Il Vaticano dopo 28 anni riabilita mons. Romero

Il 24 marzo 1980 il vescovo del Salvador fu assassinato dalle squadre della morte. Ieri, per la prima volta, l'Osservatore romano ha rotto il silenzio: «non era comunista»

 Non era un comunista. Ergo, a quasi 30 anni dal suo assassinio sull'altare della catterale di San Salvador e di tombale silenzio del Vaticano, la causa di beatificazione può essere sbloccata e forse prima o poi anche monsignor Arnulfo Romero potrà essere riconosciuto come un martire. Beato e martire, come il fondatore dell'Opus Dei, Escrivà de Balaguer santificato a tambur battente da Wojtyla, o i preti spagnoli vittime della «furia dei rossi» nella guerra civile spagnola, beatificati a centinaia da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Viene quasi da dire che sarebbe meglio se il silenzio del Vaticano fosse continuato. Il vescovo Romero non ha bisogno di essere proclamato martire e - per chi ci crede - santo dalla Chiesa. Lo è già per come ha vissuto ed è morto, e nella memoria dei credenti e non credenti dell'America latina. Come gli altri preti assassinati, nei 12 anni di guerra civile,dall'esercito salvadoregno (addestrato negli Usa di Reagan) e dagli squadroni della morte del maggiore Roberto D'aubuisson (finanziati dagli Usa), l'uomo che ordinò e forse esguì la condanna a morte del «vescovo dei poveri» (nato da una famiglia dell'oligarchia terriera salvadoregna, e quindi due volte traditore), proclamato da uno dei presidenti salvadoregni (finora tutti dello stesso partito di D'Aubuisson, l'Arena) «figlio meritevole del Salvador». E meritevole anche della più completà impunità.
Ieri, a pochi giorni dall'anniversario dell'uccisione di Romero, il 24 marzo, e con due articoli, l' Osservatore romano, per la prima volta in 28 anni, ha fatto l'audace passo. «Oscar Romero, un vescovo fedele al suo popolo», a firma del vescovo di Terni, Vincenzo Paglia, che è anche il postulatore della causa di beatificazione e «La vicinanza di Paolo VI e papa Wojtyla» di Carlo Di Cicco, vicedirettore del giornale vaticano.
Monsignor Paglia scrive che Romero «non era un politico», come «qualcuno» (forse i soliti comunisti) ha «voluto strumentalizzarlo». Verissimo: non aveva bisogno di essere un politico per aver voluto vedere la realtà che scorreva ogni giorno sotto i suoi occhi nel Salvador. Era contrario, spiega il postulatore vaticano, «sia alla violenza espressa dal governo militare sia a quella espressa dall'opposizione guerrigliera». Allora era impazzito, un mese prima di essere ucciso, a dire: «Quando una dittatura attenta gravemente ai diritti umani e al bene comune della nazione, e si chiudono i canali di dialogo, di comprensione, di razionalità... allora la Chiesa parla di legittimo diritto alla violenza insurrezionale» (parole riportate nel libro uscito da poco, di Claudia Fanti, dedicato al Salvador di monsignor Romero). Fu «accusato di essere comunista», scrive Paglia, ma non lo era e «aveva sempre ritenuto che il comunismo fosse da condannare». Non aveva bisogno di essere comunista per essere quello che fu. Diceva un altro monsignore accusato di essere «comunista», il brasiliano dom Helder Camara: se do da mangiare a un affamato, mi dicono che sono santo, se gli spiego perché non ha da mangiare, mi dicono che sono comunista. La riabilitazione tardiva si conclude con le citazioni di quanto amassero Romero - anzi «l'indimenticabile» Romero - e gli fossero vicini, da vivo e da morto, Wojtyla e Ratzinger. Anche Di Cicco si sforza di sostenere che le «dicerie» circa la diffidenza o peggio del Vaticano verso Romero fossero tutte fandonie. Però scrive che subito dopo la notizia della morte, lui «si adoperò per trovare reazioni in Vaticano». Ma evidentemente non le trovò, perché «non si sapeva - mi si disse - di quale colore fosse la pallottola che aveva ammazzato l'arcivescovo».
Ma la Chiesa è grande, e furba. Così fa seguire un terzo articolo firmato da monsignor Luigi Bettazzi, non direttamente dedicato a Romero ma a Marianela Garcia-Villas, «l'avvocata dei poveri» amica di Romero, una cattolica anche lei della «buona borghesia» salvadoregna, presa, torturata, violentata e assassinata dai militari il 13 marzo '83.
Romero, scrive il vescovo emerito di Ivrea, «evangelicamente condannava ogni violenza, anche se riconosceva che non poteva mettere sullo stesso piano la violenza di chi voleva in tal modo approfondire e perpetuare la propria condizione di privilegio economico e politico, nello sfruttamento legalizzato delle grandi masse popolari, e la violenza di chi, esasperato e sfiduciato da una situazione di violenza strutturale che opprime insopportabilmente la stragrande maggioranza della popolazione, non vede altra strada d'uscita che quella di una momentanea, inevitabile violenza rivoluzionaria...».

 

Maurizio Matteuzzi     Il manifesto 28/3/08