UN NUOVO PRESIDENTE, TRA BERLINO E PORTA PIA

Scrivo poche ore dopo la proclamazione di Giorgio Napolitano quale successore di Carlo Azeglio Ciampi. E so bene che se dico, o scrivo sul settimanale della mia Diocesi, che con l'ascesa al Colle del Quirinale dell'ultimo esponente dell'ufficio politico del vecchio Pci, se dico che anche in Italia è finalmente caduto quel muro che cadde a Berlino ben 17 anni fa, nel lontano 1989, e rialzato da una precisa volontà di contrapposizione nel 1994, se dico che un già-ex-post-comunista assume la massima carica istituzionale repubblicana e diventa il garante della Costituzione, il rappresentante dell'unità nazionale, è comunque un risultato storico e un passo avanti per diventare un Paese democratico normale, so bene che si alzeranno le censure e gli anatemi di alcuni lettori scandalizzati.

Ritengo positivo anche il superamento della candidatura D'Alema, certamente più marcata politicamente, ma – se vogliamo – ancor meno segnatamente "comunista" di quella di Napolitano, che in realtà è stato il più "occidentale" dei comunisti, quello più vicino al tentativo di Moro di far marciare il Pci verso una "socialdemocrazia europea", Io credo che Berlusconi, al di là dei toni elettoralistici dei suoi interventi e del suo proposito di non riconoscere il risultato delle politiche cercando di rendere impossibile qualsiasi azione del prossimo governo Prodi, avrebbe preferito un D'Alema al Quirinale. Patti e accordi che avrebbero dato un taglio presidenzialista alla nostra Repubblica temo che avrebbero potuto essere sottoscritti in segreto. Io ritengo che tra le cose che il nuovo governo dovrà mettere all'ordine del giorno ci siano alcuni punti determinanti ed essenziali per la democrazia e per l'Italia: 1) fare una "seria e forte" legge sul conflitto d'interessi; 2) ritirare, con l'equilibrio e con i passi necessari, ma in tempi ragionevolmente brevi, le truppe italiane dall'Iraq; 3) rimettere mano, in accordo con l'opposizione, alla legge elettorale, non beandosi del fatto che, contrappasso dantesco, ha favorito il centro sinistra; 4) cancellare la vergogna delle leggi ad personam e ridare fiducia e vigore all'appa-rato giudiziario; 5) correggere certe storture della sanità e della scuola; 6) rivedere la cosiddetta legge Biagi e la legge Bossi-Fini. Non il governo, ma il centro sinistra nel suo complesso, insieme ai molti insoddisfatti o "pentiti" del centro destra, dovrà poi impegnarsi con grande energia per abrogare con il referendum di fine giugno non la riforma, ma lo scempio della Costituzione attuato dal solo centro destra. Ho la fortuna di vivere e operare, con i miei limiti, in una diocesi dove il vescovo con il suo costante e ricco magistero ci ha insegnato i cardini della dottrina sociale della Chiesa o, meglio, come lui ama definirlo, il "Vangelo sociale". In esso trovo utili indicazioni per il mio compito, sia come prete che come giornalista, di "educatore di coscienze", di formatore all'impegno sociale e politico come "alta forma della carità cristiana", per la realizzazione della Città dell'uomo, alla cui costruzione il cristiano partecipa con la forza della speranza offerta al mondo dal Cristo risorto (v. Convegno ecclesiale di Verona). Da questo magistero ho appreso alcuni principi che vorrei condividere con voi.
Il primo impegno del credente credo sia quello di portare a maturazione i segni di salvezza che vogliamo e dobbiamo discernere con spirito di carità, nel mondo e nella storia. Un primo segno di speranza può individuarsi nella consapevolezza acquisita dei diritti soggettivi e personali. Il cristiano sa di doverli riconoscere in compagnia ed in cordata con gli uomini ed in cammino con loro. Un secondo segno può essere quello dell'incontro sempre più diffuso col diverso; si tratta di un evento che ci mette alla prova sul piano dell'accoglienza. L'accoglienza non è solo ospitalità: è riconoscimento dei valori dell'altro, non necessariamente lo straniero, ma anche il portatore di una cultura e di una visione del mondo diversa dalla mia. Un terzo segno è quello della libertà religiosa e dunque della laicità della politica. Il cristiano si impegna non per una indifferenza ai valori ma, nella convinzione della inadeguatezza dell'uomo, ad intraprendere vie che vanno oltre la finitezza dell'evento storico.

Ancora un quarto ed ultimo segno: la consapevolezza delle risorse di una società libera in cui l'ege-monia dello Stato venga fortemente ridimensionata. Il cristiano accetta questo spazio di libertà, ma sa anche che le realizzazioni più coerenti lasciate da questo spazio avvengono solo nella logica della sussidiarietà: libera iniziativa degli individui e delle associazioni intermedie, ma vigilanza dello Stato perché questa libertà sia assicurata a tutti.
Io credo che all'interno di questi principi largo spazio di presenza, partecipazione e intervento sia doveroso lasciarlo alla comunità cristiana, alla Chiesa. Non poca sorpresa e non poco disagio ho perciò provato nel leggere sul quotidiano della Santa Sede (l'Osservatore Romano) e sul quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana (Avvenire) prese di posizione dirette ed esplicite contro la candidatura alla carica di Presidente della Repubblica di D'Alema. Mi è capitato anche di leggere che un alto prelato si sarebbe detto scandalizzato dall'ipotesi di questa candidatura: "Sarebbe la prima volta che un non battezzato diventa presidente della Repubblica!", avrebbe detto. Non so se D'Alema sia o meno battezzato. So per certo che il certificato di battesimo non è richiesto dalla Costituzione per quella carica: bastano la cittadinanza italiana, il godimento dei diritti civili e politici, e aver compiuto cinquant'anni. Ciascuno è libero di scandalizzarsi come crede, ma la mentalità che sta dietro a quella dichiarazione è estranea al nostro ordinamento democratico e costituzionale, ma ancor più è estranea al Vangelo e al compito di evangelizzazione della Chiesa. Se è vero che le due testate citate sono mezzi di comunicazione e non rappresentano "la Chiesa", nessuno è così ingenuo da non comprendere che sono comunque organi ufficiali, o quasi, di realtà ecclesiali di peso e rilievo e che, soprattutto su certi temi e in certi contesti, sono paravento di persone o personaggi che non è opportuno intervengano in prima persona.

Qui non erano in gioco la fede e la morale! Forza e rigore negli interventi sarebbero invece auspicabili su tanti altri temi (la pace e la guerra, l'esportazione della democrazia, la religione civile, i presunti valori dell'Oc-cidente, lo scontro di civiltà, certe scelte politiche dscriminatorie, le leggi ad personam, il sistema economico e finanziario antiumano… accanto certo a temi come la vita, la fecondazione assistita, la famiglia…), ma in questo caso, quando ai preti e ai vescovi è chiesto di non schierarsi politicamente, la lettura che viene spontanea è: non schierarsi, a meno che non vi collochiate dalla parte "giusta". La Chiesa, la sua parte che un tempo si diceva "docente", ha il diritto, anzi il dovere, di "docere", di istruire i fedeli in ordine alla dottrina che custodisce e trasmette, e quindi fa bene a metterli in guardia su fatti e opinioni che potrebbero disorientare quelli meno armati sul piano, appunto, dottrinale. Non credo affatto che faccia bene ad entrare a pie' pari in un dibattito dove non sono in gioco progetti di società o specifiche leggi che toccano temi etici o diritti fondamentali della persona, la verità o la giustizia: la divisione a metà degli italiani non è solo una divisione del corpo elettorale; è purtroppo ben più profonda; è divisione in fazioni contrapposte, è divisione sul modo di intendere e di costruire il vivere sociale, è divisione carica di rancori, di inimicizie, di risentimenti, di accuse reciproche e talvolta di calunnie, è divisione su aspettative, su interessi, ma anche su speranze e valori. Certi interventi improvvidi servono solo a costruire nuovi muri, ad alzare steccati, a creare nuove divisioni: la Chiesa non può dare in alcun modo l'impressione di mettersi dalla parte di chi considera nemici (o peggio) l'altra metà degli italiani.

don Walter Fiocchi,   editorialista del settimanale diocesano:  La Voce Alessandrina  -  Adista Notizie n.37  2006