Una vecchia enciclica
Molti commentatori, amici
ed amiche presumibilmente non credenti, sono rimasti positivamente colpiti dalla
prima Enciclica di Benedetto XVI come un invito all'amore quanto mai attuale in
un mondo tutto intriso d'odio. Non credo che vada letta così. Se nel preambolo
si dichiara che nessuna guerra può essere fatta in nome di Dio, ed è un passo
avanti rispetto alle ancora recenti guerre giuste, questo è anche il solo passo
avanti, mentre l'asse della lettera più volte ribadito è un rigido alt messo
alla secolarizzazione che avevamo salutato nel Concilio Vaticano II. Amatevi,
dice Ratzinger, ma sappiate che ogni amore è impuro, salvo quello di Dio per noi
e noi per Dio o fra noi in Dio. Non ce n'è un altro che non sia imperfetto e per
natura degenerativo. Benedetto XVI fa qui un passo indietro perfino dalla
lezione paolina, che riconosce dignità e valore anche ad aspetti prettamente e
solamente umani. Quel che nella prima lettera di Giovanni, più volte richiamata,
è un canto tutto indirizzato alla fraternità con l'altro, l'estraneo, o perfino
mortalmente colpevole, qui diventa una barriera contro l'amore puramente terreno
traversato dalla sessualità. Una chiusura totale alla problematica del moderno e
dell'umano in quanto umano. Toccherà ai teologi discernere i fili
dell'argomentazione sottile, talvolta causidica, di Ratzinger.
Ma
intanto il non credente non ha di che estasiarsi, esimendosi dal coglierne
l'intenzione centrale che è tutta politica - in senso pieno e perfino nobile
della parola - e si allinea alla tradizione più retriva ottocentesca della
chiesa di Roma. L'inizio - un po' filosofico scrive Ratzinger, un po' filologico
diremmo noi - sul significato della parola «amore» in greco e nella cultura
cristiana la definisce la prima eros
come desiderio egoista o ricerca per sé, per un proprio bisogno mentre la
seconda agape
sarebbe tutta volta al bene e al bisogno dell'altro, amore perfetto. L'eros è
declassato a mero egoismo, a mera materialità del corpo (la psiche nella lettera
non ha posto), tendente alla degenerazione e alla mercificazione, il cui simbolo
sarebbe la prostituzione sacra. L'Enciclica non concepisce un rapporto con
l'altro che non passi attraverso la purificazione, parola continuamente
ripetuta, dell'amore di Dio e in Dio. Quasi che il corpo porti in sé indelebile
come il peccato un originale perversità. Dio amerà l'uomo, ma Ratzinger
certamente no. Allora è più toccante e persuasiva la disperazione del mondo e
propria di Agostino, che l'attuale papa non condivide, in quanto sicuro che con
l'ascesi e secondo il magistero della chiesa ogni cattolico può trascendere se
stesso. Se non vi riesce cade fuori dalla salvezza, o almeno dalla mente
pedagogica dell'attuale pontefice. Ne consegue che la sola unione possibile è
fra un uomo e una donna in forma «esclusiva» e «per sempre», come il patto di
Javeh con Israele, lui sposo sapiente, lei facilmente infedele che soltanto
dalla generosità di lui può essere «perdonata». Il matrimonio non è che il
riflesso del nocciolo fondamentale delle religioni monoteiste: amare Dio, un
solo Dio e per sempre. Impensabile dunque il divorzio, impensabile l'unione
precaria, neanche evocata l'unione fra due creature del medesimo sesso, impura
ogni relazione non consacrata dal sacramento. Ratzinger erige un baluardo
granitico contro le conquiste già avvenute nel diritto civile e quelle che, come
i Pacs che hanno già preso piede in Francia e in Italia, minacciano anche il
nostro paese.
La seconda parte dell'Enciclica rivendica il magistero
della chiesa anche come istituzione e nelle forme che ha preso dalla donazione
costantiniana in poi. Neanche pensare a una ridiscussione del Concordato. Non
che la chiesa faccia politica in prima persona, ma ha diritto e dovere di
indicare ai fedeli come la devono fare. Siamo lontani dal «non expedit». Adesso
i cattolici sono chiamati ad impegnarsi contro le imminenti o già avvenute
degenerazioni dei rapporti fra gli uomini, come appunto fa il cardinal Ruini.
Anche in tema di giustizia: neanche essa può essere raggiunta soltanto
dall'umanità, come si sono arrogantemente permessi di dire l'illuminismo e il
marxismo. Perché è vero che il mondo è pieno di ingiustizie, ma è un errore
fatale credere che gli uomini possano ridurle, mentre possono soltanto
alleviarle con la carità, prima di tutto fra i membri della comunità dei fedeli.
«Per la verità», ammette Ratzinger, il cristianesimo degli inizi voleva la
partecipazione comunitaria dei beni, ma questo «con il crescere della chiesa non
è stato più possibile». Per la verità chi o che cosa lo avrebbe reso
impossibile? Forse il primato che il sacerdote deve assicurare ai sacramenti e
alla liturgia rispetto al dovere di soccorrere gli infelici? Tanto che deve
delegare questo secondo compito ai diaconi? Ma è una domanda maliziosa. Resta
che l'enciclica assume come proprio il concetto avanzato anche dalla Commissione
europea di sussidiarietà: arrivi l'istituzione pubblica soltanto dove il singolo
o l'associazionismo privato, nel quale la chiesa ha un peso rilevante, non
arriva. E ci si guardi bene dall'interrogare Dio sul male o le ragioni della
sofferenza e delle ingiustizie. Questo non è lecito, come dimostra il Libro di
Giobbe. Se lo tenga per detto, par di capire, anche chi si è chiesto: ma quale
Dio dopo Auschwitz?
Insomma l'Enciclica ci deresponsabilizza di tutto fuorché
dalla necessità di trascenderci nella volontà divina, che è imperscrutabile. Ci
pare di averlo già sentito dire dal nostro parroco quando eravamo bambini.
Rossana Rossanda il manifesto 8/02/2006