Un sistema da copione
La relazione è immobile e funziona sempre: se un cittadino commette errori il
sistema può sventrare la sua privacy per metterlo in sicurezza alla luce
delle sue responsabilità. Ma se è il sistema a commettere degli errori, ogni
tentativo di penetrarne la dinamica viene cassato, respinto. Il potere si
garantisce soprattutto in caso di errori. Ecco perché faremo molta
fatica per sapere cosa è successo a Stefano Cucchi. Del resto, è un sistema
sapiente, riesce perfino a passare dei copioni standard alle sue vittime, alle
vittime del suo «temperamento», copioni che le vittime sono tenute a recitare,
come una litania nel caso abbiano fatto i conti con la rituale violenza di una
istituzione carceraria. Devono dire e ripetere: «Mi sono fatto male da solo
cadendo per le scale», quando qualcuno chiederà spiegazioni per i lividi e le
ossa rotte. Tutti lo sanno, ma tutti devono fingere di non saperlo, è una
sorta di convenzione teatrale che impone soggezione e omertà a una società
intera. Tanto, in cella finiscono solo i «residui» di quella società,
gli «scarti», i «vuoti a perdere»; un patto non pronunciato regge così
quella veccchia relazione di potere: a igienizzare il tuo ambiente di vita ci
penso io, tu, però, non fare troppe domande, sennò quel lavoro te lo fai da
solo e non lo sai fare. Poi, però, ci muore tra le braccia un ragazzetto lieve
lieve di meno di quaranta chili, che non ha ucciso nessuno, non ha fatto
resistenza all’arresto, non sa cosa voglia dire far del male a chicchessia.
Uno che dice candido di essere caduto dalle scale di un edificio gestito dalle forze di sicurezza. Ma prima di morire minaccia: voglio il mio avvocato sennò non mangio e non bevo più. E allora è più difficile fingere che non sia successo niente: quel bersaglio ispira tenerezza e la tenerezza è una brutta bestia se si infila tra le maglie di una meccanica repressiva. Ecco: allora si può cercare di dare qualcosa al pubblico avvelenato dalla tenerezza, magari cercando le «mele marce», i responsabili della violazione sventurata di un codice non scritto ma che sappiamo a memoria e che disgraziatamente è venuto a galla. Questo è il vero errore. Insomma, conviene porgere qualche responsabile del pestaggio mortale: sarà sgradevole ma va fatto. Così come andrebbe fatto che ogni cittadino italiano a partire dal presidente del Consiglio fosse prelevato di tanto in tanto dalla sua casa e trasferito per qualche tempo in una cella del nostro sistema di sicurezza. Non per provare il peso della punizione, ma per sapere di che pasta è fatta la sua civiltà. Diceva Voltaire a un amico che voleva proporgli di trasferirsi, fuggendo, a Brema: «...perché io possa capire la civiltà e la democrazia che si respira nel tuo paese, parlami delle vostre carceri». E tuttavia, nessuno può oggi nascondersi l’evidenza: l’infamia, l’inciviltà del carcerare. La segregazione in un luogo che normalmente senza annaspare in casi limite insegna la violenza, la furbizia, la falsità, un vademecum esattamente contrario al senso di una positiva educazione alla vita. Un breviario che viene consegnato in prima battuta ai poveri diavoli che fanno uso di droghe e che, sulla base di una disgraziata legge di questa destra, intasano oggi le celle italiane. Ingiustamente. Lì impareranno che se fossero stati truffatori non sarebbero mai stati privati della libertà.
Dario Fo l’Unità 7.11.09