tecnica di colorazione decisamente poco “grumosa”, ed anzi alquanto… acquosa.

   Per Umberto Eco la più tipica abduzione intellettuale va a connotare ciascuna “normale” percezione umana. Ciò accade dal momento che questa resta di certo “semplificata” in via concettuale (necessariamente, a causa della già appurata compresenza di un dato “segno”!), ma solo dopo un primo imput di stampo per così dire… “informale” (ivi, disarticolato). Una conclusione “induttiva”, quantunque espressa sulla base di un dettagliato incipit fenomenico puramente… probabilistico.

   Quando Tessari porta a compimento la sua pregevole tela chiamata Fabbriche e navi (dipinta ad olio, risale al 2006), ci sembra che intuisca un simile problema estetico. Prima di analizzare il suddetto quadro, va opportunamente ricordato che le sue ultime produzioni d’arte sono volte a mettere in mostra molti edifici urbani, ognuno dei quali ci fa vedere talune grosse tubature architettoniche. In alcune tele, le consuete “finestre temporali” (parecchio espressionistiche!) tendono a scomparire, mentre la “prospettiva di costruzione pittorica” viene di solito conservata (“correttamente”, senza grandi “errori” di valutazione tecnica). Nel dipinto chiamato Fabbriche e navi, le tubazioni sono diverse (forse, persino… “marittime”!), nonché fortemente stilizzate. Queste si “visualizzano” tramite un percorso alquanto spezzato, dandoci la sensazione di potersi “allacciare” le une con le altre, dopo (unicamente) un mero imput di “articolazione percettiva”. Facendo un esempio assai più concreto, sembra davvero che le tubature si “contattino” a vicenda, esattamente come accade per la nostra (evoluta!) reazione di “sinapsi cerebrale” (la trasmissione di un dato “messaggio mentale”…). Una conclusione, francamente, densa di buone complicazioni “cognitivistiche”! Ancora una volta, Tessari ci lascia intendere come il fondamentale principio gestaltico della “semplificazione concettuale” governi qualunque normale percezione visiva.

   Ad ogni modo, le allusive “tubature… cerebrali” (ivi dipinte) si pongono in chiave sul serio probabilistica, nella misura in cui “procedono” ben oltre il mero limite “materiale” del quadro. Le condutture, infatti, vengono viste in maniera tale da “superare” la tela (varcandone i necessari lati di demarcazione interna). Anche se la scelta di dipingere una più “centralizzata” finestra temporale ci pare meno frequente (nei confronti dei “vecchi” lavori attuati), la volontà di oltrepassare il mero (“piatto”) edificio urbano non manca per nulla! Tale sottolineatura si connota in via completamente “probabilistica” (considerato che noi capiamo la tesi per cui bisogna superare la tela, e tuttavia senza sapere davvero dove si deve andare a “finire”!), con ogni chiara conclusione semiotica (o meglio, abduttiva…) del caso.

   Per i numerosi psicologi della Gestalt, prima di “sentire”, ci viene chiesto di accertare che qualsivoglia “contenuto intenzionale” (ora, s’intende: una data immagine da… formalizzare) s’origina a partire da un background cerebrale di “vecchi” significati mentali. Essi sono, improvvisamente, da riattivare (perché giudicati come già “vincolati” a quello!). Si tratta, qui, di accettare una tesi olistica (in merito alla nostra normale “facoltà intellettuale”). Seguendo alcune note riflessioni di Searle, sosteniamo che vi sia una vera e propria “rete”… di contenuti intenzionali (a livello cognitivo), con ogni venatura subito “pre-giudiziale” del caso! Inoltre, dobbiamo anche valutare la dimensione “contestuale” dentro a ciascun diverso “significato percettivo”. Se, ad esempio, noi sappiamo già che una buona torta non si può tagliare con il martello edilizio, ciò viene inteso a causa del mero (momentaneo) ambiente di configurazione mentale. Searle ritiene che questo sia il cosiddetto “sfondo… sensoriale” (nell’accezione più semplicemente fisica e quasi empiristica del caso).

   Una conclusione filosofica molto interessante, che (forse) serve per connotare (in chiave solo estetica) un gran numero di tele varate da Gianni Maria Tessari. Qui, possiamo studiare il quadro chiamato Scritture (dipinto ad olio, risale al 2006). Adesso, l’artista torinese sceglie di rappresentare la solita “finestra temporale”, da affacciare sul nostro (davvero alienante) mondo eccessivamente urbanizzato. Soprattutto, notiamo che va subito ritornando il motivo (falsamente “decorativo”, ed anzi parecchio simbolistico!) della più “semplicistica” cornice… primitiva. Nello specifico, la superficie “semiotica” (linguistica!) occupa gran parte del nostro campo di percezione visiva. Per tali motivi, gli spettatori sono tentati di immaginare altre numerose “aperture murali”. Ciò accade proprio perché noi scopriamo, tramite gli occhi (qui, subito “articolanti”!) una chiara successione di questi “codici… quasi cementati (edilizi)”. Le nuove cornici nascoste, ivi definite fra ciascun diverso (e piccolo) “ideogramma linguistico”, vogliono stilizzare ogni “normale” finestra gestaltica. Per riuscire a scovarle, noi dobbiamo guardare le tre linee di “squadratura centrale” (tinteggiate con il colore bianco).

   Ancora una volta, Tessari ci invita a capire che la nostra coeva “osservazione esteriore” va trascrivendo una fila di singole “semplificazioni mentali”. Ovviamente, esse restano in grado di formalizzare la vista (attraverso una fondamentale “inquadratura… concettualistica”). Il titolo conferito alla tela è dunque assai indicativo (in chiave semiotica), mentre i piccoli ideogrammi oculari si “colorano” in modo alquanto variegato. Forse, succede che questi vogliano riprodurre (simbolicamente parlando) proprio i coni ed i bastoncelli retinici. La loro precisa forma strutturale (per cui, ora, tutti i vari “disegni primitivi” si combinano assieme attraverso la linea spezzata, o con la curvatura convessa…) ricorda (sul serio) le più “naturali” cellule visive. Alla fine, ci sembra che Tessari abbia deciso di studiare (in termini ovviamente artistici!) un tipico assunto gestaltico, secondo il quale la percezione retinica procede tramite una serie di continue “occhiate seriali”. La successione dei “codici visivi” (qui, caricata di una sfumatura parecchio semiotica, considerata la sua evidente stilizzazione di ramo linguistico) recupera alcune tesi di Searle. In realtà, ci pare che la “cornice” dipinta da Gianni Maria Tessari vada a “configurare” (idealmente) una vera e propria “rete” di contenuti intenzionali. Tutte le nuove “aperture percettive”, allora, si pensano in modo prettamente olistico, nella misura in cui ciascuna di loro forma (o meglio “semplifica”…) una più estesa “finestra temporale” (momentanea, contestuale) solo perché si combina con quelle maggiormente “vicine”.

   Anche Hundertwasser ha dipinto numerose “finestre architettoniche” (esattamente come nel caso di Gianni Maria Tessari), proprio allo scopo di far “sprofondare” ciascuna banale “angolatura… rettamente squadrata”. Inoltre, il celebre pittore austriaco si è focalizzato sul tanto più “pratico” (e “tecnologico”) uso delle classiche tubature urbanistiche. Secondo lui, le comode condutture edilizie permettono la migliore “canalizzazione”, in seno alla nostra intera vita… “statalizzata” (residenziale, anagrafica). Ciascun singolo cittadino è tale appena in quanto abilitato a ricevere la televisione, il gas, l’acqua, la corrente elettrica, il telefono, ecc… Alla fine, sembra quasi che gli uomini non debbano più “faticare” ad agire in prima persona (ad esempio, andando privatamente a prendere la legna per scaldarsi in casa, oppure recandosi da soli dal proprio amico che risiede lontano). Secondo Hundertwasser, accade che noi (ormai) risultiamo tenuti in vita… appena in modo “artificiale”.

   Il “tema estetico” inerente alla pittura della più caratteristica tubatura cittadina riguarda, apertamente, molte opere concretate da Tessari. Valga come utile esempio la tela (dipinta ad olio, e risalente al 2006) intitolata Reparto 6.

   Tessari sa perfettamente che la città postmoderna ha “attaccato” pure la vecchia periferia naturale. Dunque, perché la si possa (sul serio) “rivitalizzare” al meglio, non resta che “forare” (virtualmente parlando) i numerosi condomini residenziali (provando ad “abbatterli”!), grazie al già anticipato “artifizio estetico” della finestra. Lungi dal volerci invitare a guardare al di fuori (ossia, verso l’amena campagna… incontaminata!), proprio a causa del netto predominio antropologico e tecnicistico (ora, forse incontrovertibile), essa va osservata (ambiguamente!) dal di dentro. In sostanza, dobbiamo tornare a vedere la nostra “dimensione naturale”, che ci connota (l’uno con l’altro, diversamente…) tramite la più personale anima interiore. Bisogna che ci “affacciamo”… dentro di noi, in modo tale da “riscoprire” la Vita. Essa, qui, viene intesa nell’accezione essenzialmente attiva del termine (di contro ad ogni banale grigiore cittadino, ivi “imposto” da ciascuna coeva organizzazione statale). Recuperando (opportunamente) la dottrina di Ehrenzweig, crediamo che Tessari ci “spinga” a vedere una dimensione molto più inconscia (la stessa che, peraltro, origina ciascuna mera “semplificazione concettualistica”!). Le finestre da lui dipinte si trovano a “vibrare”, ma (curiosamente) il vento naturale in grado di farle “dondolare” non è per nulla “esteriore” (materiale, empiristico), bensì del tutto personale (intimo).

   Qui, bisogna ricordare la precisa spiegazione di Anton Ehrenzweig, secondo la quale tutti gli osservatori umani possono “intravedere” mediante una serie di occhiate… successive. Una conclusione assai dinamica, caricata di molti echi inconsci, dal momento che (in fin dei conti) tale ambiguità di percezione resta subito “nascosta” (naturalmente, sotto la più “semplice” articolazione formalizzante, commentata dai gestaltisti). Quando Tessari vara le sue ripetute finestre dell’anima, ci pare che il Tempo si “rivitalizzi” (attraverso l’acquisizione di un vero e proprio “ritmo”… visivo!). Adesso, questo non sembra più solo passivamente “arrestato”, bensì mosso di continuo, secondo una “scala di vibrazione tonale” (attenzione: pure a livello appena cromatico!), subito assolutamente eterna… Tale suggestione deriva dal preciso fatto per cui tutte le infinite “linee di demarcazione (di misurazione…) temporale” si guardano come se fossero accerchiate fra di loro. A volte, sembra che ciò avvenga in modo forse “spiroidale”: una “conclusione figurativa” già molto “praticata” dal medesimo Hundertwasser!

   L’artista torinese Om Bosser ha sostenuto che le stesse “persone” a mano a mano dipinte da Tessari (nei suoi diversi quadri) risultano quasi “irrigidite” (o meglio, stilizzate), secondo la consueta tesi della semplificazione gestaltica. Tuttavia, egli non manca di riconoscere che tali “individui” vengono realizzati con l’uso di una tinteggiatura alquanto “evasiva” (confusa), e dunque già… “intensamente vibrante”. Così, ci sembra che le persone ivi dipinte possano “partecipare” sul serio del nuovo vitalismo dinamico (magari, scegliendo di “fuggire” dal più banale “appiattimento urbanistico”). In tal senso, noi aggiungiamo che Gianni Maria Tessari ha (espressamente) ventilato l’esistenza “estetica” di un misterioso Punto al di là di una mera “ombra figurativa”. Nello specifico, egli giunge persino a definirlo, con il preciso nome di Oltre. Questo strano “punto” di percezione visiva può degnamente simboleggiare (qui, riportiamo le medesime parole adoperate da Tessari) la risalita “naturale” dell’erba. Nello specifico, se noi camminiamo in qualche prato, andiamo (immediatamente…) a lasciare il “segno” del nostro incedere, con la mera “impronta” del passo. Ma tale orma è (comunque!) destinata a risalire: per certi versi, essa tende ad “oltrepassare”… se stessa (considerato che l’erba già comincia a ricrescere). Di nuovo, noi rinveniamo il serio “problema gestaltico” di definire al meglio la nota sovrapposizione percettiva. Una dimensione, questa, che il più “duro” asfalto urbanistico non può mai manifestare (visto che il “calpestio” stradale manca di far “risalire” la Natura!). Per Gianni Maria Tessari, l’Oltre identifica pure il corpo di qualche uomo abbandonato in riva al mare. Anche qui si nota la consueta sovrapposizione percettiva (s’intende: laddove nessuno fra gli eventuali osservatori sappia davvero chiarire se lui si trovi al di là della terraferma, od invece prima che si tocchi l’acqua). Allora, tali (fantomatiche) “illustrazioni percettive” si caricano di grosse complicazioni ambivalenti (già prettamente “dialettiche”). Forse, l’esempio inerente al corpo depositato sulla riva del mare rimane più calzante e raffinato. Ciò accade proprio allorché noi accettiamo la tesi per cui il Punto d’Oltre entra nel merito di una vera “contrapposizione fenomenica”, la quale resta però alquanto confusa da “chiarire” (con sicura precisione).

   Quando Gianni Maria Tessari porta a compimento la sua interessante tela chiamata Il mio vestito era fatto d’acqua (dipinta ad olio, risale al 2001), ci sembra che intuisca un simile problema estetico. In verità, la decisione di “inquadrare” un più “inconscio” ambiente fluviale (si riconoscono, qui, alcuni graziosi canneti vegetali) viene “concretata” mediante la consueta sovrapposizione percettiva (commentata dalla Gestalt). Ancora una volta, valutiamo che il “manto erboso” (ubicato lungo le rive) vada a “comprimersi”. Il canneto, in fondo, assume una forma molto stilizzata: curiosamente, ciò resta vero anche in ambito puramente “naturale” (s’intende: nella condizione più materialmente “vegetale” del caso!). A tratti, ci sembra di ritrovare persino le solite (minute) figure umane (vagamente malcelate). Ad ogni modo, noi giudichiamo che, in questo nuovo “lavoro” pittorico, la risaputa sovrapposizione visiva (tanto amata dagli psicologi della Gestalt) si accompagni ad una buona condensazione percettiva. Basta considerare (subito) la tipica “ambientazione” prescelta, espressamente acquatica (una descrizione, dunque, ricca di grandi “complicazioni… liquefatte”!). Naturalmente, il criptico vestito cui il curioso titolo vuole rimandare continua ad essere quello del mero… pregiudizio gestaltico (teso a “facilitare” le varie forme di percezione). Ad ogni modo, sosteniamo che il coevo spettatore della tela non possa davvero “sapere” (con buona sicurezza) se il suo abito semplificante (in chiave concettualistica!) venga “indossato” prima di toccare l’acqua, oppure al di là della più “stabile” terraferma. Una conclusione tesa a “visualizzare” il già citato Punto d’Oltre pittorico (in via presto “dialettica”)!

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