Un anno, 4 mesi e 21 giorni: viaggio dalla morte all'Italia
IL REPORTAGE. Il racconto di Titti e Hadengai, due dei cinque sopravvissuti sul gommone maledetto
Italia? È una
stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1, primo piano dell'ospedale
"Cervello". Un tavolino con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli
altri due letti, dalla finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le
montagne di Altofonte Monreale, il caldo d'agosto a Palermo. Sui due muri, in
alto, la televisione e il crocifisso, una di fronte all'altro.
È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li
chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si
inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d'istinto,
come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata
bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po' di
vita a quel corpo divorato dalla mancanza d'acqua. La gente che ha saputo apre
la porta e la guarda: è l'unica donna sopravvissuta - con altri quattro giovani
uomini - sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78
disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha
scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque
fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di fame e di terrore.
Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto
inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri
padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I
magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati
per il nuovo reato d'immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi
la vergogna - una vergogna della democrazia - darà un calcio alla legge, e per
Titti e gli altri arriverà l'asilo politico. Scampati alla morte e alla
disumanità, potranno scoprire quell'Italia che cercavano, e incominciare a
vivere.
Un'Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da
quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e
una canzone. Titti ad Asmara aveva un'amica col telefonino, e ascoltavano venti
volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con "L'Aurora". In più, a casa
la madre conservava da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume
e il verde degli alberi. Tutti parlavano bene dell'Italia, le mail che
arrivavano in Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro.
Quando la bocciano a scuola, l'undicesimo anno, e scatta l'arruolamento
obbligatorio nell'esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no?
Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi,
quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo
per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d'acqua più la metà
dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o
meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal
Paese, in Sudan. Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano
cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni.
Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie,
vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound
sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini,
che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l'Italia
le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il
Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio
finale.
Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i
mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov'è più riparato dalla
sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi.
Lei ha due bottiglie d'acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di
mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano,
tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti
locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi,
disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati,
soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono
come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che
vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si
parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di
Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in
Europa deve dare l'indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano
soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva
al money transfer, da qualche parte sicura.
Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si
parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno messo
da parte il pane e nemmeno l'acqua dalle porzioni razionate, non sapevano:
possono avere qualcosa da portare in barca? Non c'è tempo, alle sei bisogna
essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia
che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune,
forza. La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci,
dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque donne. Non
riescono a trovare spazio, c'è qualche tanica di benzina sotto i piedi, stanno
appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi
tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le gambe. Ma ci
siamo, è l'ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte c'è l'Italia,
Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che arriveranno
presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita
solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle nero.
Nient'altro.
"Adei", madre, sto andando, pensa senza dormire. "Amlak", dio, mi hai aiutato,
continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando
le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota
improvvisato dice che non c'è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli
ha insegnato il trafficante d'uomini, ma non c'è nessun rumore. Adesso si sente
il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone,
danno consigli, uno scende in mare a guardare l'elica. Le donne si coprono la
testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano
che l'acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica
per volta, facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare
fino a sera, cinque, sei bocconi.
La notte fa più paura. Non c'è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il
gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare
niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti
a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle
luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una
nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.
All'inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con
una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in
mare. Poi man mano che cresce l'ansia e anche la disperazione, non ti vergogni
più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa
addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella
parte del gommone: "Giù, giù, vai in mare, vai". Ma il settimo giorno i problemi
cambiano.
Muore Haddish, che ha vent'anni, ed è il prino. Continua a vomitare da
ventiquattr'ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete.
"Mai", acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete "mai" nella testa, c'è
solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare
ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si danno il turno a sorreggere Haddish,
altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale
persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere,
poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. "E'
arrivato - dice all'alba Ghenè - noi siamo in viaggio e lui è arrivato". I due
giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le
scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna canta una nenia
sottovoce.
Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: "Quando ti
invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di
me, ascolta la mia preghiera". Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che
non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni
e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono
viaggiare con un cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. "Meut", la morte,
comincia a dominare tutti i pensieri, riempie "semai", il cielo, verrà dal mare,
"bahari". Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto
gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua
dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè,
Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma
qualcuno ce la farà.
Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi
cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i primi a morire
sono quelli che hanno bevuto l'acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale,
non l'ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra
continuamente. Poi Hadengai ha l'idea di prendere un bidone vuoto di benzina,
tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i
morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina,
per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono
permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve,
come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.
Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra piccolissima, ma
tutti la vedono, c'è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia
ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare,
l'unica protezione dal freddo, l'unico cuscino, la coperta, l'unico bene.
Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a
una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l'ultima speranza, torneranno a
salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c'è acqua e cibo.
Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po' nessuno li
ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.
L'acqua è un'ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i
frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca.
Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t'importa
più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che
mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce.
Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto
calare in mare, non sai più dove finisce l'incubo e comincia la realtà. Ma
adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche
se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei
mercanti d'uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno
male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno
litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è
mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo,
i morti hanno lasciato spazio ai vivi.
Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta
tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano
all'amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non
piange perché non ha più le forze, quando muore anche Luam due giorni dopo lei
si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con
la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma
qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all'Italia, non sa
dov'è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che dev'essere
così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo
della fame, della sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l'energia o
la lucidità per buttarti e lasciarti andare, affondare sott'acqua e sparire, ma
vuoi che sia finita. Persa l'Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo:
diventa un viaggio per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte,
forse, Titti si separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il
mare e la morte, "Adei, Amlak, semai, bahari, meut". Rivede suo padre
accovacciato, che fuma contro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il
tigrigno, non ha la parola aiuto.
Si accorge dalle urla, all'improvviso, che c'è una barca di pescatori e li ha
visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono
sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro.
Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma,
lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne
lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne
vanno, indicando col braccio una direzione.
Dentro c'è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha
bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non
passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica
dentro, è una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l'acqua l'anima
comincia a risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia,
basta che sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra,
davanti al sole. E' un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta
di uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno
far ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve
seguire.
Un giorno e una notte. Poi l'ultima barca. Questa volta li fanno salire. Sono
rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo, Titti la devono
portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato, c'è soltanto il
sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in faccia. Lì capisce di
essere viva. Non chiede con chi è, né dov'è. Che importanza può avere, ormai?
Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena
fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in
ospedale, dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi
sul soffitto e sul muro bianco e blu.
Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d'acqua. Attorno non
muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad
Asmara, le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due
ore fa un medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l'altro naufrago
ricoverato al "Cervello", Hadengai, in camera non c'è, l'hanno chiamato per una
radiografia e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma
nessuno sa dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle
labbra gonfie, con l'altra mano, dove c'è un anello giallo alto e sottile, tira
il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha paura che
sapendo della sua fuga all'Asmara facciano qualcosa di brutto a sua madre e alle
sue sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se
adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di
nascita. Quando non ci sperava più ce l'ha fatta, è arrivata. Non ha più niente
da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la
maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge
piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po' di tempo ad
arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle
scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli
dell'Avis, la macchinetta al pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e
funzionava da punto di riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è
seduto sul bordo del letto della paziente accanto, che sotto le coperte si è
fatta un po' più in là.
I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate
che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro
un maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un'idea di che cosa sia davvero
l'Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra
l'ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c'è scritto "la vita è un bene
prezioso".
Ezio Mauro La Repubblica 26 agosto 2009