Vivere significa
migrare: ogni identità è una relazione
conversazione di Claudio Magris con Édouard Glissant
Le radici — ha scritto Édouard Glissant — non hanno da sprofondarsi nel buio
atavico delle origini,
alla ricerca di una pretesa purezza; si allargano in superficie, come rami
di una pianta, ad incontrare
altre radici e a stringerle come mani. Con tale immagine forse ispirata
dalla vegetazione tropicale
della sua Martinica e sviluppata in splendidi saggi, Glissant — questo
discendente di schiavi che è
oggi uno dei grandi scrittori del mondo — fornisce la giusta risposta
all’equivoco e lacerante
dilemma tra la paura della globalizzazione che omologa e cancella le diversità e
l’esasperazione
delle diversità stesse, ognuna delle quali si chiude regressivamente alle altre
in un gretto micronazionalismo.
Nato nella Martinica nel 1928, amico di Césaire e attivo nella
difesa della propria e di ogni cultura
minacciata, Glissant afferma che ogni identità e il mondo stesso si costruiscono
nella relazione, in
un processo creativo e armonioso che egli definisce «creolizzazione»,
ispirandosi al creolo, la
lingua nata dal francese o meglio dai dialetti francesi (per esempio, il
normanno) dei padroni di
schiavi e dalla parlata di questi ultimi. Essa è divenuta una «lingua franca»
dei Caraibi —
arcipelago di civiltà differenti, Mediterraneo oceanico e tropicale — e anzi
lingua franca per
eccellenza, crogiolo e fusione di culture che si incontrano, si mescolano e si
trasformano senza
perdersi. Così, nella letteratura e nella stessa persona di Glissant si
amalgamano i neri strappati
all’Africa dalla tratta e portati a coltivare la canna da zucchero nelle
Antille, i francesi un tempo
loro padroni e gli altri gruppi, dagli antichi e quasi estinti caraibi agli
indiani, ai cinesi, ai siriani
giunti in diversi momenti in quello straordinario caleidoscopio antillese di
diversità, che ha pure
espresso una notevolissima letteratura, scevra di ogni folclore locale e di ogni
fissazione identitaria.
Allo stesso modo, nell’opera di Glissant vivono il conteur , il narratore
orale anonimo che nella
stiva delle navi negriere e nelle piantagioni trasmetteva la memoria dell’Africa
perduta, e i classici
francesi, di cui la sua prosa — celebrata e premiata — è geniale e organica
erede, in una continuità
perpetuata nell’ardita innovazione strutturale delle forme narrative.
Durissimo nella denuncia di quei genocidi che sono stati la
tratta, la schiavitù e la segregazione
razziale, Glissant si riconosce nel «bianco » antillano Saint John Perse
altrettanto che nel «nero»
Césaire ed è — caso rarissimo — del tutto immune, pur nella spietata
rappresentazione dell’orrore,
da quel risentimento, da quella viscerale concentrazione su se stessi e
sul proprio dolore che sono
umanamente comprensibili e spesso quasi inevitabili in chi appartiene a un
gruppo o a un popolo
che hanno subito (e talora subiscono ancora) oppressione, ma tolgono fatalmente
libertà interiore e
signorilità.
Autore di romanzi, saggi e testi teatrali, noto internazionalmente, Glissant non
lo è ancora
altrettanto in Italia, dove ha pubblicato, presso le Edizioni del Lavoro, il
romanzo Il quarto secolo ,
il saggio Poetica del diverso e lo sconcertante Tutto-mondo, nella forte
versione di Geraldina
Colotti e Marie-Josè Hoyet. Dai suoi libri, in Francia, sono nati originali
filoni e istituti di ricerca.
Il quarto secolo, assai felicemente tradotto da Elena Pessini, è un vero
capolavoro di geniale
costruzione narrativa e trascinante poesia umana; un’epopea di quei quattro
secoli in cui l’umanità
ancora indistinta degli schiavi nella stiva delle navi negriere, ventri che
solcano le immense acque
gravidi di esistenze quasi ancora embrionali e quasi già stroncate, si affaccia
alla vita e alla storia.
In questo epos costruito con originale e rivoluzionaria tecnica strutturale e
ribollente di destini,
epifanie, estreme rivelazioni dell’umano, Glissant riesce a rendere giustizia
poetica anche alle figure
della barbarie schiavista, come la storia di Laroche, l’ultimo accanito
negriero, ritratto in una torva e
abietta grandezza che è un’altissima pagina di letteratura.
È una festa incontrare quest’uomo anziano e massiccio, paterno e fraterno, gran
signore e capace di
picaresca amicizia, che va subito al dunque della vita col quale si crea
un’istintiva affinità. Lo
incontro prima a Parigi e poi a Schio, in un convegno, accompagnato dalla
moglie, Sylvie — che fa
capire cosa significhi essere una compagna nella traversata dell’esistenza — e
da una parte della sua
numerosa famiglia, un figlio e una figlia col marito e tre adorabili nipoti,
vivacissimi e di un’innata
gentilezza d’animo nel senso antico del termine, attenti a che il nonno riottoso
non si affatichi troppo. È la felicità. Mi dice indicandomeli.
Magris — Ci sono — gli dico — quasi alcune parole chiave nel tuo
discorso: erranza, relazione...
Glissant — L’erranza è un principio che vale in tutti i campi della vita,
anche nella scrittura. Ogni
realtà è un arcipelago; vivere e scrivere significa errare da un’isola
all’altra, ognuna delle quali
diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella
dell’assoluto bensì quella della
relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro
che cresco, cambiando
senza snaturarmi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra.
La sorgente del tuo Danubio è
diversa da quella del Mississippi, di un piccolo ruscello o della mia Lézarde
(il fiume della
Martinica cui si intitola un suo romanzo), ma acquista il suo senso nel rimando
ad esse,
nell’arricchimento che dà loro e che ne riceve. Ci sono molte radici; se
una si proclama unica o
esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente
chiusa nella sua
particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà
universale reclamata dal
colonialismo.
Magris — Infatti tu hai celebrato, come dice il
titolo di un saggio, la Poetica del diverso, ma di un
diverso che non si isola, non alza il ponte levatoio né si trincera dietro una
muraglia cinese per
escludere gli altri, «i barbari»...
Glissant — L’ossessiva difesa, la muraglia è prigione
dell’identità; quella cinese è stata costruita
non solo per impedire agli invasori di entrare, ma anche per impedire ai cinesi
di uscire, come dice
quella mirabile storia del generale cinese che sorveglia la frontiera e, vedendo
un’apertura fra due
alte montagne lontane, dice ai suoi ufficiali: «là c’è il mondo e noi non ci
andiamo». Chiudersi in se
stessi è terribile quanto essere conquistati dall’altro o conquistarlo. Per
fortuna nella mia Martinica
ci sono anche i cinesi e pure essi fanno parte del mio «mondo-relazione», del
mio Tutto-mondo.
Magris — Questa relazione diviene, nei tuoi libri,
racconto, cronaca e invenzione di destini,
personaggi, anche e forse soprattutto paesaggi, paesaggi viventi. I paesaggi si
possono leggere, hai
scritto.
Glissant — Sì, e questa è un’altra affinità tra noi, perché in Danubio o
in Microcosmi il paesaggio
non è, come di solito in letteratura, cornice e sfondo della vicenda, bensì
creatura vivente. Ciò che
adoro in Danubio è che è un fiume ma anche un personaggio, che si trasforma, ha
i suoi capricci, le
sue sventure, il suo inconscio... Il paesaggio è storia, è umanità, è
immaginario. Gli schiavi africani
portati nelle Americhe recavano con sé la memoria oscura di un paesaggio
africano, obliato ma
sedimentato nel profondo; ad esso si è sovrapposto il nuovo paesaggio, che è
diventato il loro e che
essi hanno contribuito a costruire, lavorando nelle piantagioni o fuggendo — i
marrons, i ribelli —
sulla morne, sulla collina, che così ha acquistato una nuova fisionomia,
un nuovo significato
nell’immaginario. Se ne è ricordato, inconsciamente o no, Castro quando si è
rifugiato sulle colline,
simbolo di quella che era stata a Haiti la prima rivoluzione vittoriosa degli
schiavi.
Magris — La memoria è un grande valore quando è
pietas, coralità, salvezza dalla violenza
dell’oblio, ma può degenerare in ossessione astiosa e vendicativa. Anche per tuo
impulso, ora si sta
raccogliendo metodicamente la memoria della tratta e della schiavitù.
Glissant — Questa memoria è stata spesso oscurata per tanti motivi:
difficoltà di documentazione,
rinuncia, vergogna, spirito di rivendicazione, e ora si sta cercando di
recuperarla. Ma senza le
ambiguità e le regressioni spesso connesse alle richieste di «pentimento». Il
discendente di schiavi
che ingiunge al discendente di schiavisti di chiedere perdono, con tale
richiesta regredisce e si fa
piccolo, si pone in una condizione di minorità. Altrettanto piccino è il
discendente di schiavisti che
rifiuta di prendere coscienza della sua storia, mentre egli cresce interiormente
se, considerandosi
giustamente non responsabile di ciò che hanno fatto i suoi antenati, assume
consapevolezza di
quella barbarie.
Magris — Un’altra passione che ci accomuna è
Faulkner, su cui hai scritto un saggio che è un vero
capolavoro, Faulkner, Mississippi.
Glissant — Faulkner, uno dei grandissimi del secolo scorso, sapeva di
appartenere a una casta o
classe di piantatori bianchi del Sud, di cui condivideva i pregiudizi,
fortemente radicati. Ma ha
avuto il genio di capire che quella classe — la sua — portava in sé la
perdizione ossia la schiavitù
dei neri, peccato originale e dannazione del suo mondo. E ne ha fatto un
simbolo universale, con la
sua straordinaria forza epica e con quella scrittura che io chiamo la
rivelazione differita, in cui
l’esistenza, la verità, la morte si annunciano per venire rinviati sino alla
fine. Così un uomo legato al
vecchio Sud ha scritto la più grande epopea della schiavitù dei neri e ne ha
fatto una parabola
universale dell’umano.
Magris — L’hai fatto pure tu con Il quarto secolo,
storia di neri che diviene storia di tutti. Spesso
fai l’elogio dell’«opacità». In che senso?
Glissant — Come ho detto una volta a Città del Messico, suscitando
scandalo, rivendico il diritto di
ognuno all’opacità, ossia a non essere compreso totalmente e non comprendere
totalmente l’altro.
Ogni esistenza ha un fondo complesso e oscuro, che non può e non deve
essere attraversato dai
raggi X di una pretesa conoscenza totale. Bisogna vivere con l’altro e amarlo,
accettando di non
poterlo capire a fondo e di poter essere capiti a fondo da lui.
Magris — Anche la letteratura, è stato detto (per
esempio, da Goffredo Fofi), ha un metaforico
«Nord» (per esempio, Kafka, Musil, Beckett) e un metaforico «Sud» (Faulkner,
Guimarães Rosa,
Mo Yan)...
Glissant — L’immensa letteratura del «Nord» è stata straordinaria nella
ricerca dell’individuazione,
nella psicologia dell’Io, e su questa strada ho incontrato il negativo della
vita e della storia moderna.
Se Joyce ha scritto con l’ Ulysses un epos dell’individuazione, la
letteratura del «Sud» (un sud che
può essere ovunque) narra piuttosto la storia di Ulisse che diventa Nessuno, e
su questa strada
incontra l’epica, la totalità, la coralità — il Tutto-Mondo, come dico io. Ma
questa autentica epica
viene spesso contraffatta da tanta falsa letteratura, anche di successo, che
simula e dunque falsifica
la calda vita, come se essa fosse facile e a portata di mano...
Corriere della Sera 1° ottobre 2009