Una persona, un Paese
Nel caso di Eluana Englaro gli avvoltoi, che di solito si gettano sui morti, si
sono accaniti su una persona viva ancorché morente; il tragico, irresolubile
problema di quando smettere di difendere la vita di un individuo è stato
empiamente usato per un disegno di sovversione politica, inteso a colpire — ha
scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere — le regole dello Stato di
diritto, doverosamente difese dal presidente della Repubblica, uno dei cui
principi fondamentali è che l'esecutivo non può modificare o annullare con
decreti quanto è stato deciso in via definitiva da un tribunale, si apprezzi o
meno la sentenza. In tal modo si lede scandalosamente quella divisione di poteri
su cui si fonda ogni democrazia liberale.
Il problema, esemplificato dal caso di Eluana Englaro ma che coinvolge tante
altre persone il cui dramma passa sotto silenzio, è tragico. A differenza
dalla sua fase iniziale, in quella finale la vita non conosce un punto preciso
in cui essa possa considerarsi conclusa; si sa quando si abortisce, quando si
interrompe la vita di un individuo, ma non si sa quando sia lecito o pietoso
staccargli la spina. Non è un criterio la qualità della vita, che può
essere valutata solo dall'interessato, l'unico autorizzato a decidere sulla
propria vita e sulla propria morte e ad uscire di scena quando crede, come
facevano con serenità gli antichi, condizionato solo dalla sua eventuale
responsabilità verso altre persone. Non è certo un criterio il lasciare libero
corso alla natura, la quale produce pure lo tsunami e le epidemie, alle cui
vittime dobbiamo prestare soccorso. La Chiesa se la cava condannando
l'accanimento terapeutico, concetto in sé vago, perché non si sa quando esso
inizi; di per sé, ogni lotta contro la morte è accanimento terapeutico e guai se
non fosse così, perché il primo dovere è quello di difendere ogni individuo.
In assenza di un'esplicita volontà espressa — il testamento biologico, in
questo senso, è un fondamentale aiuto per affrontare il problema — ci si può
affidare solo a un vago e sempre fallibile buon senso, che nel caso di Eluana
Englaro sembra indicare come fosse tragicamente comprensibile lasciarla morire.
Ossia aiutarla a morire, perché in questo campo non sono lecite ipocrisie:
togliere cibo o altre sostanze necessarie per vivere significa togliere la vita;
pure chi, seguendo la Chiesa che condanna l'accanimento terapeutico, smette di
fornire al paziente le cure per la sua sopravvivenza deve sapere che egli lo
abbandona alla morte e in certo senso gli dà la morte, perché ritiene sia, in
quella circostanza, la cosa meno inumana. Naturalmente il buon senso —
che non è né la morale, né la scienza, né la fede, né la politica, bensì un
umanissimo, prezioso ma talora pure pericoloso e pasticcione stato d'animo — può
sbagliare e in questo caso lo sbaglio è tragico.
Ma questo buon senso è, almeno per ora, l'unica precaria frontiera lungo
la quale muoversi, perché altrimenti si cade in astrattezze ideologiche o in una
truce concezione eutanasica dell'esistenza intera, la quale si arroga il diritto
di stabilire il criterio della qualità della vita e il diritto di vita e di
morte.
Conosco uomini e donne che da anni continuano a vivere con persone amate ridotte
a una condizione che impedisce loro ogni reazione e ogni comunicazione, ma non
impedisce una misteriosa e concreta comunicazione affettiva; per usare una
vecchia parola — la più antica, difficile del mondo, direbbe Saba — l'amore.
Ora Eluana Englaro è in quella grande oscurità che, diceva il teologo gesuita
Karl Rahner, è l'incomprensibile mano di Dio che raccoglie ogni destino;
oscurità la quale non è forse meno importante della vita che va amata e protetta
ma non idolatrata. Restano le ferite che la sua morte ha inferto a chi
l'ama e quelle che l'indecente attacco, in suo nome, ai principi elementari
dello Stato, ha inferto al Paese, alla qualità della vita di tutti.
Anche un Paese può essere costretto a fare testamento.
Claudio Magris Corriere della Sera 10.2.09