Una
crisi di regime
Che cosa indica la decisione del Tar del Lazio che, ritenendo inapplicabile
l´assai controverso decreto del Governo, ha confermato l´esclusione della lista
del Pdl dalle elezioni regionali in questa regione? In primo luogo rivela
l´approssimazione giuridica del Governo e dei suoi consulenti, incapaci di
mettere a punto un testo in grado di superare il controllo dei giudici
amministrativi. Ma proprio questa superficialità è il segno della protervia
politica, che considera le regole qualcosa di manipolabile a proprio piacimento
senza farsi troppi scrupoli di legalità. E, poi, vi è una sorta di effetto
boomerang, che mette a nudo le contraddizioni di uno schieramento politico che,
da una parte, celebra in ogni momento le virtù del federalismo e, dall´altra,
appena la convenienza politica lo consiglia, non esita a buttarlo a mare,
tornando alla pretesa del centro di disporre anche delle materie affidate alla
competenza delle regioni.
Proprio su
quest´ultima constatazione è sostanzialmente fondata la sentenza del Tar del
Lazio. La materia elettorale, hanno sottolineato i giudici, è tra le competenze
delle regioni e, partendo appunto da questo dato normativo, la Regione Lazio ha
approvato nel 2008 una legge che ha disciplinato questa materia.
Lo Stato non può ora invadere questo spazio, sostituendo con proprie norme
quelle legittimamente approvate dal Consiglio regionale. Il decreto, in
conclusione, non è applicabile nel Lazio.
I giudici amministrativi, inoltre, hanno messo in evidenza come non sia
possibile dimostrare alcune circostanze che, in base al decreto del 5 marzo,
rappresentano una condizione necessaria per ritenere ammissibile la lista del
Pdl. In quel decreto, infatti, si dice che il termine per la presentazione delle
liste si considera rispettato quando «i delegati incaricati della presentazione
delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei
locali del Tribunale». Il Tar mette in evidenza due fatti. Il primo riguarda
l´assenza proprio del delegato della lista che ha chiesto la riammissione. E,
seconda osservazione, non è possibile provare che lo stesso delegato,
presentatosi in ritardo, avesse con sé il plico contenente la documentazione
richiesta.
Se il
primo rilievo sottolinea l´approssimazione di chi ha scritto il decreto,
il secondo svela la volontà di usare il decreto per coprire il "pasticcio"
combinato dai rappresentanti del Pdl. Che non è frutto, lo sappiamo, di
insipienza. È stato causato da un conflitto interno a quel partito sulla
composizione della lista, trascinatosi fino all´ultimo momento, anzi oltre
l´ultimo momento fissato per la presentazione della lista.
È una morale politica, allora, che deve essere ancora una volta messa in
evidenza. Per risolvere le difficoltà di un partito non si è esitato di
fronte ad uno stravolgimento delle regole del gioco. La prepotenza ha impedito
anche di avere un minimo di pazienza, visto che la riammissione da parte dei
giudici dei listini di Formigoni e Polverini ha eliminato il rischio maggiore,
quello di impedire in regioni come la Lombardia e il Lazio che il partito di
maggioranza avesse un suo candidato. Si dirà che, una volta di più, i giudici
comunisti hanno intralciato l´azione di Berlusconi e dei suoi mal assortiti
consorti? È possibile. Per il momento, però, dobbiamo riconoscere che proprio i
deprecati giudici hanno arrestato, sia pure provvisoriamente (si attende la
decisione del Consiglio di Stato), una deriva verso la sospensione di
garanzie costituzionali.
Non
possiamo dimenticare, infatti, che la democrazia è anche procedura: e il decreto
del governo manipola proprio le regole del momento chiave della democrazia
rappresentativa. La democrazia è tale solo se è assistita da alcune
precondizioni: e le sciagurate decisioni della Commissione parlamentare di
vigilanza e del Consiglio d´amministrazione della Rai hanno obbligato al
silenzio una parte importante dell´informazione, rendendo così precaria proprio
la precondizione che, nella società della comunicazione, ha un ruolo decisivo.
Non dobbiamo aver paura delle parole, e quindi dobbiamo dire che proprio
la congiunzione di questi due fatti, se dovesse permanere, altererebbe a tal
punto le dinamiche istituzionali, politiche e sociali da rendere giustificata
una descrizione della realtà italiana di oggi come un tempo in cui garanzie
costituzionali essenziali sono state sospese.
Comunque si concluda questa vicenda, il confine dell´accettabilità
democratica è stato comunque varcato.
Una
crisi di regime era già in atto ed oggi la viviamo in pieno. Nella storia
della Repubblica non era mai avvenuto che una costante della vita politica e
istituzionale fosse rappresentata dall´ansiosa domanda che accompagna fin dalle
sue origini gli atti di questo Governo e della sua maggioranza parlamentare:
firmerà il Presidente della Repubblica? Questo vuol dire che è stata
deliberatamente scelta la strada della forzatura continua e che si è deciso di
agire ai margini della legalità costituzionale (un tempo, quando si diceva che
una persona viveva ai margini della legalità, il giudizio era già definitivo).
Questa scelta è divenuta la vera componente di una politica della
prevaricazione, che Berlusconi ha fatto diventare guerriglia continua, voglia di
terra bruciata, pretesa di sottomettere ogni altra istituzione. Da questa storia
ben nota è nata l´ultima vicenda, dalla quale nessuno può essere sorpreso e che,
lo ripeto, rivela piuttosto quanto profondo sia l´abisso nel quale stiamo
precipitando,
A questo punto, la scelta di Napolitano, ispirata com´è alla tutela di "beni"
costituzionali fondamentali, deve assumere anche il valore di un "fin qui, e non
oltre", dunque di un presidio dei confini costituzionali che arresti la crisi di
regime. Ma non mi illudo che la maggioranza, dopo aver lodato in questi giorni
l´essere super partes di Giorgio Napolitano, tenga domani lo stesso
atteggiamento di fronte a decisioni sgradite in materie che già sono all´ordine
del giorno.
Ora i cittadini hanno preso la parola, e bene ha fatto il Presidente della
Repubblica a rispondere loro direttamente. Qualcosa si è mosso nella società e
tutti sappiamo che la Costituzione vive proprio grazie al sostegno e alla
capacità di identificazione dei cittadini. È una novità non da poco, soprattutto
dopo anni di ossessivo martellamento contro la Costituzione. Oggi la politica
dell´opposizione dev´essere tutta politica "costituzionale". Dopo tante
ricerche di identità inventate o costruite per escludere, sarebbe un buon segno
se la comune identità costituzionale venisse assunta come la leva per cercar di
uscire da una crisi che, altrimenti, davvero ci porterebbe, in modo sempre meno
strisciante, a un cambiamento di regime.
Stefano Rodotà Repubblica 9.3.10
La reazione al sopruso
Cresce la protesta nelle piazze contro il decreto salva-liste, mentre la Regione
Lazio approva il ricorso alla Corte Costituzionale. Oggi il Tar decide sulla
Polverini. Intanto Berlusconi attacca: «Da sinistra solo insulti». Ma il premier
non ha gradito nemmeno le mosse di Fini: «Anche stavolta si è messo di
traverso». E tra il Pd e Di Pietro è polemica sul Quirinale.
Basta guardarsi intorno per rendersene conto, anche senza badar troppo ai
sondaggi, che vanno peraltro tutti nella stessa direzione.
Una trita immagine dell´Italia ci vorrebbe presentare come un Paese di
azzeccagarbugli; e nell´evidente deformazione c´è forse un fondo di vero, nel
senso che una lunga storia intellettuale e morale ci ha reso purtroppo per gran
tempo familiari i cavilli e le trappole di una cultura giuridica troppo spesso
malamente contigua ai voleri dei potentati politici o del dominio di classe. Ma
questo ci ha anche come vaccinato: e il nostro senso comune ha imparato molto
bene a distinguere una sottigliezza del diritto astrusa ma fondata, da un
espediente che nasconde solo una sopraffazione.
La
verità è che sono state violate da parte del Governo regole elementari di
terzietà e di correttezza. Basta immaginarsi quel che sarebbe accaduto
se l´errore fosse stato compiuto dal Pd invece che dal Pdl: nemmeno l´ultimo
degli ingenui potrebbe credere che avremmo visto il presidente del Consiglio
affaticarsi con lo stesso precipitoso zelo fra palazzo Chigi e il Quirinale. Per
non parlare dell´affermazione, che vorrebbe essere di principio, con cui si apre
il provvedimento, circa il generale prevalere della sostanza sulla forma:
dichiarazione di una frettolosità rozza e incolta, che vorrebbe ammantare di
duro realismo sostanzialista quel che è solo un artificio retorico per poter
avere mano libera, e che non sarebbe dispiaciuta a qualche giurista nazista o
(fate voi) a un Vysinskij.
Ma il problema, adesso, per l´opposizione – per tutta l´opposizione – non è più
giuridico, ma politico. E riguarda la gestione della protesta e
dell´insofferenza che stanno sempre di più crescendo ed espandendosi.
Diciamolo
subito: ogni tentazione «aventiniana», ogni idea di testimoniare il disappunto e
lo sconcerto chiamandosi in qualche modo fuori o in disparte, con la strategia
di sottrarsi a un gioco truccato, finirebbe per favorire l´avversario, e va
fermamente respinta. Bisogna accettare la sfida, e combattere sino in
fondo, sino all´ultimo voto, la battaglia elettorale, qui e ora. In politica (e
non solo), l´assente ha sempre torto. E´ un´altra la via da
seguire: quella dell´impegno e dell´asprezza del confronto: la sola che possa
allargare il fronte del dissenso, e farlo diventare maggioritario.
La crisi del berlusconismo, di cui parliamo da anni e di cui ormai tutti si
stanno finalmente accorgendo, sta entrando in una fase nuova e imprevedibile, in
cui ogni cosa è possibile. Il carisma personale non basta più a coprire il
deficit di idee di una leadership che non ha più nulla da offrire al
Paese. Ed è esattamente in questo vuoto che il partito si dissolve, e crea ogni
giorno nuovi problemi con la propria inadeguatezza (come è accaduto
clamorosamente in questi giorni), invece di impostare soluzioni, e di aprire
prospettive. Le iniziative personali di alcuni ministri cercano di nascondere
questo stallo. Ma fino a quando potrà bastare?
E´ emersa, in quest´ultima vicenda, un´arroganza del potere, una certezza
di impunità, una sorda convinzione di poterla comunque fare franca, che inquieta
molto, e dovrebbe ancor più inquietare chi sinora ha creduto in quello
schieramento. Siamo passati da leggi ad personam giustificate (si
pretendeva) dalla posizione peculiare del Principe, a provvedimenti di
parte che hanno il sapore di autentici privilegi. Siamo di fronte a una
deriva di autoreferenzialità normativa senza precedenti, come se il Paese non
esistesse, come se ci fossero solo loro. L´opposizione deve fargli capire, con
il voto, che non è così.
Aldo Schiavone Repubblica 8.3.10