Un atto
irresponsabile
Era il 1968 quando un gruppo di studiosi si pose il problema di dare una nuova
definizione alla
morte. Nella storia dell'uomo, infatti, la fine della vita ha sempre coinciso
con l´arresto del battito
cardiaco: ogni eroe degno di questo nome è morto perché il suo cuore ha smesso
di battere, la
letteratura e le opere d´arte ne danno ampia testimonianza così come i vecchi
manuali di medicina.
Parliamo di pochi decenni orsono, quando in ospedale per accertare la morte si
utilizzava il
tanatografo, uno strumento che per venti minuti misurava l´effettiva assenza del
battito cardiaco e
che oggi si può trovare solo in qualche museo di storia della medicina.
Con i primi interventi di cardiochirurgia e con l´invenzione della circolazione
extracorporea
apparve chiaro che la funzione del cuore poteva essere sostituita da un
meccanismo artificiale: la
persona continuava a vivere senza che il cuore battesse nel torace, purché il
cervello continuasse a
ricevere il sangue. Molti segnali erano stati registrati dai medici e l´idea che
il cervello svolgesse un
ruolo determinante per la vita degli esseri umani era già ben consolidata.
Partendo da questi
presupposti, si sviluppò un dibattito che vide riuniti ad Harvard non solo
medici ma anche giuristi,
filosofi, esponenti delle religioni perché l´obiettivo era trovare una
definizione alla morte che
tenesse in considerazione anche gli aspetti etici e il contesto in un dato
momento storico. Da
Harvard in poi la morte dell'individuo si certifica nel momento in cui sono
cessate tutte le funzioni
vitali del cervello in maniera irreversibile, quello che viene definito in
linguaggio semplificato
encefalogramma piatto. Tale condizione viene affermata dai medici dopo sei ore
di osservazione
dell'encefalo e soltanto dopo questi accertamenti il paziente viene dichiarato
clinicamente morto. Il
suo cuore continua a battere e i polmoni a respirare se collegati a sofisticati
apparecchi, ma il
cervello è morto e con esso la persona.
La nuova definizione di morte non fu dunque, solo il frutto di un confronto tra
scienziati, fu
soprattutto la prima dichiarazione di bioetica condivisa che ebbe un impatto
concreto in tutto il
mondo. La morte cerebrale fu infatti alla base dello sviluppo della medicina dei
trapianti come la
conosciamo oggi; permise la donazione degli organi e il prelievo da donatori a
cuore battente. Ed è
grazie a quel lavoro che oggi nel mondo si eseguono decine di migliaia di
trapianti d´organo ogni
anno e si salvano, grazie a questa terapia, tantissimi pazienti altrimenti
destinati a morte certa.
La morte dunque poggia la sua definizione su certezze scientifiche che non hanno
motivo di essere
messe in discussione. Del resto, è certo che se un medico nutrisse il benché
minimo dubbio sulla
morte di un individuo non procederebbe mai al prelievo degli organi. Ma alla
certezza scientifica si
aggiunge anche la certezza morale, riconosciuta dalla Chiesa cattolica anche
attraverso un evento
del tutto eccezionale. Nell'agosto del 2000, ebbi infatti la fortuna di
assistere al discorso
pronunciato da Giovanni Paolo II in occasione del Congresso mondiale della The
Transplantation
Society. Fu un evento speciale dato che il pontefice, per la prima volta decise
di recarsi ad un
congresso scientifico e di fronte a migliaia di esperti di trapianti di tutti i
paesi del mondo affermò
che "l´esperienza umana insegna che l´avvenuta morte di un individuo produce
inevitabilmente dei
segni biologici, che si è imparato a riconoscere in maniera sempre più
approfondita e dettagliata. I
cosiddetti criteri di accertamento della morte, che la medicina oggi utilizza,
non sono pertanto da
intendere come la percezione tecnico-scientifica del momento puntuale della
morte della persona,
ma come una modalità sicura, offerta dalla scienza, per rilevare i segni
biologici della già avvenuta
morte della persona. (…) In questa prospettiva, si può affermare che il recente
criterio di
accertamento della morte, cioè la cessazione totale ed irreversibile di ogni
attività encefalica, se
applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali
di una corretta
concezione antropologica".
Attualmente c´è chi sostiene che la definizione di morte dovrebbe essere
rivista alla luce delle
innovazioni tecnologiche che hanno investito il mondo della medicina.
Personalmente, credo che il
modo di definire la fine della vita sia corretto scientificamente ma sostengo
soprattutto che se
qualcuno nutre dei dubbi li esponga nelle sedi appropriate, portando alla
conoscenza di tutti gli
argomenti scientifici a supporto di questa sua posizione. In caso contrario,
insinuare l´ipotesi che un
individuo che fino ad oggi viene definito morto, non lo è più, è un atto
irresponsabile che rischia di
mettere in pericolo la possibilità di salvare centinaia di migliaia di vite
grazie alla donazione degli
organi dopo la morte, un atto generoso e dettato unicamente dal senso di
solidarietà tra gli esseri
umani.
Ignazio Marino la Repubblica 3 settembre 2008
L´autore è chirurgo e senatore del Pd