UNA POLITICA PER LA MAFIA


Si riaccendono i riflettori sulle stragi di Capaci e via D'Amelio alla sempiterna ricerca dei mandanti occulti degli assassini di Falcone e Borsellino e, nel contempo, si richiude il sipario su questo sud sempre più abbandonato ad una condizione sociale disperata nella quale il potere economico e politico della criminalità organizzata trova maggiori occasioni di ripresa. Non è un paradosso ma una costante di un sistema che da un lato continua a delegare ai giudici e alle forze dell'ordine la soluzione dei problemi di politica criminale e dall'altro prosciuga ogni possibilità di risolvere dal basso quelli che qui sono tutt'uno con i problemi dello sviluppo e della democrazia.
Lasciando da parte l'inverosimiglianza di servizi segreti che, come supporto alle stragi, si servirebbero nientemeno che di un loro agente "sfigurato" e perciò facilmente riconoscibile, c'è da chiedersi come sia possibile darci da bere la favola di un governo che sta facendo il massimo sforzo per contrastare la criminalità organizzata mentre lascia che il sud torni nella povertà economica e culturale degli anni '50. La rinnovata fuga di massa dei giovani, questa volta formati e acculturati, verso il nord, il taglio massiccio dei fondi per la compatibilità di bilancio, il depotenziamento della capacità di indagine (vedi la legge sulle intercettazioni, l'annunciato ridimensionamento della magistratura e dei pubblici ministeri in particolare, lo scudo fiscale) sono tutti tasselli di un disegno criminoso che mira a lasciare il sud nelle mani del vecchio sistema di potere della borghesia mafiosa.
L'ultima cortina di fumo è stata alzata proprio con il pacchetto sicurezza che, pur contiene qualche incisiva norma antimafia pensata e scritta in questi ultimi anni prevalentemente dalla sinistra. Ma anche una enorme quantità di disposizioni che restringono le libertà e le garanzie costituzionali di tutti i cittadini e che poco o nessun danno arrecheranno alle varie mafie libere di operare in un contesto sociale degradato da clientelismo e sfruttamento: un brodo di coltura strumentale al loro potere. Se il capo dello Stato ha promulgato una tal legge con la preoccupazione di non vanificare le disposizioni antimafia, dobbiamo dire sommessamente e nel rispetto dei suoi poteri, che a vanificarle purtroppo è lo stato delle cose:
se non muta la struttura economico-sociale del sud, le mafie la faranno sempre da padrone.
Più povero di giovani, di strutture, di fondi che, se pur dimezzati, continuano ad affluire nelle casse della criminalità organizzata, il sud non vede il suo futuro se non nella cooptazione manovrata dai vari Cuffaro di ieri e Lombardo di oggi. La sinistra avrebbe un grande ruolo da giocare se abbandonasse le chimere di alleanze spurie con pezzi di questa classe dominante per ricercare una convergenza di iniziative con chi è oppresso da un tal sistema e vorrebbe liberarsene. A breve ciò potrebbe comportare la perdita di qualche amministrazione locale, ma alla lunga aiutare il risveglio di quella ribellione civile che si ebbe all'indomani delle stragi di Capaci e via D'Amelio, l'unica in grado di sconfiggere le mafie e ridare la speranza di un cambiamento radicale.

Giuseppe di Lello  

 

 



«Borsellino sapeva»


Riparte l'inchiesta sugli attentati di Capaci e via D'Amelio. I magistrati nisseni indagano sul ruolo che la trattativa aperta da Totò Riina coi servizi segreti potrebbe avere avuto nell'omicidio di Borsellino. L'ex presidente della commissione antimafia: «Il parlamento deve fare una scelta di campo. E indagare su questo nuovo filone». STRAGE ITALIANA - CALTANISSETTA La conferma del procuratore: «Aveva scoperto la trattativa tra mafia e stato»
 

Quante volte Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, si è civilmente irritato per quelle celebrazioni che tanto appagavano le «istituzioni» e tanto poco rendevano omaggio alla verità. Quest'anno l'anniversario della strage di via D'Amelio, dove il 19 luglio 1992 furono massacrati dall'esplosione di un'autobomba Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Lui Muli, Walter Cosina e Claudio Traina, sarà meno uguale delle precedenti: su questo 19 luglio pesa come un macigno la riapertura delle indagini, da parte della procura di Caltanissetta, sulle stragi di Capaci e via D'Amelio e sull'attentato a Giovanni Falcone del 20 giugno '89, quando qualcuno piazzò nella villa del magistrato alcuni candelotti di dinamite. Questa volta i magistrati non escludono il coinvolgimento di un terzo livello.
Dopo aver gridato al vento che l'assassinio del fratello non era esclusiva opera della mafia e che lo Stato voleva mettere una pietra tombale sull'argomento, ora Salvatore Borsellino si è preso una piccola rivincita: «Via D'Amelio non dev'essere profanata e, a quanto pare, ci siamo riusciti» ha detto commentando l'assenza di politici sul posto della strage, dove ieri pomeriggio, in una giornata insolitamente mite, è partita la «marcia delle agende rosse» ( riferimento al diario che il magistrato aveva con sé e che non è mai stato ritrovato) fino a castello Utveggio, dove nel '92 c'era un centro del Sisde; un percorso tutto in salita, al grido di «Resistenza», verso il luogo che sovrasta l'area in cui avvenne la strage. Con il fratello del magistrato, in testa al corteo, c'era Luigi De Magistris. Dall'altra parte della città, al palazzo di giustizia, l'altro ieri, l'aula che ospitava la commemorazione organizzata dall'Anm è rimasta mezza vuota.
La svolta nelle indagini su via D'Amelio arriva dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, che ribalta alcune verità confermate fino in Cassazione. Il collaboratore si attribuisce il ruolo finora avuto da un altro pentito, Vincenzo Scarantino, che si autoaccusò di aver procurato la 126 utilizzata nella strage. Ma Spatuzza dice che a rubare l'auto è stato lui, e parla della sostituzione di un pezzo di ricambio, effettivamente trovato dagli investigatori dentro l'auto. Le sue dichiarazioni, finora, hanno tutte trovato riscontri. La 126, sarebbe stata consegnata a persone diverse da quelle indicate inizialmente.
Se Spatuzza ha cominciato a riscrivere la storia della stagione stragista, un altro personaggio, Massimo Ciancimino, figlio di Vito, nel '70 sindaco mafioso di Palermo, sta vuotando il sacco, spiegando ai magistrati i segreti sul tentativo della mafia di stipulare un patto con lo Stato. Con le dichiarazioni di Ciancimino, sul quale pende una condanna in primo grado a 5 anni e 4 mesi per riciclaggio, torna a galla la storia del cosiddetto «papello», un documento con alcune richieste di Cosa nostra, che se esaudite avrebbero fermato la stagione delle stragi. Ciancimino nei giorni scorsi ha consegnato alcune carte ai magistrati, ma non si sa se tra queste ci sia anche il papello.
Alla Dda di Caltanissetta mantengono un certo riserbo. Ma ieri il procuratore capo Sergio Lari ha spiegato che per quanto riguarda la strage di via D'Amelio gli investigatori lavorano su diverse ipotesi: «Che Borsellino fosse venuto a conoscenza della trattativa e che si fosse messo di traverso e per questo ucciso; oppure che la trattativa si fosse arenata: allora Totò Riina decise di accelerare l'esecuzione della strage allo scopo di costringere lo Stato a venire a patti. Quindi, lentamente, emergono possibili se non addirittura probabili rapporti tra Cosa nostra e settori deviati dello Stato».
Lari parla anche dell'agenda rossa, per la cui sparizione fu indagato un ufficiale dei carabinieri, ripreso da alcune immagini televisive mentre si allontana dal luogo dell'esplosione con la borsa del magistrato. La posizione del militare è stata poi archiviata. Secondo Lari «si può ipotizzare che Paolo avesse segnato su quell'agenda notizie da lui apprese sullo svolgimento di una trattativa tra lo Stato e Cosa nostra e che quindi il furto di questa agenda potrebbe essere stato ispirato o organizzato da un terzo livello, un servizio segreto deviato».

Federico Scarcella    Il manifesto 19 7 2009 

 

 

 

 

La mafia parla, lo Stato tace

Ora che ne parla persino Totò Riina (a Bolzoni e Viviano, su la Repubblica di ieri), forse è il caso che anche i rappresentanti dello Stato dicano qualcosa sulle stragi del 1992-’93 e sulle trattative retrostanti.  Dal 1996 sappiamo da Giovanni Brusca, poi confermato dagli interessati e da Massimo Ciancimino, che due ufficiali del Ros dei Carabinieri, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, dopo la strage di Capaci andarono a “trattare” con Vito Ciancimino e, tramite lui, con i capi di Cosa Nostra: lo stesso Riina e Bernardo Provenzano.

Sappiamo che Borsellino, dopo la morte dell’amico Giovanni Falcone, ingaggiò una forsennata lotta contro il tempo per individuare i mandanti di Capaci, e mentre interrogava uno dei primi pentiti, Gasparre Mutolo, fu convocato d’urgenza al Viminale dove si era appena insediato il ministro Nicola Mancino, poi tornò da Mutolo letteralmente sconvolto. Pochi giorno dopo, saltò in aria anche lui in via D’Amelio. Dopodichè la trattativa del Ros con Ciancimino e i corleonesi proseguì, tant’è che i secondi fecero pervenire ai due ufficiali un “papello” con le richieste della mafia per interrompere le stragi.
 Ora, dal racconto di Ciancimino jr., apprendiamo che suo padre ricevette tre lettere di Provenzano indirizzate a Silvio Berlusconi: una all’inizio del 1992, prima delle stragi; una nel dicembre ‘92, dopo Capaci e via d’Amelio e prima delle bombe di Roma (via Fauro, contro Costanzo), Firenze,  Milano e Roma (basiliche); una nel 1994, dopo la discesa in campo del Cavaliere, non a caso chiamato “onorevole”.Nell’ultima lo Zu’ Binnu prometteva all’attuale presidente del Consiglio, che aveva appena fondato Forza Italia e vinto le elezioni, un sostanzioso “appoggio politico” in cambio della disponibilità di una delle sue reti tv, guardacaso protagoniste nei mesi successivi di feroci campagne contro i magistrati antimafia e in difesa di imputati eccellenti nei processi su mafia e politica.

Sappiamo infine che nei momenti topici delle stragi si agitavano misteriosi soggetti dei servizi segreti, tra i quali uno col volto mostruosamente sfregiato. Ci stanno lavorando le Procure di Palermo e Caltanissetta, accerchiate dal silenzio tombale della politica e delle istituzioni. Eppure i protagonisti e comprimari di quella stagione dalla parte dello Stato sono vivi e vegeti, anzi han fatto carriera. Mancino, indicato da Brusca e Massimo Ciancimino come al corrente della trattativa, nega di aver mai visto o riconosciuto Borsellino nel fatidico incontro al Viminale, ed è vicepresidente del Csm. Mori - imputato di favoreggiamento mafioso per la mancata cattura di Provenzano nel 1996 dopo essere stato assolto con motivazioni severe dall’accusa di aver favorito la mafia non perquisendo il covo di Riina dopo la sua cattura - è stato a lungo comandante del Sisde e ora è consulente per la sicurezza del sindaco Alemanno. Gli ex procuratori di Palermo, Grasso e Pignatone, che nel 2005 trovarono a casa Ciancimino l’ultima lettera di Provenzano a Berlusconi e non ne fecero un bel nulla, sono rispettivamente procuratore nazionale antimafia e procuratore di Reggio Calabria.
Ci raccontano qualcosa, per favore?

Marco Travaglio   L'Unità 20 7 2009