UN DECALOGO CONTRO L'APATIA POLITICA


Secondo un luogo comune, l'attaccamento alla democrazia si svilupperebbe da
solo, causa ed effetto della democrazia stessa: tanta piu' democrazia, tanta
piu' virtu' democratica. Un circolo meraviglioso! La democrazia sarebbe
l'unica forma di governo perfettamente autosufficiente, rispetto a cio' che
Montesquieu denominava il suo ressort, la molla spirituale. Basterebbe
metterla in moto, all'inizio; poi, le cose andrebbero da se' per il meglio.
Ebbene, a distanza di qualche decennio dalla Costituzione, uno scritto
famoso di Norberto Bobbio (Il futuro della democrazia, 1984) tra le
"promesse non mantenute" della democrazia indicava lo spirito democratico
.
Invece dell'attaccamento, cresce l'apatia politica. In Italia, e forse non
solo, si e' democratici non per convinzione, ma per assuefazione e
l'assuefazione puo' portare alla noia, perfino alla nausea e al rigetto. E'
pur vero che la partecipazione puo' improvvisamente infiammarsi e
l'indifferenza puo' essere spazzata via da ventate di mobilitazione, in
situazioni eccezionali.

Apatia e sovreccitazione sono qui a dimostrare che l'ethos della democrazia
non si produce da se'.
Monarchie, dispotismi, aristocrazie e repubbliche
hanno avuto i loro pedagoghi: Senofonte, Cicerone, Machiavelli, Bossuet,
Montesquieu... Le rivoluzioni hanno avuto i loro catechismi. La democrazia
invece ha politologi e costituzionalisti. Non bastano. Il loro compito e'
studiare e spiegare regole esterne di funzionamento ma cio' che qui importa,
il fattore spirituale, normalmente sfugge. Il loro pubblico, poi, non e'
certo il cittadino comune, come dovrebbe essere, in quanto si sia in
democrazia. Naturale dunque e' che si guardi alla scuola e al suo compito di
formazione civile.
Il decalogo che segue e' una semplice proposta.

1. La fede in qualcosa che vale
La democrazia e' relativistica, non assolutistica. Come istituzione
d'insieme, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli
su cui si basa. Deve cioe' credere in se stessa e sapersi difendere, ma al
di la' di cio' e' relativistica nel senso preciso della parola: fini e
valori sono da considerare relativi a coloro che li propugnano e, nella loro
varieta', ugualmente legittimi. Democrazia e verita' assoluta, democrazia e
dogma, sono incompatibili.
La verita' assoluta e il dogma valgono nelle
societa' autocratiche, non in quelle democratiche. Dal punto di vista dei
singoli, invece, relativismo significa che "tutto e' relativo", che una cosa
vale l'altra, cioe' che nulla ha valore. In questo senso, cioe' dal punto di
vista dei singoli, relativismo equivale a nichilismo o scetticismo. Ora,
mentre il relativismo dell'insieme e' condizione della democrazia,
nichilismo o scetticismo sociali sono una minaccia. Se non si ha fede in
nulla, perche' difendere una forma di governo come la democrazia che vale in
quanto le proprie convinzioni possono essere fatte valere? Per lo scettico,
democrazia o autocrazia pari sono. Rallegriamoci dunque se la democrazia,
come insieme, e' relativistica. Solo cosi' la societa' puo' essere libera;
chi se ne duole, nasconde pensieri autocratici. Impegniamoci pero' in ogni
luogo per scuotere l'apatia, promuovere ideali, programmi e, perche' no,
utopie.

2. La cura delle individualita' personali
La democrazia e' fondata sugli individui, non sulla massa. Come Tocqueville
ha antiveduto, la massificazione e' un pericolo mortale. Proprio la
democrazia, proclamando un'uguaglianza media, puo' minacciare i valori
personali annullando individui e liberta' nella massa informe. E la massa
informe puo' accontentarsi di un demagogo in cui identificarsi
istintivamente. I regimi totalitari del secolo scorso sono la riprova: una
democrazia senza qualita' individuali si affida ai capipopolo e questi, a
loro volta, hanno bisogno di uomini-massa, non di uomini-individui
. Per
questo, la democrazia deve curare l'originalita' di ciascuno dei suoi membri
e combattere la passiva adesione alle mode. Dobbiamo vedere con
preoccupazione l'appiattimento di molti livelli dell'esistenza, consumi e
cultura, divertimenti e comunicazione: tutti "di massa". Chi non si adegua,
nel migliore dei casi e' un "originale", nel peggiore uno "spostato". Non e'
questa certo la prima volta che ci si rivolge proprio alla scuola perche'
alimenti, e non reprima, caratteri e vocazioni personali delle giovani vite
con cui ha a che fare.

3. Lo spirito del dialogo
La democrazia e' discussione, ragionare insieme; e', socraticamente,
filologia. Chi odia discutere, il misologo, odia la democrazia, forma di
governo discutidora. Alla persuasione preferisce l'imposizione. Maestro
insuperabile dell'arte del dialogo, cioe' della filologia, e' certo Socrate,
cui si deve la denuncia di due opposti pericoli. Vi sono - dice - "persone
affatto incolte", che "amano spuntarla a ogni costo" e, insistendo,
trascinano altri nell'errore. Vi sono poi pero' anche coloro che "passano il
tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi i piu'
sapienti per aver compreso, essi soli, che, sia nelle cose sia nei
ragionamenti, non c'e' nulla di sano o di saldo, ma tutto va continuamente
su e giu'". Dobbiamo guardarci da entrambi i pericoli, l'arroganza del
partito preso e il tarlo che nel ragionare non vi sia nulla di integro. Per
preservare l'onesta' del ragionare, deve essere prima di tutto rispettata la
verita' dei fatti.
Sono dittature ideologiche, quelle che li manipolano,
travisano o addirittura creano o ricreano ad hoc. Sono regimi corruttori
delle coscienze "fino al midollo", quelli che trattano i fatti come opinioni
e instaurano un "nichilismo della realta'", mettendo sullo stesso piano
verita' e menzogna. Gli eventi della vita non sono piu' "fatti duri e
inevitabili", bensi' un "agglomerato di eventi e parole in costante
mutamento (su e giu', per l'appunto), nel quale oggi puo' essere vero cio'
che domani e' gia' falso", secondo l'interesse del momento (Hannah Arendt).
Percio', la menzogna intenzionale - strumento ordinario della vita
pubblica - dovrebbe trattarsi come crimine contro la democrazia. Ne'
intestardirsi, dunque, ne' lasciar correre, secondo l'insegnamento
socratico. Il quale ci indica anche la virtu' massima di chi ama il dialogo:
sapersi rallegrare di scoprirsi in errore. Chi, alla fine, e' sulle
posizioni iniziali, infatti, ne esce com'era prima; ma chi si corregge ne
esce migliorato, alleggerito dell'errore.
Se, invece, si considera una
sconfitta, addirittura un'umiliazione, l'essere colti in errore, lo spirito
del dialogo e' remoto e dominano orgoglio e vanita', sentimenti ostili alla
democrazia.

4. Lo spirito dell'uguaglianza
La democrazia e' basata sull'uguaglianza; e' insidiata dal privilegio.
L'uguaglianza e' isonomia - "la piu' dolce delle parole" -, l'uguaglianza
delle leggi, che, in Grecia, precedette il secolo glorioso della democrazia
ateniese. Senza leggi uguali per tutti - pensiamo ai privilegi, alle leggi
ad personas - la societa' si divide in caste e la vita collettiva diventa
dominio di oligarchie. Il privilegio crea arrivismo e rincorse perverse. Se
la mobilita' e gli accessi in alto esistono, la societa' e' sottoposta a
stress dal carrierismo diffuso, con disagio, frustrazioni, perfino suicidi;
se si chiudono, per insufficiente mobilita', si ingenera un terribile male
distruttivo, l'invidia sociale. Tanto sono evidenti, non occorrono esempi
della caduta attuale dello spirito di uguaglianza. Si tratta anzi di un
rovesciamento: l'ammirazione sta al posto del disprezzo verso i
privilegiati, esempi da imitare nel modo di pensare e nello stile di vita.
C'e' un luogo di culto sociale che esprime lo spirito autentico del nostro
tempo: lo stadio. Si faccia attenzione alle stratificazioni del pubblico.
Alla tribuna volgarmente denominata dei vip, dove siedono i prominenti di
politica, finanza, mondanita', si volgono gli occhi di decine di migliaia di
potenziali clientes che, invece di avvertire l'indecenza della situazione,
farebbero di tutto per esservi ammessi.

5. Il rispetto delle identita' diverse
In democrazia le identita' particolari sono ininfluenti sul diritto di stare
in societa'
. Non e' stato cosi' in passato; non e' pienamente cosi' neppure
ora. Oggi, il problema della coesistenza di identita' plurime e' di natura
etnico-culturale e religiosa; storicamente, e' stato religioso, derivando
dal distacco della Riforma dalla Chiesa di Roma. In nome dell'ordine
interno, col principio cuius regio, eius et religio, a meta' del '500 si
impose in Europa l'identita' di religione agli abitanti le medesime terre,
rendendo si' possibili le migrazioni da uno stato all'altro per difendere,
insieme alla vita, la fede, ma permettendo la persecuzione religiosa entro
ciascuno Stato. L'idea della tolleranza nacque per consentire di tenere
insieme terra e fede, per non dover perdere l'una volendo conservare
l'altra. Ma non alla tolleranza si rivolge la democrazia. Il contesto e'
diverso. L'assolutismo, quando si ammorbidisce, puo' parlare di tolleranza;
non la democrazia, cui si addice invece il linguaggio della cittadinanza,
uguale per tutti. Onde il concetto di identita', se deve valere per
riconoscere e proteggere le culture diverse, e' irrilevante per la
partecipazione alla vita pubblica.
Il rischio viene ora da un nuovo richiamo all'unione tra potere civile e
religione. Storicamente, essa ha posto la vita religiosa sotto la potenza
degli Stati. Oggi, "atei-clericali", o come li si possa chiamare, mirano al
rovescio: cuius religio, eius et regio, in un ambiguo intreccio di potere
civile e religioso in cui l'uno si appoggia sull'altro (Stefano Levi della
Torre). Una nuova alleanza tra trono e altare, una minaccia di rinnovate
intolleranze su ampia scala
. Questi problemi sono particolarmente vivi nel
riflesso che hanno con riguardo ai simboli, velo islamico o crocifisso
cristiano. La democrazia non ne puo' impedire l'esposizione a nessuno in
particolare, ma nessuno, a sua volta, puo' farne uso aggressivo. Se e quando
prevarra' il reciproco rispetto, un problema che oggi appare tanto acuto,
all'identita' associandosi l'esclusione, si superera' da se', senza bisogno
di soluzioni giuridiche. Molto puo' la scuola nel promuovere la reciproca
accettazione e con cio' abbassare l'insolenza dei segni distintivi.

6. La diffidenza verso le decisioni irrimediabili
La democrazia implica la rivedibilita' di ogni decisione (sempre esclusa
quella sulla democrazia stessa). Le soluzioni definitive ai problemi, senza
possibili ripensamenti e correzioni, sono dei regimi della giustizia e
verita' assolute. In quanto perennemente dialogica, la democrazia non ha e
non puo' volere verita' ne' a priori, come frutto per esempio di mandati
divini, ne' a posteriori, come conseguenza di decisioni popolari, anche se
unanimi. La strada per dire: "ci siamo sbagliati" deve restare sempre
aperta.
Non e' privo di significato che le democrazie siano prevalentemente
orientate contro la pena di morte e contro la guerra, due decisioni dagli
effetti irreversibili. Le autocrazie, invece, non hanno scrupoli. Possono
fondarsi, come in de Maistre, sull'elogio congiunto della forza armata e del
boia, naturali prosecuzioni della verita' assoluta. Tutti comprendiamo
quanto le decisioni irreversibili possano pregiudicare la discussione in
materie oggi divenute cruciali, come la bioetica, la tecnologia applicata ai
temi della vita, della morte e della salute o il rapporto tra l'essere umano
e la natura - tutte esposte al rischio di scelte senza ritorno.

7. L'atteggiamento sperimentale
La democrazia e' orientata da principi ma deve imparare quotidianamente
dalle conseguenze dei propri atti. E' scontata la citazione della weberiana
etica della responsabilita', accanto all'etica della convinzione. Non e'
cosi' per i regimi della verita' assoluta. Essi non temono le conseguenze.
Fiat veritas, fiat iustitia, pereat mundus. Lo spirito democratico e' invece
quello in cui convinzioni e conseguenze formano il campo di tensione che
determina le norme dell'agire responsabile. Ogni progetto realizzato apre
problemi che rimettono in discussione il progetto. L'esperienza e' il banco
di prova della teoria.
Immergersi in questa tensione forma il carattere,
rende accettabili le sconfitte e promuove nuove energie. Sotto questo
aspetto, l'istituzione scolastica da noi e' particolarmente carente,
orientata com'e' all'astrattezza che genera distacco dal mondo, induce alla
rinuncia e invita all'individualismo chiuso in se stesso.

8. Coscienza di maggioranza e coscienza di minoranza
In democrazia, nessuna deliberazione si interpreta nel segno della ragione e
del torto. Non vale la massima terroristica: vox populi, vox dei. Essa solo
apparentemente e' democratica poiche' nega il diritto della minoranza, la
cui opinione, per opposizione, si direbbe vox diaboli. Vox populi, vox
hominum, invece; voce di esseri fallibili
ma disposti a riconoscere i propri
errori. Il motore di questo movimento sta non nella maggioranza, ma nelle
minoranze che fanno loro il motto "distinguiti dalla maggioranza nel
compiere cio' che ritieni giusto". La loro ragione d'essere e' la sfida alla
deliberazione presa, in previsione di un'altra migliore. Per questo, la
prevalenza di una maggioranza su una minoranza non e' la vittoria della
prima e la sconfitta della seconda ma l'assegnazione di un duplice onere:
alla maggioranza,
dimostrare nel tempo a venire la validita' della decisione
presa; alla minoranza, insistere su ragioni migliori. Ond'e' che nessuna
votazione, in democrazia (salvo quelle che instaurano la democrazia stessa)
chiude definitivamente la partita, perche' il terreno per la sfida di
ritorno e' sempre aperto.

9. L'atteggiamento altruistico
La democrazia e' forma di vita di esseri umani solidali. La virtu'
repubblicana di Montesquieu e' questo: amore per la cosa pubblica e
disponibilita' a mettere in comune qualcosa, anzi il meglio di se'
: tempo,
capacita', risorse materiali. Cio' costituisce la res publica come risorsa
comune cui tutti possono attingere. L'emarginazione sociale e' dunque contro
la democrazia e l'idea che nessuno possa essere lasciato a se stesso non e'
elemento accidentale della democrazia. L'alternativa e' il darwinismo
sociale, l'ideologia crudele che legittima la fortuna dei forti e abbandona
i deboli alla loro sorte. Dire queste cose a un pubblico di insegnanti che
quotidianamente hanno a che fare con studenti che eccellono e con altri che
faticano a tenere il passo significa evocare problemi che essi conoscono
bene e solidarizzare con la loro fatica.

10. La cura delle parole
Essendo la democrazia dialogo, gli strumenti del dialogo, le parole, devono
essere oggetto di cura particolare
, come non e' in nessun'altra forma di
governo. Cura duplice: quanto al numero e alla qualita'.
a) Il numero di parole conosciute e usate e' proporzionale al grado di
sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilita',
poca democrazia. Quando il nostro linguaggio politico si fosse rattrappito
al solo si' e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo
piu' i si', saremmo ridotti a gregge. Il numero delle parole conosciute,
inoltre, assegna i posti nella scala sociale. Ricordiamo ancora la scuola di
Barbiana? Comanda chi conosce piu' parole. Il dialogo, per essere tale, deve
essere paritario. Se uno solo sa parlare, o conosce la parola meglio di
altri, la vittoria non andra' al logos migliore, ma al piu' abile con le
parole, come al tempo dei sofisti. Ecco perche' la democrazia esige una
certa uguaglianza nella distribuzione delle parole. "E' solo la lingua che
fa eguali. Eguale e' chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui. Che
sia ricco o povero importa di meno". Ed ecco perche' una scuola ugualitaria
e' condizione di democrazia.
b) La qualita' delle parole. Per l'onesta' del dialogo, le parole non devono
essere ingannatrici. Parole precise e dirette; basso tenore emotivo, poche
metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere
parole su parole. Le parole, poi, devono rispettare, non corrompere il
concetto. Altrimenti, il dialogo diventa un modo di trascinare gli altri
dalla tua parte con la frode. Ancora impariamo dal Socrate del Fedone: "il
concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi". Il mondo della
politica e' dove questo tradimento si consuma piu' che altrove, a
incominciare per l'appunto dalla parola "politica". Politica viene da polis
e politeia, due concetti che indicano arte, scienza e attivita' dedicate
alla convivenza. Ma oggi si parla di politica di guerra, segregazionista,
espansionista, coloniale, ecc. "Questa e' un'epoca politica - ha scritto
Orwell. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le
bombe atomiche sono cio' a cui pensare". Altro inganno: la liberta', da
protezione degli inermi contro gli abusi del potere e' diventata, nell'uso
"politico", scudo dietro il quale i potenti nascondono la loro pre-potenza.
Inganni, dunque. A chi pronuncia parole come queste siamo autorizzati a
chiedere: da che parte stai? Degli inermi o dei potenti?

 

Gustavo Zagrebelsky,   presidente emerito della Corte Costituzionale       La    Repubblica 4-5-06