Un Paese ingiusto


«L’Italia si avvia a una situazione di sperequazione sociale che ricorda quella di alcuni Paesi
dell’America latina». La facile previsione dell’ottavo «Rapporto povertà», di Caritas italiana e
Fondazione Zancan è già nella realtà. L’indice di Gini, che misura le disuguaglianze di reddito nei
Paesi (indice pari a 0, massima eguaglianza, indice pari ad 1, massima disuguaglianza) già nel 2000
vedeva l’Italia (0,33) seguita da pochi paesi con disuguaglianze più alte, tra cui Gran Bretagna, Usa,
Russia e Messico.
In questa classifica (fonte Luxembourg income study, citata dal Rapporto ufficio studi Confindustria
del giugno 2008) i cinque Paesi a disuguaglianza più bassa sono invece i quattro scandinavi (Svezia,
Danimarca, Norvegia, Finlandia) più l’Olanda con indice di Gini medio di 0,23. Guarda caso, questi
cinque Paesi a maggior eguaglianza sociale sono anche i Paesi più ricchi. Essi infatti occupano i
primi posti della classifica dei «50 maggiori Paesi per Pil procapite 2008» stilata dalla Banca
mondiale (citata dal Sole 24 ore del 7 agosto), con la Norvegia al primo posto mondiale con reddito
procapite di 50mila dollari, la Danimarca al terzo posto, la Svezia al quinto, la Finlandia al sesto e
l’Olanda al quattordicesimo. L’Italia segue al ventesimo posto e chiude la classifica dei Paesi più
ricchi, l’Argentina al cinquantesimo posto.
Questi dati smantellano tesi care alla destra italiana e non solo, secondo cui l’eguaglianza sociale è
nemica dello sviluppo, uno Stato sociale universale è costoso e insopportabile, differenze di
guadagno tra manager ed operai di centinaia di volte sono giustificate dallo sviluppo. Sono tutte
balle, è vero invece che la risorsa umana è oggi la prima e vera fonte di sviluppo nel mondo globale,
dove il capitale corre dovunque trova opportunità, tanto vero che la Svezia è stata citata nel rapporto
Unido dell’Onu, come «Paese più attrattivo di investimenti diretti esteri», essendo primo al mondo
per quota di investimenti lordi fatti da stranieri.
Se la risorsa umana è il motore dello sviluppo nel mondo tecnologico e globale, i Paesi più attenti
all’eguaglianza di diritti e doveri dei propri cittadini sono quelli non solo più giusti, ma anche più
ricchi. E si tratta di Paesi dove i cittadini protestano come è naturale per “tasse troppo alte” ma non
si ribellano quando constatano che i servizi di cui godono - sanità universale, assistenza per anziani
e bambini, istruzione gratuita per tutti e sino all’università per i meritevoli - sono di qualità. E, en
passant, sono tutti Paesi governati per decenni da partiti socialisti e socialdemocratici (cari amici
Rutelli, Letta e Marini, meditate anche su questi dati quando dite che “non volete morire
socialisti”).
Cosa c’entrano questi primati di eguaglianza e di ricchezza con i nostri tristi primati di
diseguaglianza e povertà? C’entrano molto perché la povertà di 25 cittadini italiani ogni 100, come
dimostra il Rapporto Caritas, non sono frutto di un destino cinico e baro, sono conseguenza diretta
delle politiche economiche e sociali.
L’enorme debito pubblico è stato usato come clava su salari e
pensioni per giustificare politiche di diseguaglianza sociale che, producendo bassa crescita,
aggravano e non risolvono il problema. Salari e pensioni sono gli unici beni non indicizzati, a
differenza di bollette, pedaggi autostradali, benzina, polizze assicurative, commissioni bancarie e
utili d’impresa. La povertà è più alta al Sud perchè l’Italia è anche l’unico Paese europeo che negli
ultimi dieci anni ha aumentato anziché ridurre, come tutti gli altri dalla Spagna alla Germania, le
distanze tra regioni ricche e povere. Altro che questione del Nord, che non nego, ma non può essere
paragonata alla crisi strutturale del Sud, dove la recessione sta già trasformandosi in depressione. E
l’Italia sta diventando più povera perché è il Paese in cui la domanda interna da anni contribuisce
meno al Pil, perché i consumi interni calano mentre la popolazione cresce (grazie agli immigrati),
dove i profitti delle banche e delle imprese sono cresciuti molte volte più di salari e pensioni, dove
tra il 1993 ed il 2003 ben cinque punti di Pil si sono spostati dal lavoro al capitale con una
sottrazione di qualcosa come 4000 euro l’anno ad ogni lavoratore dipendente.
La lotta alla povertà passa anche per un uso migliore delle scarse risorse destinate all’esclusione
sociale come chiede la Caritas, ma questo non basta. Anche alla luce della crisi economica che non
mancherà di seguire la bolla finanziaria dobbiamo reinventare un modello di sviluppo basato sulla
valorizzazione della risorsa umana, valorizzazione che passa per livelli di eguaglianza più alti.

 

Nicola Cacace     l'Unità 16 ottobre 2008