Una rozza normalizzazione della scuola


Ma è proprio vero che la riforma della scuola voluta dalla ministra Gelmini è targata Tremonti come
ha affermato ieri Walter Veltroni? Insomma si tratterebbe solo di provvedimenti per risparmiare?
Oppure siamo di fronte al tentativo di sradicare la scuola pubblica dalle radici culturali della
innovazione pedagogica imponendo di nuovo l'egemonia della pedagogia autoritaria?
E' molto eloquente in questo senso l'intervento di Marcello Veneziani, su Libero, contro la
pedagogia di don Milani. Il priore di Barbiana, secondo l'intellettuale di punta della destra, avrebbe
fatto molto male alla scuola italiana enfatizzando un modello che demonizzava la selezione e il
merito, sostenendo che la cultura è solo quella di massa. Per Veneziani don Milani è solo una
metafora strumentale. E' l'esperienza di nuova pedagogia e il suo substrato culturale che dà tanto
fastidio ai normalizzatori.
L'esperienza rivoluzionaria di Barbiana non poteva restare fuori dal rullo compressore dei
restauratori. Ma questi riescono a sviare l'attenzione dalla sostanza del problema, che è culturale,
indirizzandola verso il mito del cattivo maestro. E anche la risposta di chi difende i livelli di
eccellenza della scuola pubblica dell'obbligo dovrebbe insistere sulle esperienze innovative nel loro
complesso, sulla loro contestualizzazione, non cadendo nel tranello del mito.


Un'affermazione racchiude il senso della vita di don Milani: «Il mondo ingiusto l'hanno da
raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l'avranno giudicato e condannato con mente
aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola»
. E' una frase problematica,
letta oggi. Perché i poveri hanno avuto ed hanno la scuola. Ma leggendola come paradigma ideale
della grande transizione storica della nostra epoca, essa racchiude il progetto, la positiva
presunzione di Barbiana: vivere la crisi della società arcaica e la caduta di secolari barriere per
soddisfare la sete di protagonismo, anzi di sovranità delle classi popolari; e poi far propri gli
strumenti offerti dalla società moderna, cioè la diffusione delle conoscenze e del senso critico, per
usarli contro lo stesso progetto di trasformazione delle classi dominanti.
L'eterogenea comunità della scuola di Barbiana, e non il solo Milani, è quella che ha permesso di
analizzare e contrastare l'ignobile progetto di modernità delle élites al potere; ma soprattutto ha
consentito ai ragazzi, al priore, e a chi la frequentava di ritessere le fila di un'identità e di
intravedere una nuova sintesi di vita.
Un unico filo lega fra loro tutte le altre esperienze di quel laboratorio culturale, ecclesiale, sociale e
politico: vivere la grande transizione storica facendo spazio ai valori di giustizia, solidarietà,
protagonismo e partecipazione di cui, con grandi contraddizioni, erano portatrici le classi popolari.
Le cose non sono andate secondo le aspettative. Ma non si dovrà ritornare a quel paradigma ideale
per risalire dall'orrido baratro in cui stiamo scivolando?
Chi ha amore della scuola e cerca e sperimenta la fatica di percorsi innovativi non ha bisogno di
miti. Quanto piuttosto, io credo, di annodare i fili di tante esperienze, individuando, le costanti o gli
orientamenti di fondo di un processo di emersione e di riscatto delle culture negate. O la scuola
infatti si porrà come levatrice dell'intreccio fra culture che finora non hanno avuto accesso alla
visibilità o sbatterà la testa contro l'impotenza di un riformismo da allevamento. Barbiana in questo
è preziosa; purché non se faccia un quadretto da «presepio di Greccio». I poveri oggi hanno la
parola e restano poveri. Molti immigrati che puliscono le nostre fogne sono laureati. Barbiana a loro
non serve come esempio di scuola ma come esperimento di comunità oltre i confini.
Dunque don Milani è stato smentito? Se si isola e si mitizza il messaggio della persona, direi di sì.
Non bisognerebbe dimenticare quanto egli scrive all'amico Giorgio Pecorini come in un testamento
in una delle sue ultime lettere: «...Non voglio morire signore cioè autore di un libro, ma con la gioia
che qualcuno ha capito che per scrivere non occorre né genio né personalità ... Così la classe operaia
saprà scrivere meglio di quella borghese. E' per questo che io ho speso la mia vita e non per farmi
incensare dai borghesi come uno di loro». Liberiamo la memoria dai miti. Solo così è possibile
difendere la scuola dagli attacchi sconsiderati di chi vuole tornare alla scuola autoritaria per aprire
varchi alla società autoritaria.

Enzo Mazzi       il manifesto 5 ottobre 2008