Un conflitto ineliminabile

La laicità non è facile e non è mai raggiunta definitivamente; è sempre in discussione. Lo dice
autorevolmente Gustavo Zagrebelsky anche con il titolo del suo ultimo volume «Scambiarsi la
veste» (Laterza).
Sottotitolo: «Stato e Chiesa al governo dell'uomo».
La storia dimostra che spesso e volentieri lo stato ha preso il posto della chiesa e viceversa. «Dal IV
secolo ad oggi, potere civile e potere religioso non hanno fatto altro che combattersi per indossare
l'uno i panni dell'altro, quando non si sono messi d'accordo, alleandosi, per entrare entrambi in una
stessa, unica, veste»
.

Non c'è laicità «quando la religione, al singolare o al plurale, si ingerisce nelle cose dello Stato né
quando lo Stato si ingerisce nelle cose della religione
».
È quello che è successo troppo spesso e che succede anche oggi da noi. Basti pensare ad alcuni
settori cruciali, luoghi nei quali avviene questo scambio della veste: dalla scuola, alla nascita, alla
malattia, alla morte. Tutti settori di estrema importanza per la vita sociale.
Laicità significa, invece, non ingerenza della chiesa nello stato e viceversa. La nostra storia è,
piuttosto, una lunga storia di ingerenza, iniziata dal tempo di Costantino.

Una storia che non sembra molto cambiata nel tempo moderno anche se la chiesa dichiara la sua
accettazione di una laicità che sarebbe «sana», che andrebbe d'accordo con i principi cristiani.
Quale accordo, però, è possibile finché la chiesa proclama la sua verità assoluta e condanna il
relativismo?

Ma Zagrebelsky è deciso: «Nel quadro di una democrazia liberale e pluralista, l'eventuale pretesa di
una religione rivelata di porre i suoi dettami etici a fondamento di decisioni pubbliche sarebbe
totalmente ingiustificata
». Il problema, dunque, rimane, anche se la chiesa si presenta in forma più
democratica. Nonostante gli addolcimenti e gli accomodamenti, il conflitto stato-chiesa sulla laicità
non può essere né eliminato né risolto: deve essere affrontato per quello che realmente è.


Filippo Gentiloni     il manifesto 9 maggio 2010