Un paese in ginocchio

L’immagine dell’Italia trasmessa dai media, per una persona per bene di buon senso, è
raccapricciante. Lo squallore della sua politica ha sfondato ogni soglia della decenza. Il governo si
da con maniacale accanimento alla distruzione delle fondamenta dello stato democratico con lo
strumento della demagogia populista più vieta, dell’intorbidamento delle acque per cancellare le
differenze fra il giusto e l’ingiusto, fra la legalità e il crimine.


Con questa tecnica antica e oscena vengono demoliti a colpi di mazza i pilastri dell’intera società: i
principi costituzionali, la scuola pubblica, la cultura, i fondamenti morali, i diritti civili e i diritti
sociali.
L’opposizione parlamentare, con rare eccezioni, sembra - anche ad ad un osservatore non
particolarmente smaliziato - assistere allo scempio pavida, divisa, balbettante, capziosa, arrogante e stonata.

È difficile non pensare che l’unica sua cura sia la propria autoconservazione. Quanto alla
«sinistra fuori dal parlamento» si è virtualizzata. Se non fosse per la coraggiosa Fiom, per un leader
carismatico capace di guardare il futuro e per qualche sparuta testa pensante potrebbe bene figurare
in un film di Moretti come associazione di reduci.

Spero con tutto il cuore di essere una cattiva Cassandra ma, sulla soglia dell’età della pensione, non
riesco ad impedirmi di pensare che si tratti della bancarotta di quasi un’intera classe dirigente che ha
sacrificato il benessere di un paese ai piedi di un grottesco omino, aspirante sovrano, truccato come
un clown sinistro e sull’altare del cinismo e del conformismo.
In questo sfacelo riesco a trarre
conforto da quelle donne e quegli uomini dell’Italia reale che continuano a vivere, a lavorare e a
lottare secondo i principi della dignità e della giustizia. Grazie a loro sento che essere italiano non è
solo una iattura.

Moni Ovadia        l'Unità  25 settembre 2010


 


Quel coraggio che manca al pd

Dice bene Giancarlo Bosetti: c´è una differenza abissale tra conflitto e litigio. Tradizionalmente, la politica italiana ha temuto il primo e praticato il secondo. I sociologi degli anni cinquanta hanno inventato il termine "familismo" per spiegare questo fenomeno. I litigi sono conflitti in famiglia – fra suocera e nuora, come ci spiega Bosetti con l´autorità del dizionario della lingua italiana – perché mettono in campo emozioni e danno risalto agli individui, fattori che precludono risoluzioni costruttive per il bene di tutti. Perché ogni accordo sarà come mettere cenere sul fuoco col rischio permanente che il litigio si riaccenda. Qui non sono i contenuti che contano – sui quali, per altro, se i litiganti si fermassero a ragionare scoprirebbero che non sono così dissimili tra loro. Come dire che, proprio perché il litigio è fatto per mettere in campo la "presenza" più che le "idee", i litiganti continuano strategicamente a tenere in sordina le "cose" sulle quali sarebbe opportuno discutere.

Affinché ci sia un dibattito dal quale poter costruire un´alternativa vincente al governo Berlusconi occorrerebbe praticare al meglio l´arte del conflitto – per cercare e trovare un candidato che sappia convincere la maggioranza degli elettori, a nord e a sud, che tutto il paese guadagnerà dalla fine dell´egemonia di centro-destra. Il conflitto politico è cruciale nelle primarie e non è la stessa cosa della guerra civile o del litigio, poiché lascia a terra perdenti ma per fare di essi dei cooperatori forti nella battaglia vera, quella contro l´avversario. Si tratta di un´arte difficile da imparare, soprattutto quando il personalismo litigioso è stata la pratica appresa in anni di praticantato, dalle periferie al centro del partito. A leggere i documenti del Pd delle ultime settimane, a partire dalle lettere di Walter Veltroni, il documento dei 75, e le interviste e i commenti dei vari leader del partito, non pare che si riesca ancora a uscire dalla logica del litigio.
Forse la chiarezza nel distinguere tra litigio e conflitto dovrebbe cominciare dall´individuazione del luogo giusto, istituzionalmente giusto, dove intraprendere la discussione e la contesa: questo luogo è il partito, non il Parlamento.

In Parlamento siedono rappresentanti eletti, i quali benché godano del sacrosanto libero mandato, sono comunque lì perché appartengono a quella parte con la quale sono andati davanti agli elettori. Se si vuole aprire la discussione sulle "cose", allora un partito dovrebbe farlo nella sua sede. Non solo per non dare all´avversario l´impressione di una divisione nel gruppo parlamentare, ma anche perché se il partito è la sede, allora tutte le sedi periferiche rifletterebbero sul dibattito e, per davvero, la discussione potrebbe diventare utile e positiva, e infine mettere in campo personalità nuove, esterne. Ma se nasce in Parlamento a chi è utile? Se la diatriba si consuma nei luoghi istituzionali, nessuno può ragionevolmente pensare che quella del Pd sia una elite aperta, come si augura giustamente Bosetti. Quella sulla sede opportuna non è una quindi distinzione di lana caprina: se ciò che dovrebbe avvenire nel partito è fatto accadere in Parlamento è segno che solo gli eletti sono i protagonisti del dibattito; è segno che si tratta davvero di un litigio tra persone.

Un altro elemento di questa litigiosità sta nell´oggetto stesso. Nel documento dei 75 si paragona il Pd della fondazione a quello attuale in ragione del coraggio. La misura della differenza è che quel Pd riuscì a ottenere quasi il 34%, mentre oggi riesce a fatica a stare sopra il 25%. Ma in un sistema bipolare, il 34% è una sconfitta. Il Pd è nato e cresciuto con poco coraggio. È nato con l´idea di voler essere il partito unico di tutta la costellazione di idee e associazioni che andavo dal centro alla sinistra radicale, e ha fatto la scelta di combattere da solo contro un avversario che era invece una coalizione. Infine, ha combattuto contro un avversario senza pronunciarne il nome, come se la lotta elettorale non fosse, appunto, un conflitto a viso aperto. E quei limiti pesano nel Pd di oggi: che continua ad avere poco coraggio; restio a usare parole forti e chiare che diano il senso di quello che pesa sul nostro paese: il patrimonialismo, l´uso delle cariche dello Stato e dei sistemi pubblici di informazione per perseguire interessi personali, di famiglia e di affari; per decurtare, lo abbiamo visto, la stessa libertà di stampa e di espressione.

Conflitto di interessi: questa parola non compare nei documenti e nei dibattiti, o per lo meno non riceve sufficiente visibilità. E ancora: la campagna sul razzismo (verso gli "altri" ma anche gli italiani del Sud, poiché al razzismo serve sempre un "altro") che va fermata e denunciata ed é gravissima poiché mina alla radici ogni possibile convivenza democratica; la vergognosa strumentalizzazione delle donne che é diventata un segno distintivo del nostro paese; la rinascita dei nazionalismi tribali che sta erodendo la stessa unità europea; la decurtazione dei diritti di contrattazione, ovvero l´espulsione della democrazia dai luoghi di lavoro e dalle relazioni economiche; la demolizione della scuola pubblica con effetti che saranno disastrosi sull´eguale opportunità e sulla formazione e la competizione delle nuove generazioni (di qui occorrerebbe ripartire quando si parla di deficit di produttività); infine, ma non ultimo, l´egoismo anti-sociale di chi evade il fisco, poiché impoverisce tutti e toglie a tutti (anche a chi evade) la possibilità di vivere in una società decente nella quali i servizi ci sono e funzionano. Sono queste le "cose" sulle quali sarebbe importante sapere sentire parlare i democratici, sulle quali la dialettica delle idee e la competizione per la miglior possibile leadership sarebbero davvero auspicabili e utilissime.

Nadia Urbinati    Repubblica 21.9.10