Il ventennio targato Berlusconi

Sull'articolo di Alberto Asor Rosa, «Il ventennio di Berlusconi», pubblicato su questo giornale il primo ottobre scorso  ( lo trovi qui più sotto, N.d.R), vorrei esprimere la mia condivisione di storico, di studioso del mondo contemporaneo. Condivisione di metodo e di merito.
Vediamo il metodo. Occorre dire che la comparazione, con tutti i rischi ben calcolati che comporta, offre la possibilità di un'analisi illuminante della situazione presente. Ci consente di osservare quanto è cambiata la società italiana e quanto siamo cambiati noi stessi negli ultimi 15 anni. «Non si fa mai tanta strada come quando non si sa dove si va», diceva quel tizio. E si può andare avanti, ma anche tornare indietro. E noi quanta strada abbiamo nel frattempo percorso e in che direzione? Che cosa abbiamo perso in tutti questi anni in qualità della democrazia, dissoluzione della solidarietà e dell'identità nazionale, qualità dello spirito pubblico, difesa dell'ambiente e del territorio, rapporto tra cittadini e potere, natura delle relazioni tra gli stessi cittadini?
Sul piano del merito alle argomentazioni di Asor Rosa vorrei aggiungere un paio di considerazioni. Intanto, il tema nazione. Un'asfissiante retorica, condensata nel termine pass partout globalizzazione impedisce di vedere il ruolo ancora decisivo che lo stato-nazione gioca oggi per l'economia, la coesione sociale, la qualità della vita, l'avvenire delle popolazioni che esso governa. Siamo nell'Europa unita, d'accordo, ma ci siamo come stato-nazione e per lunghissimo tempo la dimensione nazionale sarà decisiva per la vita di tutti noi. Dunque l'attacco, diuturno e spesso sordido che la Lega (alleata strategica del magnate di Arcore) va conducendo da vent'anni non colpisce un'entità già dissolta nel gran mare dell'Europa. Più esattamente mina le capacità contrattuali del nostro paese nell'oceano agitato dell'economia mondiale. Davvero la nazione è un ferrovecchio da buttar via? Dobbiamo tornare ai campanili, ai guelfi e ai ghibellini? Può sembrare un esercizio retorico, ma ormai siamo arrivati a questo punto, occorre ritornare a didattiche elementari. Debbo allora ricordare che l'Italia del Rinascimento, che aveva illuminato il mondo coi suoi bagliori di civiltà, fu travolta dai nascenti stati europei per effetto della sua interna fragilità e divisione.


Che gli italiani non si siano ancora ribellati a questo devastante attacco alla loro storia e al loro stesso futuro può apparire un fatto misterioso. E questo è uno degli interrogativi che si pone Asor Rosa. Forse una parziale risposta - l'altra sta nelle scelte della parte maggioritaria della sinistra - si può rintracciare nell'opera specificamente berlusconiana di dissoluzione dell'unità nazionale.
Ai colpi della Lega, infatti, negli ultimi 15 anni, si è accompagnato un lavoro culturale e ideologico di vasta portata, orchestrato dalle tv di Mediaset, che ha fatto leva sulla parte più arcaica e anarcoide dello spirito nazionale. Quel particulare che già Francesco Guicciardini individuò nel XVI secolo come un tarlo nella coscienza civile degli italiani. La libertà osannata da Forza Italia ha incarnato la versione paesana di quel neoliberismo devastatore che oggi morde la polvere negli Sati uniti, e che ha precipitato il mondo in uno dei più devastanti tracolli finanziari della storia del capitalismo. Ma da noi libertà ha significato soprattutto possibilità di violare le regole di una condotta civile, di rompere i patti di mutua solidarietà che fanno il tessuto vivente di una nazione. Libertà di aprire imprese senza troppi vincoli e controlli, libertà di manomettere il patrimonio edilizio, di saccheggiare il territorio, di non pagare le tasse.
E' stata dunque questa ideologia a svolgere un'opera culturalmente e spiritualmente dissolvitrice. Ha trasformato gli italiani in gente, i cittadini in produttori e consumatori, specie di programmi televisivi, ciascuno libero in casa propria (ma anche fuori di essa), individui solitari, privati di un'idea di nazione come comunità solidale. Ma quando si smarrisce il senso di far parte di un patto collettivo e ci si sente, per l'appunto, individui solitari, non si ha più la forza di reagire, di contrastare le avversità che arrivano, le oppressioni di nuovo conio che il potere appresta. Nessuno vede più nel vicino un compagno con cui lottare per difendere il bene comune minacciato.
Asor Rosa tocca un punto importante, nella comparazione tra Mussolini e il Magnate di Arcore. Il dittatore fascista mise in piedi uno stato totalitario, che oggi non sarebbe per fortuna possibile. Nel tempo della rete, delle interconnessioni avanzate tanto dell'informazione che dell'economia mondiale quel modello di sopraffazione non sarebbe possibile. E certo la qualità di quella dittatura non è paragonabile all'autoritarismo di oggi. La libertà di stampa e di espressione, benché potentemente condizionata e manipolata, costituisce in effetti un quid importante della democrazia contemporanea. E tuttavia a nessuno sfugge la gravità di quello che Asor Rosa definisce con il termine di «corruzione». Neppure sotto il fascismo il capo del governo era arrivato al punto di fare della cosa pubblica materia del proprio personale dominio e interesse. Non è solo un incommensurabile passo indietro di natura morale. Si tratta di un passaggio politico di grande rilevanza storica. Esso potrebbe costituire un pernicioso modello avvenire, come il fascismo lo fu negli anni '20 e 30 per altri paesi. Nell'epoca in cui dominano colossi multinazionali il rischio che si affermi una nuova forma di stato è evidente. In Italia un detentore privato di capitale mette al servizio della sua azienda e dei suoi casi personali l'intera macchina dello stato. Un segmento del potere economico privato piega il potere pubblico ai suoi particolari interessi. Mussolini agiva, per sete di potere, certo, ma entro l'involucro di un'ideologia totalitaria che separava gli interessi privati da quelli pubblici. Come definiamo la situazione presente?
Infine, un'altra considerazione. Pochi hanno pensato in prospettiva storica alla sorte subita dal lavoro in Italia negli ultimi venti anni E sappiamo tutti quel che è accaduto. Il lavoro è stato frantumato in mille modalità contrattuali diverse, costretto a mansioni rapidamente mutevoli, di breve e brevissima durata, regolato da orari imprecisati, remunerato con salari spesso di umiliante esiguità. La flessibilità: quanti peana da destra e da sinistra alla nuova formula magica che riduce la persona umana a un accessorio variabile dell'impresa! Certo, non è tutta responsabilità dei governi di centro-destra, anche il centro sinistra ha fatto la sua parte. Certo, ci sono stati periodi di più dura miseria per i lavoratori italiani nel Novecento. Certo, sotto il fascismo le condizioni di illibertà sindacale erano pesanti e incidevano sulla vita delle persone. Eppure, io sento di assumermi, come storico, la responsabilità di affermare che neppure sotto la dittatura fascista il lavoro umano in Italia ha conosciuto le forme di degradazione, precarietà, umiliazione patite nell'ultimo ventennio nella cornice di uno stato formalmente democratico.
 

Piero Bevilacqua      Il manifesto 31/10/08

* storico