Vedi alla voce tolleranza

 

La metà dei morti sul lavoro in Italia, ogni anno e da anni, non sono italiani e spesso neanche

cittadini dell’Unione Europea. Non fosse che per questo, aver approfittato della commemorazione

dei morti di Marcinelle per catalogarli, con un trucido esercizio di generalizzazione, tra coloro che

verrebbero nella Penisola solo per rubare ed uccidere è certamente un errore negato dall’oggettività

storica. Peggio, è anche l’ennesimo campanello d’allarme sul livello di intolleranza sociale e

politica nel quale si ritrova già incrostato il nostro Paese.

Dal 1945 in poi la tolleranza è diventata l’imperativo politico e giuridico dell’Occidente, la

categoria alla quale abbiamo sempre fatto ricorso ogni volta che abbiamo dovuto lottare per

difendere le ragioni della libertà e della democrazia. Dopo la Shoah, la tolleranza ci è apparsa come

una delle poche idee ancora capaci di separare la civiltà dei giusti dall’irrazionalità sociale dei

mostri e dei prepotenti. La tolleranza entrata nella nostra vita sociale è quella che, come una pianta

delicata, dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, la scoperta del Nuovo Mondo e i

dilaniamenti politici covati nel suo seno, l’Occidente ha piantato nella propria cultura ogni volta che

è stata obbligata a confrontarsi, spesso anche bruscamente, con la diversità umana.

 

Anche se il primo seme è stato piantato dal vento del libero pensiero che ha iniziato a soffiare sulla

tolleranza a partire dalle grandi guerre di religione del XV e XVI secolo, neanche le riforme

protestanti sono nate tolleranti. Perché di fronte all’evidenza di una verità, qualunque essa fosse,

allora era proibito sbagliare. Nelle vaste zone d’ombra aperte dalla comprensione delle ragioni degli

“altri”, l’Illuminismo trova nel concetto di tolleranza gli stimoli per una nuova virtù morale e civica.

Come? Dichiarando “conforme alla natura” l’amore di sé (fino ad allora denigrato dalla filosofia

cristiana) e arruolandolo nelle file dell’amore per il prossimo. Questa “legge di natura” è

perfezionata dal comandamento cristiano «Tutto quello che volete che gli uomini vi facciano, fatelo

loro allo stesso modo» (Matteo 7,12; Luca 6,31). Essa si trasforma in quella “regola di reciprocità”

posta alla base dei diritti-doveri garantiti dai nostri ordinamenti solo dopo che il principio di laicità

ne ha smorzato la principale caratteristica: la reciprocità non dipende dal comportamento dell’altro

nei nostri confronti ma da ciò che a noi sembra buono o cattivo per noi stessi. «Non farai ciò che

non vorresti ti fosse fatto»: l’articolo 6 della «Dichiarazione dei diritti» del 1793 ha fissato così, per

l’intero Continente europeo, il limite morale della libertà. Che, come corollari, presuppone almeno

un altro paio di regole. La prima: poiché tutti gli uomini sono soggetti agli errori, non si possono

che accettare gli errori altrui. La seconda: bisogna, allo stesso modo, accettare di dubitare delle

proprie opinioni. Ma, come tutte le parole diventate “virtuose” rubando un contenuto esemplare

dalla teologia e dalla filosofia, anche la tolleranza ha dovuto affrontare la sfida con una modernità

che, tanto per cambiare, si è presentata al confronto vestendo i panni della scienza. «Dov’è che si

incontra questa pretesa libertà di pensiero?», inveiva Auguste Comte. Per il padre dei positivisti «in

astronomia, in chimica, in fisiologia, non appena scopriamo una legge ogni libertà di pensiero si

dilegua e sparisce».

 

Per fortuna, grazie alla storia, oggi sappiamo di non sapere quasi niente. La maggior parte delle

nostre certezze non sopravvivono alla nostra generazione. La scienza, ormai, riesce anche a non

percepirsi solo come fabbrica di “leggi”. E all’alba di un nuovo millennio, la tolleranza è di nuovo

libera di fare un passo avanti: accettare la diversità come ricchezza collettiva, per offrire ad ogni

individuo la possibilità di scegliere i propri obiettivi esistenziali. Anche per questo, la tolleranza è

diventata la possibilità più forte che viene offerta ad ognuno di noi di partecipare alla costruzione

del legame sociale. Persino per la Chiesa Cattolica del Concilio Vaticano II, la prima virtù laica e

civica degli Illuministi si è trasformata in un mezzo «per condividere la verità del prossimo come il

pane eucaristico dello spirito». Oggi, davanti alle grandi migrazioni che il riassetto dell’equilibrio

demografico Nord-Sud richiede, tollerare significa accettare la persona stessa, ricevere il dono della

sua anima e della sua sincerità perché (sono concetti di Gabriel Marcel) per mezzo delle ragioni

degli altri noi entriamo in comunione con la nostra vita spirituale. Già durante questi nostri confusi

anni di inizio millennio, e sempre più nel prossimo futuro, per essere liberi e democratici è

sufficiente essere accoglienti.

Filippo Di Giacomo      l'Unità 12 agosto 2009