Il vero nemico

Una volta un generale cinese dichiarò che la questione Taiwan, per quel che lo riguardava, era assai semplice: in definitiva alla Cina interessava solo il territorio, e c'erano armi apposite per sbarazzarsi di tutti i taiwanesi e tenersi l'isola senza più rompiscatole. Scalpore, indignazione, prese di distanza ufficiali seppellirono l'inquietante dichiarazione. Che si riaffaccia alla mente oggi, come un corto circuito mentale, nel mentre che le catastrofi naturali sembrano non dare più tregua al genere umano. Ormai oltre la soglia del 2000, pare di vivere nella preistoria, quando si era in balia degli elementi e non si aveva certezza di riuscire a raggiungere il giorno successivo. Dal terremoto in Pakistan al diluvio in Centro America, dopo la devastazione di Katrina e a ridosso di Rita, con la mente ancora allo tsunami, viene voglia di gettarsi nei riti propiziatori. Ma che c'entra il generale cinese? Perché viene il dubbio che l'oscena affermazione del medesimo alberghi nell'animo dei governanti attuali, come inconscio beninteso, e tuttavia all'opera. I quali governanti tutti, da Bush a Musharraf, straparlano di «sicurezza nazionale» e «lotta senza tregua al terrorismo» come un'ossessione, mentre mandano in malora la salvaguardia più elementare della vita comune. Pronti a usare le atomiche tattiche in nome della guerra preventiva, che distrugga il nemico già nella fase delle intenzioni, non prevengono nulla delle catastrofi più naturali e prevedibili, che falcidiano più dei kamikaze ma che probabilmente sono derubricate nella casella «inevitabile». Strumento malthusiano, magari, che riequilibra gli eccessi di popolazione. O longa manus divina, secondo qualche ardita interpretazione. E comunque, evidentemente, conta sempre più il controllo e la difesa del territorio delle vite che lo abitano.

Ma se le acque fangose che hanno invaso New Orleans hanno portato a galla la miseria e la frattura sociale accuratamente coltivata dalla «compassione» della destra repubblicana e prima ancora ignorata da una politica democratica cieca alla sofferenza degli emarginati, perché dovrebbe essere diverso quando un terremoto falcidia migliaia di vite e un uragano devasta il Centramerica? La povertà rende fragile chi ne è vittima e lo espone al sopraggiungere di ogni imprevisto, dalla disoccupazione al tifone, dal terremoto alla malattia. È un cancro lento e inesorabile del vivere civile e della dignità umana, che sta dilagando e insinuandosi in pieghe e strati sociali che si ritenevano per sempre al sicuro. Eppure nessun politico la considera il grande disastro naturale da prevenire. Nessun governante dei tempi che corrono la considera il vero nemico da combattere. Il metro negativo su cui misurare il nostro comune grado di civiltà, che è una sola e appartiente a tutti. E la religione non c'entra per niente.

 

 ANGELA PASCUCCI     Il manifesto 9/10/05