Zingari le radici
dell'odio
E’ utile ricordare come fu possibile, appena sette-otto decenni fa, la
distruzione degli zingari nei
campi tedeschi. Non fu un piano di sterminio accanitamente premeditato, in
origine non nacque
nella mente di Hitler. Nel libro Mein Kampf si parla di ebrei, non di
zingari. La distruzione (in
lingua rom Poràjmos, il «grande divoramento») ha le sue radici nella
volontà tenace, insistente,
delle campagne e delle periferie urbane tedesche: un fiume di ripugnanza
possente, antico, che la
democrazia di Weimar non arginò ma assecondò. Chi ha visto il film di
Michael Haneke Il nastro
bianco sa come prendono forma i furori che accecano la mente, escludono il
diverso, infine
l’eliminano perché sia fatta igiene nella famiglia, nel villaggio, nella
nazione. Anche
l’antisemitismo ha radici simili, tutti i genocidi sono favoriti da silenziosi
consensi.
Ma l’odio dei Rom e dei Sinti (zingari è dal secolo scorso
nome spregiativo) riscuote consensi particolarmente vasti. È un odio che ancor
oggi s’esprime liberamente, nessun vero tabù lo vieta: in parte perché è sepolto
nelle cantine degli animi, dove vive indisturbato; in parte perché è
un’avversione non del
tutto razziale; in parte perché il loro genocidio non ha generato l’interdizione
sacra tipica del tabù.
A differenza di quello che accadde per gli ebrei, nel dopoguerra non si innalzò
in Europa una diga
fatta di vergogna di sé, di memoria che sta all’erta. Si cominciò a parlare
tardi degli zingari, i libri
che narrano la loro sorte sono sufficienti ma non molti. E’ strano come Sarkozy,
figlio di un
ungherese, non abbia ricordo, quando decide l’espulsione dei rom, di quel che
essi patirono in Europa orientale.
È strano che non ricordi quel che patiscono ancor oggi nei
Paesi da cui fuggono,
perché l’Est europeo è uscito dalle dittature denunciando il totalitarismo
comunista ma non i
nazionalismi etnici, non l’ideologia che mette il cittadino purosangue al di
sopra della persona: in
Romania, Bulgaria, Ungheria, i rom sono trattati, nonostante il genocidio, come
sotto-persone.
Rimpatriarli spesso è condannarli ancor più. È anche un’ipocrisia, perché come
cittadini europei i
rom possono tornare in Francia o Italia senza visti. Spesso vengono chiamati
romeni. Sarebbe bene
sapere che i Rom sono detestati dalla maggioranza dei Romeni. Ovunque, la crisi
economica li trasforma in capri espiatori.
Il più delle volte non è la razza a svegliare
esecrazione. È il modo di
vivere itinerante. L’Unione, allargandosi nel 2004 e 2007, ha accolto
anche questa comunità
speciale, per vocazione non sedentaria, originaria dell’India, insediatasi nel
nostro continente
cinque-sei secoli fa, ripetutamente perseguitata.
Una direttiva europea restringe la libera circolazione se l’ordine pubblico è
turbato, ma la direttiva
vale per i singoli e comunque decadrà nel dicembre 2013. Non è chiaro chi oggi
abbia ricominciato
questa storia di esclusioni, di muri che separando i nomadi dal cittadino
«normale» impedisce loro di divenire sedentari se vogliono, di trovar lavori, di
non cadere nelle mani di mafie. È probabile che Berlusconi e Bossi abbiano
svolto un ruolo d’avanguardia: un ruolo di «modello per l’Europa»,
ha detto monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes
della Cei (La Stampa,
22 agosto). Molti governi dell’Est si sono sentiti legittimati dall’Italia,
Paese fondatore dell’Unione.
Ora Sarkozy si fa megafono del fiume d’esecrazione. La parola
che ha ripetuto più volte, parlando
di immigrati, di rom e di delinquenza a Grenoble, era «guerra». Nello stesso
discorso, il Presidente
ha annunciato che il cittadino di origine straniera colpevole di delitti perderà
la nazionalità francese
(la parola décheance, revoca, rimanda a déchet, pattume). La
democrazia non ci protegge da simili
deviazioni, proprio perché la volontà del popolo è il suo cardine. Giuliano
Amato lo spiega bene, in
un articolo sul Sole-24 Ore del 22 agosto: ci sono momenti, e la crisi economica
è uno di questi, in
cui può crearsi un conflitto mortale fra i due imperativi democratici che
sono l’esigenza del
consenso e quella di preservare la propria civiltà.
Il leader democratico ansioso di raccogliere immediati consensi vince forse alle
urne, ma non salva
necessariamente la civiltà («Non a caso nell’assetto istituzionale delle
democrazie si distingue fra
istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali prevalgono le ragioni del
consenso, e istituzioni non
maggioritarie di garanzia, in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero
prevalere le ragioni della
civiltà codificate proprio in quei diritti a cui le maggioranze sono meno
sensibili»). Sono rari, nei
moderni Stati-nazione, i leader che sappiano tener conto di ambedue gli
imperativi, e nei momenti
critici anteporre le esigenze della civiltà a quelle del consenso. Quando Obama
si dichiara non
contrario alla costruzione di una moschea nei pressi di Ground Zero
difende la costituzione laica e
la storia americana lunga, non la storia tra un sondaggio e l’altro.
Il consenso sente di doverselo creare a partire da qui,
sapendo che può anche perderlo. In genere, quando i governanti esaltano
ogni minuto la sovranità e le emozioni del popolo non è il popolo a governare:
sono le oligarchie, i
poteri segreti, le mafie. Anche la nostra Costituzione ha lo sguardo
lungo, e non a caso dà la
preminenza alla persona, più ancora che al cittadino. Tutti gli
articoli che concernono i diritti
fondamentali (libertà, divieto della violenza, inviolabilità del domicilio,
responsabilità penale,
diritto alla salute) parlano non di cittadini ma di persone o individui, e
precedono la Costituzione
stessa.
Il nomadismo è una forma di vita che tende a scomparire, ma resta una forma
della vita umana. Il
non aver fissa dimora, il vivere in roulotte, il muoversi in carovane («in
orde», era scritto nei decreti
d’espulsione ai tempi di Weimar e di Hitler): tutto ciò è parte della
cultura dei Rom e Sinti. Lo è
anche la scelta di adottare la religione dei Paesi in cui vivono: è
l’integrazione che prediligono da
secoli. Come tutti i cittadini anch’essi delinquono, specie se vessati. I più
sono cittadini
plurisecolari dei Paesi in cui girovagano o si sedentarizzano. Da noi, l’80 per
cento dei Rom sono
italiani. Non sono mancate le proteste contro la politica francese (700 rimpatri
entro settembre):
nell’Onu, nell’Unione europea. Hanno protestato anche importanti leader
della destra: primo fra
tutti Dominique de Villepin, secondo cui oggi esiste sulla bandiera una «macchia
di vergogna».
Resta tuttavia il fatto che i Rom non hanno un Elie Wiesel,
che in loro nome trasformi il divieto di
odio in tabù. Possono contare solo sulla Chiesa, memore della parabola del
Samaritano e della storia
d’Europa. L’Europa e le costituzioni postbelliche sono state escogitate
per evitare simili ricadute,
sempre possibili quando il nazionalismo etnico di tipo ottocentesco riprende il
sopravvento. Le
strutture imperiali erano più propizie alla diversità, e il compito di uscire
dalle gabbie etniche e
restaurare autorità superiori a quelle degli Stati sovrani spetta al potere
superiore che in tanti ambiti
giuridici oggi s’incarna nell’Unione.
È l’Europa che deve ripensare lo statuto dei Rom: permettendo loro di continuare
a viaggiare, di
trovar lavoro, di difendersi dalle mafie, di rispettare la legge e l’ordine. Nel
quindicesimo secolo,
quando migrarono in Europa, gli zingari avevano una protezione-salvacondotto
universale, non
nazionale o locale: la protezione del Papa e quella dell’Imperatore. Solo una
protezione di natura
universale può garantire «le legittime diversità umane» cui ha accennato
Benedetto XVI
nell’Angelus pronunciato in francese il 22 agosto. Oggi i Rom hanno la
protezione del Papa. Quella
dell’Imperatore (della politica) è crudelmente latitante.
Barbara Spinelli La Stampa 29 agosto 2010