Il vero cristiano si vede con i clandestini


Le preoccupazioni che anche recentemente ho avuto modo di esprimere sul clima di intolleranza nei
confronti degli stranieri non fanno che crescere in queste ultime settimane. Le poche voci che si
levano a chiedere maggior prudenza e discernimento nel parlare e agire in una questione così
complessa e delicata finiscono con l’essere sommerse dall'onda di una emotività che, se non creata
ad arte, è quantomeno alimentata per ragioni non sempre trasparenti. Parimenti sono trattati come
irrilevanti, inappropriati o intempestivi gli appelli alla salvaguardia della giustizia e dei diritti umani
o all'accertamento delle responsabilità individuali. Principi fondamentali del diritto nazionale,
comunitario e internazionale, come la non discriminazione in base all'appartenenza etnica o
religiosa, vengono declassati a secondari di fronte alla percezione di una «emergenza» che, anche se
fosse tale, non dovrebbe però mai sospendere le garanzie essenziali della convivenza civile.
Tutto questo, si dice, è per rispondere in modo tempestivo e credibile alla pressante richiesta di
«sicurezza» che viene dalla maggioranza della popolazione. Ma essere attenti a sentimenti diffusi
nella società, ascoltare le paure che emergono, cogliere i bisogni e le richieste avanzate in modi
propri e impropri non significa cessare di interrogarsi su cosa e chi le genera, non comporta
l'abdicare ai principi fondanti il vivere insieme, non richiede l'abdicazione della ragione e
dell'umanità di fronte alla passione emotiva.
È proprio di fronte alle «emergenze», vere o artefatte che siano, che vengono alla luce le radici
autentiche di un tessuto sociale e la solidità di convincimenti etici e religiosi: un orientamento etico
e un impianto giuridico non possono essere considerati validi solo in situazioni di ordinaria
amministrazione e poi essere accantonati o stravolti all'insorgere di problematiche inedite. È proprio
la capacità di elaborare risposte coerenti a una serie di convincimenti fondamentali e condivisi che
conferisce identità e solidità a una comunità nazionale nel mutare degli eventi storici. Saldezza di
principi e identità culturale non sono affatto realtà statiche, immutabili: sono il frutto di secoli di
maturazione del pensiero e dell'azione di singoli individui e di gruppi sociali a volte anche molto
distanti tra loro nell'opzione ideologica di fondo. Dialogando si può e si deve ricercare, inventare,
concordare non un «minimo comune multiplo» ma un ideale abbastanza alto per stimolare la
dinamica della vita sociale, aprire nuovi orizzonti, offrire speranze alle generazioni future e, nel
contempo, sufficientemente realista da poter essere calato con efficacia nel vissuto quotidiano.
In questo senso la presenza di stranieri nel nostro paese e, in particolare quella di gruppi etnici o
religiosi marcatamente «altri» rispetto alla maggioranza, non è tanto una minaccia alla situazione
esistente quanto un'occasione preziosa per verificare cosa davvero conta per noi nelle nostre vite e
quale prezzo siamo disposti a pagare per ciò in cui crediamo. Del resto ci sono nodi che è inutile
fingere di ignorare, quasi che rimuovendo il problema lo si risolva: come dimenticare, per esempio,
che solo qualche anno fa vi era chi auspicava di favorire l'immigrazione da paesi di tradizione
cristiana piuttosto che musulmana pensando così di facilitare ipso facto l'integrazione dei nuovi
arrivati? I gravissimi episodi di intolleranza e xenofobia nei confronti di zingari e romeni - in
maggioranza di religione cristiana - dimostrano purtroppo la miopia di tale auspicio: i problemi
erano e sono di altro tipo.
Anche per quanti si richiamano al cristianesimo la situazione di queste settimane dovrebbe
costituire un campanello di allarme: che cultura, che etica della vita si vuole comunicare? Che ne è
dell'attenzione al povero, allo straniero, alla vedova e all'orfano - cioè alle categorie che non
avevano diritti ed erano indifese alla mercé dei più forti? Che ne è dell'esempio delle prime
comunità cristiane in cui si tendeva a che non ci fosse «nessun bisognoso» grazie alla condivisione,
né si ammettevano discriminazioni nell'appartenenza tra giudeo o greco, uomo o donna, schiavo o
libero? Che ne è delle parole di Gesù sull'amore per i nemici, sul perdono, sulla misericordia; o
delle esortazioni dell'apostolo Paolo a «non rendere a nessuno male per male», a «vincere il male
con il bene», a «cercare sempre il bene tra voi e con tutti»?
E, per calarci direttamente nelle problematiche odierne, che ne è delle parole che Paolo VI
pronunciò nel 1965 a rom e sinti: «Voi siete nel cuore della Chiesa»? A quale conversione hanno
spronato le richieste di perdono fortemente volute da Giovanni Paolo II come momento penitenziale
del Giubileo del 2000? Utopie irrealizzabili, verrebbe da dire di fronte alla vastità dei problemi che
il fenomeno mondiale delle migrazioni pone alle nostre società occidentali più ricche, ma la
differenza cristiana che queste istanze evangeliche pongono come ineludibile si misura anche e
soprattutto nelle circostanze più difficili.
E non può non interrogare tutti - credenti e non credenti - il malcelato scherno con cui da più parti si
stronca ogni richiamo verso una maggior giustizia ed equità sociale, verso una solidarietà fattiva,
additandolo come «buonismo» pericoloso, denigrando le «anime belle» che credono nella forza
della persuasione, del convincimento, del dialogo, della pace. Siamo davvero convinti di difendere
la nostra identità di popolo e nazione civile fomentando il ritorno alla barbarie dell'homo homini
lupus? Che «sicurezza» sarebbe mai quella imposta con la violenza, il sopruso, la vendetta, la
violazione dei principi costituzionali? Se quella in cui siamo scivolati è un'emergenza, essa non ha il
nome di un'etnia ma quello della nostra civiltà.

Enzo Bianchi      La Stampa   1 giugno 2008