Una Ratisbona tropicale
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Mentre l’università di Teramo rifiutava di accogliere Robert Faurisson, lo storico che sostiene che la Shoah non è mai esistita, l’ombra del nega-zionismo sfiorava il Vaticano. Arrivando nel “continente più cattolico del mondo”, papa Ratzinger ha detto che “il Brasile è nato cristiano”; e, rivolgendosi ai vescovi, dunque ai detentori della tradizione, ha addirittura sostenuto che “in effetti, l'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture precolombiane, né fu un'imposizione di una cultura straniera”.
Ora la storia del Brasile e di tutti i paesi del continente (che molto a ragione il vescovo anglicano Sebastiâo Gameleira chiama afrolatindio ) è storia che nasce da due immensi genocidi: quello degli indios e quello degli schiavi negri. E questi due genocidi furono compiuti da cattolici, portoghesi e castigliani, i quali piantarono croci su tutte le spiagge su cui sbarcarono e su tutte le vette che scalarono per cercarvi l’oro, ma anche sradicarono con teocratica violenza tutte le culture e le religioni che incontrarono.
Secondo gli archeologi e gli antropologi, nell’immensa area che poi venne chiamata Brasile, le prime popolazioni arrivarono dall’Asia 40 mila anni fa. Popoli di cacciatori e di raccoglitori di frutti spontanei della terra, al momento dell’arrivo degli europei, erano certamente più di 3 milioni di persone; cento anni più tardi ne erano rimaste vive meno della metà: le altre erano state sterminate dalle malattie portate dagli europei ma anche dalla violenza dei “latini”. Dovunque fu loro possibile, i conquistadores ridussero gli indigeni in schiavitù e li fecero lavorare, senza pietà, nei campi e nelle miniere sino allo sfinimento e alla morte. I superstiti cercarono di sottrarsi al macello rifugiandosi nelle profondità delle foreste; il loro terrore per la ferocia dei “bianchi” fu tanto grande che ancora oggi, 500 anni più tardi, esistono piccole tribù che cercano di evitare qualunque contatto con gli invasori. In altri termini: un intero mondo fu distrutto per far nascere il Brasile. Fu davvero una nascita cristiana? In quegli anni i teologi europei discutevano se i “selvaggi” avessero un’anima.
Mentre il genocidio indio andava compiendosi, cominciò, e continuò per tre secoli, quello dei negri. Due anni dopo l’abolizione della schiavitù (che nel cattolico Brasile avvenne soltanto nel 1888), il governo fece distruggere tutti gli archivi che riguardavano la tratta degli africani per cancellare “ogni traccia della secolare infamia”. Difficile dunque sapere quanti negri furono strappati ai loro paesi e alle loro famiglie per essere deportati in quella che a suo tempo era stata chiamata “Terra della Vera Croce”, ma i calcoli più approfonditi parlano dai 4 ai 10 milioni e più di persone. Immense flotte attraversarono l’oceano per trasportare questa merce umana, immense ricchezze nacquero da quell’infame commercio di corpi e destini. Si sviluppò, per servire il nuovo Mercato, una perfetta organizzazione che, per le sue dimensioni e per la sua crudeltà anticipa quella di Eichmann. Come in quella di Eichmannn, i contenitori di uomini donne e bambini, durante il trasporto a destinazione si riempivano di cadaveri (la mortalità sulle navi negriere raggiungeva il 25 per 100); come in quella di Eichmann i sopravvissuti andavano incontro all’orrore. Al loro arrivo nel porto di Salvador Bahia (allora capitale del Brasile), dopo la vendita ai fazendeiros con lo smembramento delle famiglie, gli schiavi venivano marchiati a fuoco e battezzati lo stesso giorno. Qualunque tentativo di rimanere fedeli alle proprie religioni significava da quel momento per loro essere battuti a morte. Davvero “l'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture precolombiane, né fu un'imposizione di una cultura straniera”?
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In questa lunga terribile storia, la Chiesa non poteva non rimanere tragi-camente invischiata. Essendo portoghesi o spagnoli tutti i missionari e i vescovi, la grande maggioranza di loro condivideva i pregiudizi e le incomprensioni dei loro conterranei. I risultati furono una serie di paurose contraddizioni. Nei documenti del primo Capitolo dei gesuiti di Salvador Bahia (1568) si parla degli schiavi in un paragrafo intitolato “De vaccis et servubus”: i neri paragonati al bestiame. Contemporaneamente la stessa congregazione fondava le “reducciones del Paraguay”, vere e proprie “cittadelle di Dio”, in cui gli indios guaranì, crudelmente perseguitati dai bandeirantes (cacciatori di schiavi), trovarono rifugio. Fu una vera epopea, anche perchè i bandeirantes e poi le truppe imperiali assaltarono le reducciones, considerate giustamente pietre d’inciampo per lo sfruttamento coloniale. Riuscirono a distruggerle. Ma anche quei luoghi di cristiano soccorso furono pur sempre luoghi in cui gli indios venivano soavemente strappati alle loro culture, considerate primitive. Gli indios delle reducciones furono “europeizzati”. O si tentò di farlo. Si trattò, esattamente, anche se non violentemente di “imposizione di una cultura straniera”
Intanto altri religiosi chiedevano schiavi ai confratelli delle missioni africane. Sulle facciate di alcuni conventi della Bahia si aprono le elaborate finestre delle celle dei frati. Sopra ciascuna di esse si scorge il finestrino della stanzetta in cui abitava lo schiavo del monaco sottostante. Padre Miguel Garcìa, un pio gesuita che fu il primo insegnante di teologia a Salvador, assediava i suoi superiori con una domanda: ma gli schiavi non sono nostri fratelli? Alla fine i superiori trasmisero il quesito (e le sue delicate implicazioni) alla congregazione vaticana “De Propaganda Fide”. Il Vaticano ponderò il caso. Un anno più tardi (1608), giunse il rescritto: “Padre Garcìa non è adatto alla vita di colonia, essendo persona afflitta da molti scrupoli. Lo si rimandi in Europa”... Paolo III aveva condannato la schiavitù, alcuni (pochi) coraggiosi missionari seguitavano a proclamarne la vergogna, ma ormai la Santa Sede doveva (!) tenere conto degli imperi coloniali. Chissà se papa Ratzinger conosce queste storie.
Le sue affermazioni, comunque, hanno provocato lo sdegno delle popolazioni indigene (quelle che hanno potuto conoscerle e quelle che hanno potuto far giungere il loro parere ai mass media). Il papa, la Santa Sede e i vescovi brasiliani sono ora impegnati in accorate spiegazioni e in dignitose ammissioni. Per molti versi, si tratta di una ripetizione, in chiave tropicale, di quanto accadde per lo sciagurato discorso di Ratisbona.
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Benedetto XVI ha fatto in Brasile alcune affermazioni che sono apparse a molti coraggiose e inedite. Ha detto che la scelta preferenziale dei poveri è costitutiva della Chiesa, ha sostenuto la fine del marxismo e ha proclamato il fallimento del capitalismo. Sono certamente dichiarazioni molto importanti ma non inedite. Per quanto riguarda l’opzione preferenziale dei poveri (che risale all’assemblea dei vescovi latino-americani a Puebla (1979), la novità mi pare essere il fatto che alla formula non sono più state aggiunte le parole “ancorchè non esclusiva” che, per volontà del Vaticano di Wojtyla, la estenuavano. Quanto al fallimento del capitalismo, già Paolo VI – e prima i lui due altri papi – avevano condannato senza equivoci quello che avevano definito “imperialismo internazionale del danaro”. (v. l’enciclica Populorum progressio, 1967)[1].
Ma Ratzinger, purtroppo, ad Aparecida ha ripetuto una parola, un concetto molto caro al ceto ecclesiastico, e quella parola, quel concetto è che la Chiesa deve farsi avvocata dei diritti dei poveri. Io credo che in questo concetto stia non dico la facilità ma certamente la possibilità che Ratzinger offenda ancora, come a Ratisbona e in Brasile, le vittime dell’ingiustizia. Il rapporto, infatti, tra chi patisce un’oppressione e l’avvocato che lo difende non è un rapporto d’amore neppure quando l’avvocato sia coraggioso e sapiente. L’avvocato non abita la cella del condannato né porta catene. L’avvocato, in genere, appartiene alla stessa classe sociale dei giudici. La sera cena come i giudici, dorme in una casa simile a quella dei giudici. Non ha lo stesso odore della vittima che difende. Salvo i casi di feroci dittature, non subisce le bòtte inflitte al suo raccomandato. Qualche volta riesce a offrire un sepolcro nuovo al giustiziato che ha invano difeso; ma a morire sulla croce è sempre il povero. Perciò io credo che un papa, come un sacerdote, un qualunque cristiano o una qualunque cristiana non debbano soltanto parlare coraggiosamente a favore dei poveri ma debbano sforzarsi di stare, prima di tutto, in mezzo a loro e aiutarli da compagni di cammino verso la Terra della giustizia e della libertà. Una delle ragioni per cui la cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, letta con gli occhi dei poveri, appare avvocatesca, incomprensibile e talvolta oltraggiosa è che chi la scrive sta sul crinale della storia che separa gli oppressi degli oppressori. La missione delle Chiesa, come aveva visto nitidamente nostro padre Giovanni XXIII, è quella di essere “la Chiesa di tutti e specialmente la Chiesa dei Poveri”.
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Questa Chiesa è stata ed è viva proprio in Brasile. E’ un peccato che nessuno ne
abbia parlato a Benedetto XVI e tristissimo sarebbe se, avendone avuta notizia,
il papa avesse creduto che si trattasse di un “falso millenarismo” (come egli ha
definito con germanica ruvidezza la Teologia della Liberazione). Mentre il papa
proclamava santo, a Sâo Paulo, un fraticello del XVIII secolo e a Roma si
preparava la canonizzazione di quasi 500 sacerdoti massacrati durante la guerra
civile dalla furia degli anarchici e dei comunisti spagnoli, in Anapu, cittadina
amazzonica, si concludeva il processo per l’uccisione di Dorothy Stang,
un’anziana suora americana assassinata nel febbraio 2005, per mandato di un
fazendeiro che le imputava la sua animazione di un gruppo di contadini
cristiani. Suor Dorothy è l’ultimo nome nelle lunghissima lista (più di 500
nomi) di sacerdoti, religiose e laici cattolici, uccisi negli ultimi trent’anni
in Brasile a causa del loro impegno a favore dei poveri. Da questo punto di
vista, la storia della Chiesa in Brasile non ha altri paragoni se non con la
Chiesa nel Salvador. Cito soltanto i nomi e le storie che conosco personalmente
e che venero come parte integrante del mio sforzo per essere cristiano: padre
Henrique Pereira Neto, collaboratore di dom Helder Camara, massacrato da
terribili torture inflittegli da uno ”Squadrone della morte”; Josimo Morais
Tavares, uno dei leaders della Pastoral da Terra, assassinato da pistoleiros
pagati dai grandi proprietari terrieri; frei Tito de Alençar, domenicano,
suicida per turbe mentali da sevizie inflittegli dai carnefici della dittatura
militare; padre Joâo Bosco Penido Burnier, gesuita, ucciso da un soldato alla
cui violenza voleva sottrarre una povera donna; don Rodolfo Lunkenbein,
salesiano, tedesco, ucciso nel Mato Grosso mentre viveva fra gli indios Bororo,
difendendone i diritti; padre Ezechiele Ramin, comboniano, italiano di Padova,
anche lui colpito dagli agrari... Qualcuno ha sussurrato questi nomi al papa,
non per chiedergli una canonizzazione (le canonizzazioni dei poveri arrivano
dopo secoli) ma per suggerirgli che la Chiesa può e deve, se vuole vivere nella
storia, legarsi alla vicende dei poveri? Qualcuno gli ha ricordato i grandi
vescovi i cui legami con le comunità di base tenevano, oltre a tutto, a freno,
le sette “evangeliche”? Parlo di Helder Camara, Paulo Evaristo Arns, Joâo
Baptista Fragoso, Ivo Lorscheiter, Aloisio Lorscheider, Fernando Gomes dos
Santos, Pedro Casaldaliga, Tomàs Balduino...
Chi ha conosciuto queste persone o ne ammira la paziente e coraggiosa vecchiaia, chi ascolta i poveri che ne raccontano la storia sa che il Regno di Dio è già presente sulla Terra. Se potessi dare un consiglio al papa, che appare così frequentemente oppresso da un senso di tragedia, gli direi: Santità, non permetta che a descriverle la realtà del nostro pianeta siano soltanto i diplomatici o i porporati.
Ettore Masina LETTERA121 maggio 2007
[1] Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensa Berlusconi, sempre pronto a richiamare i cattolici all’osservanza delle parole della Chiesa.