Vescovi e il paese. Cattolico e credente non sono sinonimi

I cattolici laici per uscire dagli imbarazzi e dai «distinguo» di fronte al caso Ruini, devono smettere di impostare la questione in termini di opportunità politica o di diritto della Chiesa di esprimersi pubblicamente in sedi quasi-politiche.
I cattolici laici devono andare al cuore del problema. Il punto è se il card. Ruini, questa volta con la sua posizione sui Pacs, rappresenta o addirittura «è» la Chiesa - come si legge con tono risentito sui giornali cattolici ufficiali. O non manifesti invece posizioni assai discutibili, anche all'interno della comunità ecclesiale che è fatta di credenti autonomamente pensanti. Quelle di Ruini sono posizioni che meritano di essere discusse e criticate pubblicamente con la dovuta deferenza (di cui i cattolici per altro sono maestri).

Due equivoci dominano il dibattito che in questi mesi si è riacceso sulla laicità nel nostro Paese. Il primo riguarda la distinzione tra cattolici e laici che viene fatta coincidere senz'altro con la distinzione tra credenti e non credenti. Da qui discende il corollario per cui o si sta con la Chiesa o si sta contro la Chiesa. I laici presuntivamente non credenti possono dire tutto quello che vogliono - tanto alla Chiesa italiana le loro argomentazioni non interessano.

Decisivo invece è il rapporto con i credenti che si suppone non aspettino altro che le direttive della Cei per orientarsi nel comportamento di coppia o in altre relazioni interpersonali. Come se una vita vissuta in prima persona da milioni di uomini e di donne, con fede semplice e sincera, nelle difficoltà quotidiane, nelle imprevedibilità, nelle emozioni e nelle contraddizioni della vita non contassero nulla. Non maturassero convincimenti per sé e per gli altri, degni di attenzione. Convincimenti differenti da quelli espressi dalle Eminenze.

Qui ha la sua radice il numero crescente dei «diversamente credenti», che nel nostro Paese non ha voce pubblica. Si tratta di credenti che sui temi della «natura umana» e del rapporto uomo-donna, sulle relazioni interpersonali sessuali e non sessuali, la pensano in un modo differente dalla dottrina della Chiesa, interpretata dalla Cei. Una dottrina che è debitrice di una antropologia anacronistica, inadeguata rispetto alla sensibilità oltre che alla riflessione scientifica del nostro tempo.

Ma ai laici come tali - questo è il secondo equivoco - non viene riconosciuta alcuna competenza etica autonoma. Rimangono degli eterni minori. Sempre sull'orlo del precipizio dell'immoralità.

Nel nostro Paese tocca innanzitutto ai cattolici maturi correggere questa situazione. Devono per primi contestare alla gerarchia della Cei la dichiarazione di presunta incompetenza etica dei laici sui grandi temi della natura umana. Su questo punto devono stabilire un autentico, intenso dialogo con gli altri laici (quelli presuntivamente irreligiosi) che sono gratificati di un altro tipo di incompetenza. Quella secondo cui il laico, appunto, non è competente di questioni religiose o teologiche, anche quando queste interferiscono con i problemi etici.
Da questo punto di vista un compito enorme attende la nuova cultura politica del centro-sinistra che è la più investita da questa problematica. Ma francamente non vedo nessuna «fabbrica di idee» all'opera in questo senso. Laici e cattolici nell'Unione sono smarriti, intimoriti, balbuzienti, reciprocamente diffidenti. Occorre cambiare pagina, sin che si è ancora in tempo. Non si tratta - ripeto - di assumere atteggiamenti anti-ecclesiali, ma di rivendicare energicamente l'autonomia dei laici, cattolici e non, nell'etica pubblica e nella politica.
Per inciso, questo farebbe un gran bene anche alla Chiesa italiana.

 

Gian Enrico Rusconi      La Stampa 29 /9 /2005