Via Tasso «ente inutile»
 

Il Museo della memoria che Tremonti condanna.
Tra il ’43 e il ’44 le SS qui torturarono 2.000 cittadini. Oggi, coi suoi graffiti, custodisce il ricordo della Resistenza romana. Ma non vale 50.000 euro...


C’è una teca a via Tasso in cui è riassunta, come nessun poeta avrebbe potuto fare (forse ci sarebbe riuscito Giorgio Caproni, il poeta maestro elementare), l’Italia che ribellandosi al nazifascismo usciva dalla guerra: custodisce una pagnotta sulla quale Ignazio Vian scrisse l’ultimo saluto alla sua famiglia, appoggiata su un tricolore senza «traditrici» insegne sabaude. Vian, già ufficiale, l’8 settembre era stato tra i primi a diventare partigiano, arrestato e torturato aveva retto, non aveva denunciato i suoi, finì impiccato. Aveva 27 anni. Il pane, la bandiera, quegli affetti primari da figlio, da ragazzo. Sessantasei anni dopo basterebbe una cifra altrettanto elementare, 50.000 euro un «bicchierino» la definisce il presidente Antonio Parisella per salvare il Museo Storico della Liberazione che ha sede in via Tasso.

Lì dove, nel palazzo costruito negli anni Trenta dai principi Ruspoli e dato in affitto all’ambasciata tedesca a Roma, dopo l’occupazione, tra il ’43 e il ’44, al civico 145 la Sicherheitspolizei, agli ordini dell’Obersturmbannführer Herbert Kappler, in stanze rese sorde e cieche murando finestre, perennemente buie staccando la luce e controllabili grazie a spioncini sulle porte, imprigionò e torturò. Via Tasso a Roma è ancora un nome che evoca terrore, nausea. A Via Tasso, in quei mesi, si finiva per un niente. Ci finirono Giuliano Vassalli (ne scampò) e Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo (ucciso alle Ardeatine). Ci finirono in duemila, tra donne e uomini: militari passati in clandestinità, cittadini qualunque, anche giovanissimi e anche vecchissimi, chiunque fosse sospetto di legami con la Resistenza, di sapere chi proteggeva ebrei, dove si fabbricavano volantini e i chiodi a tre punte usati per forare i copertoni dei camion militari. Da via Tasso uscirono gli antifascisti trucidati a Forte Bravetta e alle Fosse Ardeatine. Da lì il 4 giugno 1944 uscì Bruno Buozzi per andare a morire, ucciso in extremis dalle Ss in fuga, con altri 12 prigionieri, nell’eccidio della Storta. Lì, quello stesso 4 giugno, quando romani e romane si riversarono nell’edificio odiato, fu quasi per miracolo ritrovato dopo un mese di torture, e liberato, Arrigo Paladini, sottotenente dell’Esercito catturato mentre dal Sud era in missione clandestina a Roma, che vent’anni dopo diventerà uno dei direttori del Museo.

Ma ecco, stante alla manovra di Tremonti, a via Tasso si chiude: chiuso il rubinetto del Ministero per i Beni Culturali, anche se dava gocce, 50.000 euro l’anno. Ed ecco un altro passo avanti perché, nel nostro lieto eterno presente, viale Bruno Buozzi, a Roma, diventi semplicemente una smemorata elegante strada in discesa che porta dai Parioli alle Belle Arti.
Via Tasso al civico 145 c’era il carcere, al 155 c’erano i comandi delle Ss, non è un museo.Lo è,anche. Ma è anzitutto un luogo fisico dove chi entra (ogni anno 15.000 studenti), come avviene ad Auschwitz, entra in una dimensione temporale diversa: «vive» quello che lì è avvenuto tra l’11 settembre 1943 e il 4 giugno 1944. Sveglia alle 7, silenzio alle 20, una gamella di broda e un pezzo di pane al giorno, divieto di parlare tra prigionieri, invito a farlo, di notte, coi seviziatori, nelle sedute notturne di interrogatori e di torture. Contatto con le famiglie una volta a settimana, per avere il cambio e il dono consentito, un uovo sodo, e per cercare di esportare messaggi cifrati sotto il rammendo d’una maglia, come qualcuno disperato e furbissimo riuscì a fare.

A Via Tasso il tempo, per buona parte, è rimasto quello. Nel dopoguerra diventò un rifugio per gli sfollati. Nel 1950 l’erede Ruspoli, principessa Josepha, donò l’edificio allo Stato perché nascesse il Museo storico della lotta di Liberazione in Roma. Tra il ’53 e il ’54 fu trovato un alloggio per gli ultimi sfollati e il 4 giugno del ’55 Gronchi, presidente della Repubblica, inaugurò le prime stanze. Raccoglievano tutto ciò che si era potuto radunare, volantini dei Gap, chiodi a tre punte, editti degli occupanti. Ma soprattutto custodivano i segni lasciati con le unghie da chi lì aveva trascorso giorni e notti: Arrigo Paladini (non sa che di lì uscirà vivo) nel buio della detenzione graffia sul muro un messaggio, chiede perdono a coloro cui può aver fatto del male, «la morte è brutta per chi la teme» scrive un altro, «tu serva Italia di dolore ostello» è un graffito dantesco, c’è chi cerca luce così, «l’ultima speranza non è perduta, forse la vita è salva, abbiate fede». E poi c’è il sangue: sui muri, sulle camicie che indossavano i prigionieri andati al plotone di esecuzione o al cappio per impiccati.

Via Tasso è Ente pubblico sotto tutela del ministero per la Pubblica Istruzione (poi Beni Culturali) dal 14 aprile 1957. Ora per salvare il Museo dalla chiusura dichiarano, bipartisan, disponibilità Regione Lazio, Comune e Provincia di Roma. 50.000 euro l’anno sono come dice Parisella «un bicchierino». Se alle parole Renata Polverini, Gianni Alemanno e Nicola Zingaretti faranno seguire i fatti, il Museo vivrà. Certo è inquietante che quel luogo dove nel buio, e nel coraggio e nel sangue davvero, è nato il primo nucleo di Italia democratica, diventi per il Governo un ente inutile, in questa grande manovra economica di salvataggio della patria. Ma già, questi sono giorni in cui diciamo addio a pezzi di Costituzione e in cui sappiamo che la nuova Repubblica, lieta e immemore, è nata 18 anni fa tra mafia e tintinnar di sciabole.

Maria Serena Palieri    l’Unità 31.5.10