Il vecchio che
ritorna
E’ scritto nel Qohélet, poema biblico di massima saggezza, che «ciò che
è, già è stato. Ciò che sarà,
già è». Si applica atrocemente all’Italia, e manda in rovina le parole che da 17
anni ci
accompagnano, sempre più insipide: Transizione, Seconda Repubblica, Nuovo,
Miracolo, Riforma.
Oppure: politica del fare, dell’efficienza. Nell’intervista a Fabio Martini,
Rino Formica, ex uomo di
Craxi, constata un «collasso dello Stato.
Snervato nei suoi gangli vitali. Con un’aggravante: nell’opinione pubblica
cresce un disgusto senza
reazione, si attendono fatalisticamente nuovi eventi ancora più squalificanti,
il perpetuarsi di
un’Italia regno degli amici, delle spintarelle, delle percentuali».
L’avvento del Nuovo, promesso dopo lo svelamento di
Tangentopoli nei primi Anni 90, era dunque
un pasticciaccio, un maledetto imbroglio. Non: «Ecco, faccio nuove tutte
le cose», ma: «Faccio tutte
le cose vecchie». Non siamo in mezzo al guado, il viaggio non è mai
iniziato. Come nell’Angelo
sterminatore di Buñuel, per uscire dalla stanza-prigione bisogna ripercorrere
gli esordi, capire come
si è entrati nell’imbroglio e ci si è rimasti.
Mani Pulite nacque e crebbe come evento davvero inedito, per l’Italia, in
simultanea con la battaglia
condotta a Palermo contro i patti della politica con mafia e camorra: una
pantera la mafia, una volpe
la camorra, disse Falcone a Giovanni Marino di Repubblica, quattro giorni prima
di essere ucciso.
Figlie, l’una e l’altra, di «un’omertà che si è trasformata in memoria storica
di uno Stato che non ti garantisce».
È significativo che l’unico commento di Silvio Berlusconi sul
marciume che torna a
galla sia: «Il male principale della democrazia in Italia è la giustizia
politicizzata». Non è il
marciume, ma il dito che lo indica. Non è il fare che si svela
malaffare, il predominio dell’opaco sul
trasparente, il familismo amorale che torna, la ’ndrangheta che non
fidandosi più di nessun
mediatore entra in Parlamento. Il capo del governo è un avatar della
Prima Repubblica: pur
travestendosi, pur conquistando folle e voti, «fa vecchie tutte le cose».
La sua rivoluzione, come
accade nelle rivoluzioni giacobine, ha raccattato il potere a terra per
salvarlo. Il presidente della
Consulta Francesco Amirante ha detto in pratica questo, giovedì: sono i
giacobini e non i
democratici a idealizzare la sovranità assoluta dell’elettore. Le costituzioni
esistono perché del
popolo non ci si fida del tutto, e la Consulta rappresenta un «popolo
trascendente» che guardando
lontano frena se stesso.
Quando nacquero le due battaglie - Mani Pulite a Milano,
l’antimafia a Palermo - si capì che tutto
in Italia si teneva: l’intreccio tra politica e affari a Nord, tra politica e
mafia a Sud. Le due città
divennero simbolo dell’Italia peggiore e migliore, ambedue sperarono molto prima
di disperare,
ambedue scoprirono di portare dentro di sé la «memoria storica di uno Stato che
non ti garantisce».
Dicono che Tangentopoli oggi è diversa, anche se il cittadino non vede grandi
differenze. Per alcuni
è peggio («Noi non abbiamo mai scardinato lo Stato», assicura Formica), visto
che allora si rubava
per i partiti e ora si ruba per sé. Come se rubare per la politica
fosse un’attenuante, e non
l’obbrobrio che ha distrutto il senso delle istituzioni e dello Stato, aprendo
strade ancor più larghe
alle ruberie del tempo presente.
Dicono anche che l’Italia è congenitamente votata alla corruzione. Anche questo
è falso, perché
l’Italia con Mani Pulite cominciò a sperare veramente in una rigenerazione.
Enorme fu la
partecipazione ai funerali di Falcone, il 25 maggio ’92. Ci fu il movimento dei
lenzuoli, speculare a
Mani Pulite. Nel suo bel libro L’Italia del tempo presente, Paul Ginsborg
cita un documento stilato
in una veglia di preghiera nella chiesa palermitana di San Giuseppe ai Teatini,
il 13 giugno 1992,
dopo l’eccidio di Falcone. Il documento s’intitolava «L’Impegno», e oggi
dovrebbero leggerlo e
rileggerlo gli studenti, gli imprenditori, i servitori dello Stato, i politici,
per mostrare che l’Italia ha
qualcos’altro nelle ossa, oltre alla melma. Se torna a corrompersi, è anche
perché ai vertici manca
l’esempio. «Entri nella mafia se ti senti, e sei, nessuno mischiato con niente»,
dice il linguaggio
malavitoso.
Vale la pena ricordare alcuni brani, dell’Impegno palermitano:
«Ci impegniamo a educare i nostri
figli nel rispetto degli altri, al senso del dovere e al senso di giustizia. Ci
impegniamo a non
adeguarci al malcostume corrente, prestandovi tacito consenso perché “così fan
tutti”. Ci
impegniamo a rinunziare ai privilegi che possano derivare da conoscenze e aiuti
“qualificati”. Ci
impegniamo a non vendere il nostro voto elettorale per nessun compenso. Ci
impegniamo a
resistere, nel diritto, alle sopraffazioni mafiose...». Questo fu, ed è, il
Nuovo. Anche Milano,
atavicamente maldisposta verso lo Stato, sentì sorgere in sé un ricominciamento.
Corrado Stajano la
descrive non più piegata sui propri affari privati ma «infiammata di un
entusiasmo liberatorio», nel
febbraio ’92, grata ai magistrati che ne scoperchiavano il malaffare. Da allora
«si è indurita, non ha
saputo discutere le cause vicine e lontane di una corruzione che ha macchiato
tutti i partiti politici e
tutti gli strati sociali (...), non ha saputo fare i conti con se stessa. Ha
cancellato quel che è successo.
O meglio, ha preferito dirsi che nulla è successo» (Stajano, La città
degli untori, Garzanti 2009).
Fu da quel vuoto che balzò fuori la figura di Berlusconi,
agguerritissimo addomesticatore di istinti,
creatore di mondi e show consolanti. Lui sapeva la forza di certi gusti, aveva
addirittura forgiato
nuovi stili di vita a Milano-2, lontano dalla pazza folla cittadina, aveva
creato addirittura una
televisione per le new town e da lì partì, promettendo nel ’94 un «nuovo
miracolo italiano». Un
miracolo non per fermare i comunisti, ma quel popolo dei lenzuoli e
dell’entusiasmo liberatorio che
minacciava mafie e vecchi-nuovi padroni del vapore. Si continuò a rubare, senza
neanche più
fingere passioni politiche. La Lega smise gli osanna a Mani Pulite perché
rivalutare le istituzioni
voleva dire contribuire di tasca propria al bene comune, e solo gli imbecilli lo
fanno.
Non si aprì l’era della trasparenza, della riforma dello Stato. Se ne parla di
continuo ma il verbo è
performativo, come dicono i linguisti: basta dire e il fare già c’è.
Paradossalmente, nell’era di
Berlusconi tutto si decide nelle aule di giustizia: non è da escludere che
proprio questo egli voglia,
per avere un nemico esistenziale.
Forse il Nuovo non è venuto perché debellare la corruzione è
«impresa titanica», come sostiene
Luca di Montezemolo: perché coinvolge non solo i politici ma un’intera classe
dirigente. Forse per
questo siamo immobili non in mezzo al guado, ma penzolanti nel vuoto come nel
’92, sfiduciati e
però assetati di ricominciare. Difficile credere che non esista anche
questa sete, accanto al disgusto
fatalista. La sete rispuntata dopo il fascismo, quando Luigi Einaudi
disse, il 27 luglio ’47: «Esiste in
questo nostro vecchio continente un vuoto ideale spaventoso».
Mi ha colpito una frase, detta all’Aquila domenica scorsa da un manifestante
delle chiavi, il
direttore dell’Accademia delle Belle Arti Eugenio Carlomagno: «Chiusi nelle
case antisismiche, nei
moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non
c’è un teatro, non
c’è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere
persone che debbono
solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo
detto basta». Non
è ancora L’Impegno della chiesa palermitana, ma si ricomincia anche così:
uscendo dal privato delle
new town, spegnendo le tv del Truman Show, riprendendosi la pòlis.
Riscoprendo che la politica può fare la differenza, non in peggio ma in meglio,
e che a quel punto
potremo edificare la memoria di uno Stato che ti garantisca.
Barbara Spinelli La Stampa
28 febbraio 2010