(Gianni
Maria Tessari inquadra lo “psicologismo”!)
Secondo lo psicologo Anton Ehrenzweig, il più “fortunato” fenomeno
estetico induce a manifestare (grazie alla coeva “percezione oculare”, resa
da parte di qualsivoglia spettatore esterno) una “forma… di rappresentazione
mentale” (adesso, intendiamo una tipica essenza concettualistica!)
davvero molto “articolata”. Per lui, quando si va a contemplare una certa
opera d’arte, accade che ogni normale “fruitore” conclusivo tenda a… semplificarla
(parlando in chiave visiva). La considera dotata di un “aspetto”
alquanto elementare, ovvero “articolato” (nella misura in cui tutte
le sue diverse qualità accidentali vengono “collegate” fra di loro, così
da “formare” una sola figura oculare). Tale semplificazione
percettiva costituisce un problema tipicamente “gestaltico” (in chiave
psicologistica).
Tra l’altro, accade che Tessari decida di dipingere molte finestre,
le quali (seguendo lo studio di Winny Scorsone) simboleggiano talune surreali
(quantunque più decisive) “lenti … d’ingrandimento
metropolitano”. Basta osservare la loro precisa disposizione: si percepiscono
(agli occhi del coevo spettatore) come (tendenzialmente) assai ravvicinate,
così da occupare gran parte della sottostante “parete murale
(architettonica)”. Alla fine, pare che ogni diverso palazzo (di volta in volta
ripreso) si trovi a “riflettere” quasi completamente. In alternativa,
si può notare l’inserimento (ancor più strano!) di poche finestre (in molti
casi, appena due…), proprio di fronte ai grigi condomini abitativi
(secondo una “scala di grandezza” volutamente sproporzionata), come
se in realtà queste non appartenessero sul serio ai suddetti edifici.
Qui, la resa finale ci porta a credere che le “aperture” (davvero estese!)
vogliano essenzialmente “zoomare… se stesse”. Esse stanno quasi a
dimostrare che dietro di loro compare un mondo ancora “intensivo” (s’intende:
rivitalizzato, mutevole, sentimentale), anziché un rione appena banalmente
grigio. Invece, al di fuori di questo nuovo tempo… “dinamico”
(tutt’altro che passivamente “appiattito”, dal più “regolare” tran-tran
quotidiano), sembra che le strade s’incrocino assieme, senza però
portare (sul serio) da qualche parte. Ovviamente, si cerca di dipingere il monotono
“reticolo urbanistico”, dove ciascuna via non può mai “uscire”
(verso la campagna ancora incontaminata).
Naturalmente, è anche vero che l’arte degli uomini primordiali risulta
del tutto inconscia. Lì, abbondano i “simbolismi sessuali”, mentre la
necessaria (coeva) rimozione gestaltica (tesa a formalizzare la
nostra visione) resta persino troppo “stilizzata”. Nel disegno
rupestre, allora, notiamo che la correlata semplificazione è decisamente
poco “articolata” e concettualistica. Dunque, tale creazione artistica
rimane (per converso) molto inconscia, se la sua (ineluttabile) “accordatura
gestaltica” ci pare persino massimamente… “elementare”
(essenziale). Ancora una volta, si tratta di accettare una tesi alquanto
ambivalente, secondo la quale, quando la tipica “semplificazione percettiva”
(in primis, di stampo visivo) venga per così dire accentuata,
succede che lo spettatore esterno non sappia più riconoscere alcuna precisa “figura
di rappresentazione”. Ovviamente, è proprio a causa di questa sottile
“esperienza gestaltica” che noi andiamo a “condensare” (insieme) tutte
le varie forme dettagliate, adesso riunificate in una sola
“icona” generalizzante. Dunque, la “stilizzazione” risulta
fortemente simbolistica (nella misura in cui vagheggia, dentro di sé, un
gran numero di altre eventuali figure similari). Ehrenzweig parla di una
possibile condensazione percettiva, come se il nostro coevo “senso
oculare” (dopo aver “intravisto”, in chiave mentale, la già citata sovrapposizione
prospettica) perdesse la propria consueta “intensità” di…
definizione (ossia, la più opportuna “sensibilità per delineare al
meglio ogni singola forma”).
Ora, è curioso sottolineare che Gianni Maria Tessari ha deciso di
dipingere molti murales urbani, inseriti dentro ai “necessari” palazzi
urbani. Valga come utile esempio (in merito a questa frequente nuova
“direttiva” pittorica) la tela chiamata GMT 1 (colorata ad olio,
risale al 2006). Il murales compare sulla sinistra del quadro, e sembra
quasi “raccontare” (al coevo spettatore esterno, ma pure al piccolo
“uomo” che viene dipinto lungo la strada) una vera e propria “favola”
del nostro “tempo… metropolitano”. Fuor di metafora, noi sosteniamo la
tesi per cui esso desidera “stilizzare” (virtualmente) tutti i più
“comodi” codici linguistici moderni, “costruibili” (o meglio, edificati…)
in base a tante banali “convenzioni” culturali. Dunque, il murales ci
fa tornare… indietro nel tempo, esattamente perché attesta
(simbolicamente) la già citata finestra… “intensamente” psicanalitica.
Ricordiamo che solo mediante questa noi possiamo vivere in maniera sul
serio “attiva”, passionale, felice. Il murales si manifesta
attraverso una grafica (una trascrizione… di “codici linguistici”!)
puramente “elementare”, primitiva: in poche parole, si “racconta” in via
del tutto favolistica. Esso va “sciogliendo” (a condensare,
ripetendo la bella espressione usata da Ehrenzweig…) la più banale parola
convenzionale, la quale viene anche “sovrapposta… in se stessa”.
Ciò accade dal momento che questa singolare “grafica” tende a confondere
(fra di loro) i segni letterali (esasperandone le dimensioni!). In fondo,
riteniamo che il writer “urbano” operi in modo tale da rendere la
“sua” parete quasi illeggibile, con ogni esito svanente (o
“liquefatto”!) del caso. Basta sapere che, molto spesso, la si dipinge
tramite l’aerografo: una tecnica di colorazione decisamente poco
“grumosa”, ed anzi alquanto… acquosa.
Per Umberto Eco la più tipica abduzione intellettuale va a
connotare ciascuna “normale” percezione umana. Ciò accade dal
momento che questa resta di certo “semplificata” in via concettuale (necessariamente,
a causa della già appurata compresenza di un dato “segno”!), ma solo dopo
un primo imput di stampo per così dire… “informale” (ivi, disarticolato).
Una conclusione “induttiva”, quantunque espressa sulla base di un
dettagliato incipit fenomenico puramente… probabilistico.
Quando Tessari porta a compimento la sua pregevole tela chiamata Fabbriche
e navi (dipinta ad olio, risale al 2006), ci sembra che intuisca un simile
problema estetico. Prima di analizzare il suddetto quadro, va opportunamente
ricordato che le sue ultime produzioni d’arte sono volte a mettere in mostra
molti edifici urbani, ognuno dei quali ci fa vedere talune grosse tubature
architettoniche. In alcune tele, le consuete “finestre temporali”
(parecchio espressionistiche!) tendono a scomparire, mentre la “prospettiva di
costruzione pittorica” viene di solito conservata (“correttamente”,
senza grandi “errori” di valutazione tecnica). Nel dipinto chiamato Fabbriche
e navi, le tubazioni sono diverse (forse, persino… “marittime”!),
nonché fortemente stilizzate. Queste si “visualizzano” tramite un
percorso alquanto spezzato, dandoci la sensazione di potersi
“allacciare” le une con le altre, dopo (unicamente) un mero imput di
“articolazione percettiva”. Facendo un esempio assai più concreto, sembra
davvero che le tubature si “contattino” a vicenda, esattamente come accade
per la nostra (evoluta!) reazione di “sinapsi cerebrale” (la trasmissione
di un dato “messaggio mentale”…). Una conclusione, francamente, densa
di buone complicazioni “cognitivistiche”! Ancora una volta, Tessari ci
lascia intendere come il fondamentale principio gestaltico della
“semplificazione concettuale” governi qualunque normale percezione
visiva.
Ad ogni modo, le allusive “tubature… cerebrali” (ivi dipinte) si
pongono in chiave sul serio probabilistica, nella misura in cui
“procedono” ben oltre il mero limite “materiale” del quadro. Le
condutture, infatti, vengono viste in maniera tale da “superare” la tela (varcandone
i necessari lati di demarcazione interna). Anche se la scelta di dipingere
una più “centralizzata” finestra temporale ci pare meno frequente
(nei confronti dei “vecchi” lavori attuati), la volontà di oltrepassare
il mero (“piatto”) edificio urbano non manca per nulla! Tale
sottolineatura si connota in via completamente “probabilistica” (considerato
che noi capiamo la tesi per cui bisogna superare la tela, e tuttavia
senza sapere davvero dove si deve andare a “finire”!), con ogni
chiara conclusione semiotica (o meglio, abduttiva…) del caso.
Per i numerosi psicologi della Gestalt, prima di “sentire”, ci
viene chiesto di accertare che qualsivoglia “contenuto intenzionale”
(ora, s’intende: una data immagine da… formalizzare) s’origina a
partire da un background cerebrale di “vecchi” significati mentali.
Essi sono, improvvisamente, da riattivare (perché giudicati come già
“vincolati” a quello!). Si tratta, qui, di accettare una tesi olistica
(in merito alla nostra normale “facoltà intellettuale”). Seguendo alcune
note riflessioni di Searle, sosteniamo che vi sia una vera e propria “rete”…
di contenuti intenzionali (a livello cognitivo), con ogni venatura subito
“pre-giudiziale” del caso! Inoltre, dobbiamo anche valutare la dimensione
“contestuale” dentro a ciascun diverso “significato percettivo”. Se,
ad esempio, noi sappiamo già che una buona torta non si può tagliare
con il martello edilizio, ciò viene inteso a causa del mero (momentaneo) ambiente
di configurazione mentale. Searle ritiene che questo sia il cosiddetto “sfondo…
sensoriale” (nell’accezione più semplicemente fisica e quasi empiristica
del caso).
Una conclusione filosofica molto interessante, che (forse) serve per
connotare (in chiave solo estetica) un gran numero di tele varate da Gianni
Maria Tessari. Qui, possiamo studiare il quadro chiamato Scritture (dipinto
ad olio, risale al 2006). Adesso, l’artista torinese sceglie di rappresentare
la solita “finestra temporale”, da affacciare sul nostro (davvero alienante)
mondo eccessivamente urbanizzato. Soprattutto, notiamo che va subito ritornando
il motivo (falsamente “decorativo”, ed anzi parecchio simbolistico!)
della più “semplicistica” cornice… primitiva. Nello specifico, la
superficie “semiotica” (linguistica!) occupa gran parte del nostro campo
di percezione visiva. Per tali motivi, gli spettatori sono tentati di
immaginare altre numerose “aperture murali”. Ciò accade proprio
perché noi scopriamo, tramite gli occhi (qui, subito “articolanti”!) una
chiara successione di questi “codici… quasi cementati (edilizi)”.
Le nuove cornici nascoste, ivi definite fra ciascun diverso (e piccolo)
“ideogramma linguistico”, vogliono stilizzare ogni
“normale” finestra gestaltica. Per riuscire a scovarle, noi dobbiamo
guardare le tre linee di “squadratura centrale” (tinteggiate con il colore
bianco).
Ancora una volta, Tessari ci invita a capire che la nostra coeva
“osservazione esteriore” va trascrivendo una fila di singole
“semplificazioni mentali”. Ovviamente, esse restano in grado di formalizzare
la vista (attraverso una fondamentale “inquadratura…
concettualistica”). Il titolo conferito alla tela è dunque assai indicativo
(in chiave semiotica), mentre i piccoli ideogrammi oculari si
“colorano” in modo alquanto variegato. Forse, succede che questi vogliano
riprodurre (simbolicamente parlando) proprio i coni ed i bastoncelli retinici.
La loro precisa forma strutturale (per cui, ora, tutti i vari “disegni
primitivi” si combinano assieme attraverso la linea spezzata, o con la
curvatura convessa…) ricorda (sul serio) le più “naturali” cellule
visive. Alla fine, ci sembra che Tessari abbia deciso di studiare (in
termini ovviamente artistici!) un tipico assunto gestaltico, secondo il quale la
percezione retinica procede tramite una serie di continue “occhiate
seriali”. La successione dei “codici visivi” (qui, caricata di una
sfumatura parecchio semiotica, considerata la sua evidente stilizzazione di ramo
linguistico) recupera alcune tesi di Searle. In realtà, ci pare che la
“cornice” dipinta da Gianni Maria Tessari vada a “configurare”
(idealmente) una vera e propria “rete” di contenuti intenzionali.
Tutte le nuove “aperture percettive”, allora, si pensano in modo prettamente
olistico, nella misura in cui ciascuna di loro forma (o meglio
“semplifica”…) una più estesa “finestra temporale”
(momentanea, contestuale) solo perché si combina con quelle
maggiormente “vicine”.
Anche Hundertwasser ha dipinto numerose “finestre architettoniche”
(esattamente come nel caso di Gianni Maria Tessari), proprio allo scopo di far
“sprofondare” ciascuna banale “angolatura… rettamente squadrata”.
Inoltre, il celebre pittore austriaco si è focalizzato sul tanto più
“pratico” (e “tecnologico”) uso delle classiche tubature urbanistiche.
Secondo lui, le comode condutture edilizie permettono la migliore
“canalizzazione”, in seno alla nostra intera vita… “statalizzata”
(residenziale, anagrafica). Ciascun singolo cittadino è tale appena in
quanto abilitato a ricevere la televisione, il gas, l’acqua, la corrente
elettrica, il telefono, ecc… Alla fine, sembra quasi che gli uomini non
debbano più “faticare” ad agire in prima persona (ad esempio,
andando privatamente a prendere la legna per scaldarsi in casa, oppure
recandosi da soli dal proprio amico che risiede lontano). Secondo
Hundertwasser, accade che noi (ormai) risultiamo tenuti in vita… appena in
modo “artificiale”.
Il “tema estetico” inerente alla pittura della più caratteristica tubatura
cittadina riguarda, apertamente, molte opere concretate da Tessari. Valga
come utile esempio la tela (dipinta ad olio, e risalente al 2006) intitolata Reparto
6.
Tessari sa perfettamente che la città postmoderna ha “attaccato” pure
la vecchia periferia naturale. Dunque, perché la si possa (sul serio)
“rivitalizzare” al meglio, non resta che “forare” (virtualmente
parlando) i numerosi condomini residenziali (provando ad “abbatterli”!),
grazie al già anticipato “artifizio estetico” della finestra. Lungi
dal volerci invitare a guardare al di fuori (ossia, verso l’amena
campagna… incontaminata!), proprio a causa del netto predominio
antropologico e tecnicistico (ora, forse incontrovertibile), essa va
osservata (ambiguamente!) dal di dentro. In sostanza, dobbiamo tornare a vedere
la nostra “dimensione naturale”, che ci connota (l’uno con
l’altro, diversamente…) tramite la più personale anima interiore.
Bisogna che ci “affacciamo”… dentro di noi, in modo tale da
“riscoprire” la Vita. Essa, qui, viene intesa nell’accezione essenzialmente
attiva del termine (di contro ad ogni banale grigiore cittadino, ivi
“imposto” da ciascuna coeva organizzazione statale). Recuperando
(opportunamente) la dottrina di Ehrenzweig, crediamo che Tessari ci “spinga”
a vedere una dimensione molto più inconscia (la stessa che, peraltro,
origina ciascuna mera “semplificazione concettualistica”!). Le
finestre da lui dipinte si trovano a “vibrare”, ma (curiosamente) il vento
naturale in grado di farle “dondolare” non è per nulla “esteriore”
(materiale, empiristico), bensì del tutto personale (intimo).
Qui, bisogna ricordare la precisa spiegazione di Anton Ehrenzweig,
secondo la quale tutti gli osservatori umani possono “intravedere”
mediante una serie di occhiate… successive. Una conclusione assai dinamica,
caricata di molti echi inconsci, dal momento che (in fin dei conti) tale ambiguità
di percezione resta subito “nascosta” (naturalmente, sotto la più
“semplice” articolazione formalizzante, commentata dai gestaltisti).
Quando Tessari vara le sue ripetute finestre dell’anima, ci pare che il
Tempo si “rivitalizzi” (attraverso l’acquisizione di un vero e proprio “ritmo”…
visivo!). Adesso, questo non sembra più solo passivamente “arrestato”,
bensì mosso di continuo, secondo una “scala di vibrazione tonale”
(attenzione: pure a livello appena cromatico!), subito assolutamente eterna…
Tale suggestione deriva dal preciso fatto per cui tutte le infinite “linee
di demarcazione (di misurazione…) temporale” si guardano come se
fossero accerchiate fra di loro. A volte, sembra che ciò avvenga in modo
forse “spiroidale”: una “conclusione figurativa” già molto
“praticata” dal medesimo Hundertwasser!
L’artista torinese Om Bosser ha sostenuto che le stesse “persone” a
mano a mano dipinte da Tessari (nei suoi diversi quadri) risultano quasi
“irrigidite” (o meglio, stilizzate), secondo la consueta tesi della semplificazione
gestaltica. Tuttavia, egli non manca di riconoscere che tali “individui”
vengono realizzati con l’uso di una tinteggiatura alquanto “evasiva”
(confusa), e dunque già… “intensamente vibrante”. Così, ci sembra
che le persone ivi dipinte possano “partecipare” sul serio del nuovo
vitalismo dinamico (magari, scegliendo di “fuggire” dal più banale “appiattimento
urbanistico”). In tal senso, noi aggiungiamo che Gianni Maria Tessari ha
(espressamente) ventilato l’esistenza “estetica” di un misterioso Punto
al di là di una mera “ombra figurativa”. Nello specifico, egli giunge
persino a definirlo, con il preciso nome di Oltre. Questo strano “punto”
di percezione visiva può degnamente simboleggiare (qui, riportiamo le
medesime parole adoperate da Tessari) la risalita “naturale” dell’erba.
Nello specifico, se noi camminiamo in qualche prato, andiamo (immediatamente…)
a lasciare il “segno” del nostro incedere, con la mera “impronta” del passo.
Ma tale orma è (comunque!) destinata a risalire: per certi versi, essa
tende ad “oltrepassare”… se stessa (considerato che l’erba già
comincia a ricrescere). Di nuovo, noi rinveniamo il serio “problema
gestaltico” di definire al meglio la nota sovrapposizione percettiva.
Una dimensione, questa, che il più “duro” asfalto urbanistico non può
mai manifestare (visto che il “calpestio” stradale manca di far
“risalire” la Natura!). Per Gianni Maria Tessari, l’Oltre identifica pure il
corpo di qualche uomo abbandonato in riva al mare. Anche qui si nota
la consueta sovrapposizione percettiva (s’intende: laddove nessuno fra
gli eventuali osservatori sappia davvero chiarire se lui si trovi al
di là della terraferma, od invece prima che si tocchi l’acqua).
Allora, tali (fantomatiche) “illustrazioni percettive” si caricano di grosse
complicazioni ambivalenti (già prettamente “dialettiche”). Forse,
l’esempio inerente al corpo depositato sulla riva del mare rimane più
calzante e raffinato. Ciò accade proprio allorché noi accettiamo la tesi per
cui il Punto d’Oltre entra nel merito di una vera “contrapposizione
fenomenica”, la quale resta però alquanto confusa da “chiarire”
(con sicura precisione).
Quando Gianni Maria Tessari porta a compimento la sua interessante tela
chiamata Il mio vestito era fatto d’acqua (dipinta ad olio, risale al
2001), ci sembra che intuisca un simile problema estetico. In verità, la
decisione di “inquadrare” un più “inconscio” ambiente fluviale
(si riconoscono, qui, alcuni graziosi canneti vegetali) viene “concretata”
mediante la consueta sovrapposizione percettiva (commentata dalla Gestalt).
Ancora una volta, valutiamo che il “manto erboso” (ubicato lungo le rive)
vada a “comprimersi”. Il canneto, in fondo, assume una forma molto stilizzata:
curiosamente, ciò resta vero anche in ambito puramente “naturale”
(s’intende: nella condizione più materialmente “vegetale” del
caso!). A tratti, ci sembra di ritrovare persino le solite (minute) figure
umane (vagamente malcelate). Ad ogni modo, noi giudichiamo che, in questo
nuovo “lavoro” pittorico, la risaputa sovrapposizione visiva (tanto
amata dagli psicologi della Gestalt) si accompagni ad una buona condensazione
percettiva. Basta considerare (subito) la tipica “ambientazione”
prescelta, espressamente acquatica (una descrizione, dunque, ricca di
grandi “complicazioni… liquefatte”!). Naturalmente, il criptico vestito
cui il curioso titolo vuole rimandare continua ad essere quello del mero… pregiudizio
gestaltico (teso a “facilitare” le varie forme di percezione). Ad
ogni modo, sosteniamo che il coevo spettatore della tela non possa
davvero “sapere” (con buona sicurezza) se il suo abito semplificante (in
chiave concettualistica!) venga “indossato” prima di toccare l’acqua,
oppure al di là della più “stabile” terraferma. Una conclusione
tesa a “visualizzare” il già citato Punto d’Oltre pittorico (in
via presto “dialettica”)!