L’Italia come una
caserma? Lo fa temere una litania di fatti, che stanno
rovesciando molte nostre abitudini sociali. Te n’accorgi alla partita di
pallone, con i divieti di trasferta decretati dal ministro Maroni, e con
la tolleranza zero negli stadi. Nelle relazioni con domestici e badanti,
da quando sempre Maroni espelle gli immigrati a brutto muso, smantella i
campi nomadi, confisca gli appartamenti in affitto ai clandestini. A
scuola, dopo il ritorno del 7 in condotta stabilito dal ministro Gelmini.
Al mercatino, perché il ministro Scajola ha dichiarato guerra a chi
acquista griffe contraffatte. Camminando nei quartieri periferici, dove
il ministro La Russa ha inviato ronde di soldati. In fila allo
sportello, dal giorno in cui il ministro Brunetta ha cominciato a
licenziare gli impiegati troppo lavativi. Nei rapporti di lavoro, come
mostra la mano dura del ministro Sacconi con i sindacati di Alitalia.
Perfino nei costumi sessuali, giacché il ministro Carfagna ha deciso
d’arrestare su due piedi lucciole e clienti.
Questo atteggiamento muscolare, quest’indirizzo delle maniere forti si
propaga per cerchi concentrici, come l’onda sollevata da un sasso sulla
cresta del lago. Ha origine in un atto del governo, viene poi subito
emulato da tutti gli altri apparati dello Stato. Dalla polizia stradale,
che ha iniziato a prendere sul serio le norme contro l’alcolismo. Dalla
magistratura, che senza l’altolà di Alfano avrebbe processato la
Guzzanti per aver spedito all’inferno il Santo Padre. Da 8 mila sindaci
travestiti da sceriffi, che in nome del decoro urbano proibiscono
l’accattonaggio (Assisi), il tramezzino in pubblico (Firenze), le
massaggiatrici in spiaggia (Forte dei Marmi), la sosta in panchina per
più di due persone (Novara), le effusioni in auto (Eboli), le bevande in
vetro nelle ore serali (Genova). Ma il giro di vite risponde a una
domanda ormai corale da parte di chiunque sia investito di qualche
responsabilità sulla nostra vita collettiva: è un ritornello, un tic.
L’ultima proposta viene dal presidente della Lega calcio Matarrese, che
reclama celle negli stadi, anche perché le patrie galere hanno esaurito
i posti a sedere.
Fosse successo appena l’anno scorso, non si sarebbero contati
gli scioperi, i sit-in, i presidi antifascisti. Invece tutti zitti,
contenti e applaudenti. Il vento dell’autoritarismo gonfia le vele del
governo, trasforma la sua navigazione in gara solitaria, senza scogli,
senza avversari: l’ultima rilevazione di Euromedia gli
assegna un gradimento record del 67,1%. C’è in questo l’unanime condanna
del lassismo, che fin qui ci sommergeva. C’è in secondo luogo il lascito
del biennio Prodi, una reazione di rigetto contro la chiacchiera elevata
ad arte di governo, contro lo stallo, la non decisione. C’è in terzo
luogo il tarlo dell’insicurezza, che rode le nostre esistenze
individuali. Insicurezza anzitutto economica, con l’impoverimento della
classe media e con l’affamamento dei ceti popolari; ma l’incertezza sul
futuro si traduce in un bisogno d’ordine, scarica pulsioni intolleranti,
imputa al maghrebino che raccoglie pomodori tutta la colpa se il lavoro
è poco. E c’è in quarto luogo l’espulsione dalle assemblee parlamentari
delle due sole tradizioni politiche schiettamente antiautoritarie,
quella liberale e quella della sinistra libertaria e anarchica. A fare
opposizione dura e pura resta Di Pietro, però il suo movimento non ha
mai osteggiato l’uso del manganello sulla testa degli indisciplinati.
Questi elementi non bastano tuttavia a spiegare il nuovo clima che ha
attecchito sui nostri territori. Perché tale fenomeno s’accompagna
a una mutazione antropologica, e perché è stato l’uomo nuovo a generare
il nuovo clima, non il contrario. Riecheggia a questo riguardo
la lezione d’uno psicologo nazista, Jaensch, poi rilanciata da Fromm e
Adorno: ogni governo autoritario ha bisogno di una «personalità
autoritaria», ossia d’un popolo zelante verso i superiori, sprezzante
nei confronti dei più deboli. Non è forse questa la chiave di
lettura del razzismo che soffia come un mantice sulla società italiana?
E non sgorga da qui la doccia di gesso che ha spento le vampate d’odio
sulla Casta? Improvvisamente la nostra società si è risvegliata
docile, addomesticata. Alla cultura del conflitto,
il sale dei sistemi liberali, abbiamo sostituito tutt’a un tratto il
culto del potere, delle gerarchie, dell’ordine. E il centro-destra si è
limitato a intercettare questo sentimento, a dargli sfogo, sia pure
riesumando fossili come le case chiuse o la verga del maestro.
L’obbedienza non è più una virtù, diceva nel 1965 don Milani. Infatti:
quarant’anni dopo, si è tramutata in vizio.
MICHELE
AINIS
La
Stampa 23/09/08 |