Unioni di fatto, la storia di sempre


Lo sentiamo dire tanto spesso che rischiamo di crederci. Bombardati dai sermoni vaticani sul
matrimonio come «unione indissolubile tra un uomo e una donna», storditi dalla propaganda bigotta
dei Family Days, colpevolizzati dal discorso pubblico laico intorno ai devastanti effetti sociali della
«crisi della coppia», rischiamo di credere davvero nella favola di un bel tempo andato in cui la
famiglia era un'istituzione armoniosa, stabile, coesa: papà-mamma- bambini felicemente riuniti
sotto lo stesso tetto, senza tentazioni peccaminose né grilli per la testa, come Dio comanda. Giunge
allora opportuno il lavoro degli storici, che non si accontentano di racconti favolosi. In una Storia
del matrimonio (Il Mulino) appena pubblicata, Daniela Lombardi ci insegna a riconoscere come
false le leggende più correnti sulla differenza tra il nostro oggi e lo ieri, o l'altroieri. Falso che il
celibato e il nubilato siano fenomeni caratteristici della modernità (nella Bologna del 1796, per
esempio, quasi il 40 per cento degli adulti non era sposato). Falso che la sessualità fosse circoscritta
entro i confini del matrimonio (in certe grandi città, il numero di nascite illegittime sfiorava il 50
per cento). E falso, in generale, il cliché della famigliola «tradizionale», non foss'altro perché la
precarietà delle esistenze (epidemie, guerre, migrazioni) rendeva la vita di coppia
costituzionalmente instabile, a rischio.
Con buona pace dei presuli di ogni tempo e dei teodem d'oggidì, gli studiosi insegnano sia la
volatilità delle unioni coniugali del passato, sia la varietà dei modi storicamente praticati per metter
su famiglia: insegnano la flessibilità — quasi l'elasticità — che per secoli ha contraddistinto la
formazione delle coppie e le relazioni tra i sessi, in Italia come altrove in Europa. Coppie di fatto?
Non c'è da attendere il Novecento, chissà quale Sessantotto, per incontrare uomini e donne che
sceglievano di amarsi e di riprodursi fuori da ogni vincolo matrimoniale, senza «regolarizzare» la
propria situazione davanti a un notaio né davanti a un prete. Le coppie di fatto rappresentavano una
realtà diffusa già nell'Italia del Cinque e Seicento, come lo storico Giovanni Romeo dimostra bene
nel libro Amori proibiti (Laterza).
Fino a quando la Chiesa della Controriforma non decise di rimediare drasticamente al problema,
maestri del concubinato erano i sacerdoti. Nel primo Cinquecento, forse metà dei preti viveva more
uxorio con la rispettiva perpetua, senza d'altronde che i parrocchiani si scandalizzassero più di
tanto. E ancora dopo il Concilio di Trento, vinta la terribile guerra contro i «lutherani d'Italia», le
autorità centrali e periferiche della Chiesa si concentrarono nella lotta contro la magia, la
bestemmia, la bigamia, piuttosto che contro le coppie di fatto. Soltanto a partire dal Seicento la
battaglia contro i concubini divenne prioritaria, per gerarchie vaticane sempre più ossessionate
dall'idea di dover sorvegliare la sessualità delle donne.
Specialista di storia religiosa del Mezzogiorno, Romeo si concentra sulla più popolata, la più
variopinta e (già allora) la più ingovernabile delle città italiane: Napoli. Un proverbiale porto di
mare, una capitale abituata a fare i conti con genti diverse e usanze multiformi, baroni della terra e
cortigiani di Spagna, chierici e artisti, puttane e vagabondi, marinai e soldati, musulmani ed ebrei.
Una polveriera della carne e dello spirito, dove zelanti arcivescovi venuti da Roma cercarono di
imporre le nuove regole della Controriforma: oltre all'obbligo di confessarsi regolarmente e di
comunicarsi a Pasqua, il divieto di vivere da concubini.
Fossero le prostitute dei Quartieri spagnoli che coabitavano con il loro sfruttatore, o fossero le
popolane troppo indigenti per presentarsi con una dote sul mercato dei matrimoni combinati, ma
capaci lo stesso di rimediare un'anima gemella, migliaia di donne del Seicento vennero sottoposte a
un articolato sistema di misure sanzionatorie (convocazioni in parrocchia, blitz nelle case, cartelli
infamanti, minacce di scomunica) affinché ponessero fine allo scandalo del loro accoppiamento di
fatto. Salvo trovare, il più delle volte, un modo per resistere. Urlando a squarciagola come Popa
Mazza, la cortigiana calabrese che nel 1639 spiegò al vicinato che la scomunica della Chiesa lei la
«teneva in culo». Oppure facendo finta di nulla, aspettando che la tempesta passasse...
Durante l'antico regime, le convenzioni sociali restringevano enormemente la libertà di scelta
matrimoniale per uomini e donne. E tanto più nell'alta società, dove la posta in gioco, oltre a un
titolo nobiliare, era un patrimonio che si voleva trasmettere integro ai discendenti. Da qui —
all'opposto della piramide sociale rispetto alle coppie «'nnammecate » della Napoli plebea —
un'altra forma di antidoto al regolatissimo mercato del matrimonio: la curiosa istituzione che è stata,
nel tardo Seicento e soprattutto nel Settecento, il sistema del «cavalier servente». Cioè il
matrimonio a tre fra una donna aristocratica, un marito di analoga condizione, e l'accompagnatore
ufficiale della donna non sua, cui Roberto Bizzocchi ha dedicato ora uno studio altrettanto colto che
godibile, Cicisbei (Laterza).
L'importanza del cicisbeismo nella vita italiana del XVIII secolo è illustrata da tutta una segnaletica
artistica e letteraria: le incisioni di Longhi come i quadri di Tiepolo, le commedie di Goldoni come i
versi di Parini. Ma Bizzocchi non si è limitato a registrare l'onnipresenza dei cicisbei
nell'immaginario figurativo, teatrale, poetico, del secolo dei Lumi. Frugando dentro una gran massa
di lettere, diari, memorie, Bizzocchi ha saputo riconoscere in quei lontani «triangoli»
(semplicemente mondani, o anche affettivi, o anche sessuali) un pezzo di storia sociale e politica
dell'Italia moderna.
In effetti, il cicisbeismo fu ben più che una valvola di sfogo per donne frustrate da un matrimonio di
convenienza, e per ruspanti cadetti che le strategie ereditarie destinavano al celibato. Fu un vero e
proprio gioco di ruoli inteso alla conservazione del primato nobiliare: non a caso si diffuse
particolarmente nelle cosiddette Repubbliche aristocratiche, Venezia, Genova, Lucca. Per un
«giovin signore», «servire» una dama senza sposarla, di notte come di giorno, era un buon modo
per stare alla larga dai due ambienti che più rischiavano di irretirlo, il mondo delle carte da gioco e
il mondo delle donne da strapazzo.
Ma il cicisbeismo ha rivestito, da ultimo, anche una valenza illuministica: è stato un esercizio di
libertà personale — maschile e femminile — contro il dispotismo coniugale e familiare. Così capitò
di viverlo a personaggi di prima grandezza del nostro Settecento, come Pietro Verri. Che
lungamente servì da cicisbeo di Maddalena Isimbardi, la sorella di Cesare Beccaria. Al marito di lei,
geloso peggio d'«un eunuco del Serraglio», Verri non riservava che disprezzo; mentre ammirava il
temperamento focoso della sua Maddalena, «buona, amabile e selvaggia».

Sergio Luzzatto         Corriere della Sera     5 giugno 2008