UNA SENTENZA SCONCERTANTE

L'imposizione in un luogo pubblico del simbolo di una determinata religione è riuscita grazie ad una diffusa ignoranza e a un grossolano escamotage.

Come è noto, il Consiglio di Stato ha deciso che la presenza del crocifisso sulle pareti delle aule scolastiche non è in contrasto con il principio della laicità dello stato. La questione, però, non credo che sia definitivamente chiusa e mi pare perciò utile riflettere ancora sul tema.

I giudici hanno motivato la sentenza depositata il 13/2/2006 con la seguente argomentazione:

a) premesso che il tema va trattato in riferimento alla specificità della storia italiana, perché “la laicità, benché presupponga e richieda ovunque la distinzione fra la dimensione temporale e la dimensione spirituale e fra gli ordini e le società cui tali dimensioni sono proprie, non si realizza in termini costanti nel tempo e uniformi nei diversi Paesi”

b) si ipotizza che, mentre in un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un simbolo religioso, “In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata, ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile”

c) si afferma, quindi, che l’ipotesi nel nostro Paese si verifica, perché “è evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana”

d) e si conclude, perciò, che non si può “pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile, oggetto di arredo, e neppure come ad un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come ad un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato”.

Il primo punto dell’argomentazione enuncia una verità di fatto difficilmente contestabile, dato che effettivamente il principio di laicità ha trovato attuazioni differenti da un Paese all’altro.

Il secondo punto, invece, sembra già piuttosto problematico: si può davvero immaginare che ogni maestra spieghi a tutti i suoi bambini che il crocifisso che vedono a scuola è per tutti loro il simbolo di ‘valori civilmente rilevanti’, mentre per alcuni di loro è anche un simbolo religioso? Non sarebbe più semplice usare un unico simbolo per i valori civili che accomunano tutti i cittadini, ben distinto dai diversi simboli religiosi, propri delle diverse confessioni? Ma, ancor più, è fondata l’ipotesi che il crocifisso sia il simbolo che meglio esprime i valori civili?

In proposito i giudici del Consiglio di Stato non hanno dubbi: per loro è assolutamente evidente che in Italia il crocifisso è un simbolo particolarmente adatto ad esprimere ‘l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana’.

Su questo terzo punto, però, le possibili obiezioni sono numerose e decisive; ed è ovvio che, se esso dovesse cadere, tutta l’argomentazione crollerebbe.

Anzitutto, che la civiltà italiana sia di fatto connotata da certi valori è un’affermazione che richiederebbe tante precisazioni. La società italiana è stata sempre connotata dai valori che ispirano ‘il nostro ordine costituzionale’? Solo da un certo momento in poi? E lo è oggi? Le risposte a queste domande non sono univoche. È, per esempio, opinione abbastanza diffusa, che sembra del resto confermata dalle rilevazioni sociologiche, che il senso dei valori civili sia poco radicato in Italia e che da questo punto di vista siamo ancora parecchio indietro rispetto ad altri Paesi.

Ammesso pure che la civiltà italiana abbia tali caratteristiche, si può però dare per scontato che certi valori abbiano un’origine religiosa? E tali effetti benefici sarebbero prodotti da tutte le religioni, da alcune o da una sola? E ancora, l’origine religiosa sarebbe una necessità solo di fatto o anche di diritto, al punto che una civiltà atea non avrebbe potuto neanche immaginarli? Domande impegnative, che non bisognerebbe però eludere se si vuole proporre un’argomentazione rigorosa.

Ma la questione decisiva mi pare la seguente: sostenere che i valori civili hanno un’origine religiosa significa, per quanto riguarda l’Italia, affermare che essi siano stati proposti dalla chiesa di Roma e che discendano dai suoi insegnamenti, dato che quella cattolica è da secoli la religione largamente prevalente in Italia. Questa tesi sembra ai nostri giudici semplicemente fuori discussione: quei valori sono in “piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani”. E chi l’ha detto? Non c’è bisogno di prove? Se avessero avvertito l’esigenza di documentarsi su fatti che forse non conoscevano adeguatamente, si sarebbero probabilmente accorti che la loro tesi era assolutamente opinabile: una ricerca storica libera da pregiudizi, infatti, dimostra esattamente il contrario.

Difficile, infatti, considerare maestra di tolleranza una chiesa che non ha rifiutato l’uso della violenza per imporre la propria ortodossia già da quando, con Teodosio, l’impero diventa cristiano, e che nel medioevo crea il Tribunale dell’Inquisizione per individuare gli eretici da consegnare al braccio secolare per una punizione che può essere anche il rogo. E l’Inquisizione, se possibile, diviene ancora più crudele nell’età moderna, e continua ad emettere le sue sentenze anche nell’Ottocento, quando ormai non sono più rese esecutive dallo Stato.

Solo nel Novecento non si crede più che sia giusto imporre la vera fede con mezzi coercitivi, e anzi ci si comincia a vergognare di averlo fatto in passato. Tuttavia bisogna aspettare la fine del Concilio Vaticano II perché la Congregazione della Santa Inquisizione, il famigerato Sant'Uffizio del carcere e del rogo, lasci il posto alla Congregazione per la dottrina della fede, che a quei mezzi non ricorre pur non rinunciando ad irrogare, sulla base del vigente Codice di diritto canonico, pene fortunatamente meno cruente, come il divieto di pubblicazione, la privazione della cattedra o la scomunica.

Quanto al rispetto per l’altro, basti ricordare che nell’Europa medievale era consuetudine chiamare i musulmani ‘figli di cani’ e che Innocenzo III definiva Maometto ‘bestia sporcissima’. L’Islam è stato considerato per secoli un’eresia, una colpevole corruzione del messaggio cristiano, e solo col Concilio Vaticano II gli è stato ufficialmente riconosciuto il valore di autentica religione. Per quanto riguarda gli ebrei, poi, è noto che sono stati a lungo accusati del delitto più orrendo, il ‘deicidio’, che il Concilio Lateranense IV ha stabilito che dovevano portare sui vestiti un segno distintivo e che non potevano rivestire cariche pubbliche, e che nell’età moderna sono stati costretti a risiedere nei ghetti. Sino alla metà del Novecento, il venerdì santo si pregava ‘pro perfidis iudeis’.

La valorizzazione della persona, di ogni persona, non è chiaro come possa essere attribuita a un’istituzione religiosa che ha ritenuto che donne e schiavi fossero inferiori per natura. Le prime, più fragili degli uomini quanto alla vita di fede, si credeva che potessero essere facilmente assoggettate dal diavolo, sino a divenire suoi strumenti: accusate di stregoneria, sono state per secoli perseguitate e condannate anche alla pena capitale ancora nel Settecento. La liberazione della donna sappiamo che è avvenuta proprio superando i pregiudizi ecclesiastici sulla sua innata malvagità. Parimenti, il valore dell’eguaglianza non è stato proclamato dai papi, che si sono anzi guardati dal condannare il commercio degli schiavi, ma dai rivoluzionari francesi, che hanno applicato quel principio a tutti gli uomini abolendo la schiavitù non solo in patria ma anche nelle colonie.

Sulla solidarietà umana mostrata nel medioevo dai crociati nei confronti di musulmani, bizantini e albigesi, o nell’età moderna dai conquistatori europei nei confronti delle popolazioni indigene dell’America appena scoperta non è neanche il caso di soffermarsi, ma può essere utile ricordare che alla metà del 1400 il papa Niccolò V con la bolla Romanus Pontifex concede al re del Portogallo facoltà di soggiogare ogni sorta di saraceni, pagani e nemici di Cristo dovunque si trovino, di invadere e conquistare i loro regni e di ridurre in servitù perpetua le loro persone.

È meglio sorvolare anche sulla tesi che l’istituzione ecclesiastica abbia contribuito all’affermazione dei diritti della persona: basti accennare solo al fatto che Innocenzo IV ha autorizzato l’uso della tortura nei tribunali dell’Inquisizione, che Leone X ha condannato come perniciosa e pestifera la tesi di Lutero che bruciare gli eretici sia “contro la volontà dello Spirito santo” e che Pio IX si è battuto contro “una piaga orrenda che affligge l’umana società, e che chiamasi suffragio universale. [… Piaga] che meriterebbe a giusto titolo di essere chiamata Menzogna universale” (Discorso ai pellegrini francesi, 5/5/1874).

In effetti, la chiesa romana non accetta l’idea che la sovranità appartiene al popolo, che i governanti sono espressione della volontà popolare e che lo stato non riconosce istanze legislative superiori. Questi capisaldi della democrazia sono errori denunciati senza mezzi termini nella Immortale Dei: in una società fondata sui falsi principi di uguaglianza e libertà, scrive nel 1885 Leone XIII, si arriva a sostenere che “la sovranità non consiste che nella volontà del popolo, il quale, come possiede da solo tutto il potere, così da solo si governa: sceglie di fatto alcuni a cui delegare il potere, ma in modo tale da trasferire in loro non tanto la sovranità, quanto una semplice funzione da esercitare in suo nome. Si tace dell’autorità divina, come se Dio non esistesse o non si desse alcun pensiero del genere umano”.

Per quanto riguarda il rifiuto di ogni discriminazione, è bene non dimenticare almeno il caso degli omosessuali, rei di un peccato così grave da meritare il rogo. Oggi, certo, la situazione è cambiata, ma sarebbe esagerato affermare che è finita ogni discriminazione nei loro confronti, dato che in un documento del 1992 firmato dall’allora cardinale Ratzinger, Alcune considerazioni concernenti la Risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali, si ribadisce che “la particolare inclinazione della persona omosessuale, benché non sia in sé peccato, costituisce tuttavia una tendenza, più o meno forte, verso un comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale. Per questo motivo l'inclinazione stessa deve essere considerata come oggettivamente disordinata. Pertanto coloro che si trovano in questa condizione dovrebbero essere oggetto di una particolare sollecitudine pastorale perché non siano portati a credere che l'attuazione di tale tendenza nelle relazioni omosessuali sia un'opzione moralmente accettabile”.

L’affermazione che le gerarchie cattoliche abbiano contribuito al riconoscimento del valore della libertà, poi, è davvero paradossale. La verità è che le libertà moderne si sono imposte nonostante i divieti della chiesa romana: la rivendicazione della libertà di coscienza, infatti, è da Gregorio XVI condannata come "assurda ed erronea sentenza o piuttosto delirio" e la libertà di stampa è considerata una pratica "pessima né mai abbastanza esecrata e aborrita" (Mirari vos, 1832). E la posizione di Gregorio XVI non è un incidente di percorso. Pio IX, il papa del dogma dell'infallibilità, non teme di farla sua: bolla come "sommamente dannosa per la Chiesa cattolica e per la salute delle anime" l'opinione "dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio, e cioè la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo, che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società", e ribadisce che non si può concedere ai cittadini la libertà di "palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti" (Quanta cura, 1864).

Nel secolo appena trascorso muta il linguaggio ma non la sostanza. Per Giovanni Paolo II, infatti, è da considerare coscienza libera non quella che si autodetermina ma quella che non si separa dalla verità oggettiva: "la libertà della coscienza non è mai libertà «dalla» verità, ma sempre e solo «nella» verità". E chi possiede la verità e può insegnarla? Ma è evidente: "la Chiesa cattolica è maestra di verità", al punto che si può dire che "nella parola pronunciata dalla Chiesa risuona, nell'intimo delle persone, la voce di Dio"! Quindi l'obbedienza al magistero non sarebbe in contrasto con la libertà della coscienza dei credenti, che anzi troverebbero in esso un "grande aiuto" (Veritatis splendor, 1993) per orientarsi ed eventualmente correggere i propri errori. Tesi davvero originale: è libera la coscienza … che obbedisce all’autorità ecclesiastica!

Come sostenere, infine, che la chiesa cattolica ha favorito l’autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità se essa ha rivendicato a se stessa il merito di aver reso i sudditi docili ai governanti? Per Leone XIII, infatti, proprio la religione cattolica “con la sua forza influisce sugli animi, e piega le stesse volontà degli uomini, affinché obbediscano ai reggitori non soltanto con l’ossequio ma altresì con la benevolenza e con la carità”(Diuturnum, 1881). Solo in un caso si ammette la disobbedienza alle leggi dello stato: se esse sono in contrasto con la morale cattolica.

E ancora nel 1925 Pio XI afferma che i governanti legittimi comandano per mandato di Cristo Re e conclude che, quanto più i cittadini saranno consapevoli che l'autorità viene dall'alto tanto più saranno pronti ad obbedire, e quindi si consoliderà una società ordinata e pacifica: "ancorché, infatti, il cittadino riscontri nei principi e nei capi di Stato uomini simili a lui, o per qualche ragione indegni e vituperevoli, non si sottrarrà tuttavia al loro comando qualora egli riconosca in essi l'immagine e l'autorità di Cristo"(Quas primas).

In realtà, i valori civilmente rilevanti, come tutti gli storici sanno, sono stati una conquista della modernità e la gerarchia ecclesiastica, arroccatasi sulle sue tradizioni, li ha rifiutati in blocco, tanto che Pio IX concludeva il Sillabo proprio condannando la tesi secondo la quale “Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà”.



Gli intellettuali italiani, dal canto loro, hanno sempre visto nella chiesa romana la nemica della libertà. Basti qui citare Vittorio Alfieri (1749-1803): "La cristiana religione, che è quella di quasi tutta l'Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero, ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero. [...] Un popolo che rimane cattolico dee necessariamente, per via del papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo, e stupidissimo. […] non si può dunque essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente, e un popolo libero"(Della tirannide, Libro I, Capitolo VIII).

E gli fa eco Benedetto Croce (1866-1952) che, pur riconoscendo che non possiamo non dirci cristiani, scrive che "il cattolicesimo della Chiesa di Roma [è] la più diretta e logica negazione dell'idea liberale, e che tale si sentì e si conobbe e volle recisamente porsi fin dal primo delinearsi di quell'ideale, tale si fece e si fa udire con alte strida nei sillabi, nelle encicliche, nelle prediche, nelle istruzioni dei suoi pontefici e degli altri suoi preti, e tale (salvo fuggevoli episodi o giuochi di apparenze) operò sempre nella vita pratica ... [La Chiesa ormai] si restringe a tutrice di forme invecchiate e morte, d'incultura, d'ignoranza, di superstizione, di oppressione spirituale"(Storia d'Europa nel secolo XIX, Bari 1965, pp 22-23).

Ma, se questi sono i fatti, è chiaro che salta il terzo anello dell’argomentazione dei giudici del Consiglio di Stato e diventa insostenibile la conclusione che il crocifisso sia ‘simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati’. Quei valori si sono affermati nonostante l’opposizione della chiesa cattolica e contro i suoi insegnamenti, e non si può pretendere perciò che tutti i cittadini, specialmente se vittime di storiche discriminazioni, vedano nel crocifisso, rivendicato da quella chiesa come proprio simbolo, il mezzo più adatto a significare l’elevato fondamento dei valori civili.

Qui non si vuole affatto dire che la bibbia non possa contribuire alla promozione di valori autenticamente umani; non mancano anzi studiosi che vedono in alcune conquiste della civiltà occidentale la fruttificazione di temi tipicamente biblici. Forse però solo un’autentica ricerca di fede, sorretta dalla testimonianza di milioni di uomini e donne che nel corso dei secoli hanno vissuto lo spirito del vangelo, può permettere di separare il messaggio originario di Gesù crocifisso dalla storia di un’istituzione che nel corso dei secoli spesso ne è stata la negazione. Ma qui si entra evidentemente nel campo delle scelte individuali e non si può certo imporre un’impresa del genere a tutti i cittadini.

In conclusione, si può ritenere che questa sentenza non ha suscitato clamorose reazioni solo perché, per quanto riguarda il ruolo della chiesa cattolica in Italia, fa sua un'opinione fondata su pregiudizi massicciamente presenti fra gli strati meno colti della popolazione e su una vulgata televisiva così martellante da divenire, con buona pace degli storici, sentire comune. Così, grazie a questa diffusa ignoranza e a un grossolano escamotage, i giudici sono riusciti, almeno per il momento, a imporre nei luoghi pubblici il simbolo di una determinata religione, cosa altrimenti impossibile in uno stato laico, soddisfacendo, da una parte, le attese di alcune forze politiche desiderose di sfruttare a proprio vantaggio il rafforzamento delle spinte identitarie e, dall’altra, le aspirazioni di quelle autorità religiose che appaiono interessate più a segnare con i loro simboli i confini dei propri domini che ad impegnarsi per un rinnovamento delle coscienze alla luce del vangelo.

Elio Rindone   
da  www.italialaica.it   (10-3-2006)