Umberto Galimberti. Il filosofo e psicanalista: il delitto di
Roma, gli immigrati, gli sbarchi e la sensazione di «invasione»
«Non sappiamo più vivere il dolore. Per questo abbiamo paura»
Dolore, morte, paura, insicurezza. Quattro giorni fa a Roccella Jonica una barca
di clandestini si è spezzata, e sono morte almeno sei persone. Nello stesso
momento a Siracusa ci sono stati altri morti, immigrati, tra i quali un
ragazzino. Eppure ormai sembriamo abituati a una contabilità della morte a una
presa di coscienza della violenza che sembra ineluttabile. Dall’altro lato però
proprio l’altro ieri, la donna di Roma, rapita e violentata mentre tornava a
casa e morta dopo un giorno d’agonia, ha scosso l’intero paese. Anche in questo
caso c’è un aspetto che ha a che fare con immigrazione e diversità. Visto che
l’uomo arrestato per questo episodio, era un rumeno che abitava in una baracca
sul Tevere. Che conseguenze possono avere episodi come questi nel nostro modo di
guardare il mondo, e quanto incidono sulle nostre paure, e sulle inquietudini di
tutti i giorni? Abbiamo cercato di andare più a fondo all’argomento, parlandone
con Umberto Galimberti: psicoanalista, filosofo e saggista.
Due tragedie diverse. Qualche giorno fa i morti in mare dei clandestini che
cercavano di arrivare in Italia. L’altro ieri un episodio terribile a Roma...
«Partiamo dal primo episodio. Nessuno di noi vuole toccare con mano la propria
impotenza. E quando ciascun individuo ha la sensazione che qualunque posizione
assuma non è incidente rispetto al fenomeno, allora scatta un processo di
rimozione».
Facciamo un esempio.
«Se muore mio fratello piango. Se muore il mio vicino di casa faccio le
condoglianze. Se mi dicono che muoiono otto bambini al secondo al mondo, a
questo punto io non provo più niente: è solo una statistica. Il troppo grande ci
lascia indifferenti. E questo è un primo dato di natura psicologica. Nel senso
che la nostra psiche è in grado di reagire solo al nostro ambiente, e al mondo
circostante. Ma non è in grado di interiorizzare fenomeni mondiali».
Non abbiamo una psiche all’altezza degli eventi del mondo?
«Già. E siccome i mezzi di comunicazione ci portano in casa i drammi di tutto il
mondo la nostra psiche non reagisce più. Questo fatto è quasi meccanicistico. Se
un’inondazione uccide duemila persone non diventa un titolo in prima pagina come
invece lo diventa la notizia della donna che hanno violentato e ucciso a Roma.
La nostra psiche percepisce il vicino ma non il lontano».
E l’episodo di Roma è molto vicino a tutti noi.
«Qui si tratta di capire se la tragedia di questa donna ha scosso tutti quanti
perché è la moglie di un ammiraglio. Purtroppo episodi di questo genere accadono
in Italia tutti i santi giorni. Qualche tempo fa nel bresciano sono state
ammazzate due prostitute più o meno nella stessa maniera, ma siccome erano
prostitute, erano straniere, e avevano vent’anni. Alla periferia di Milano,
città dove abitano sono storie quasi quotidiane... ».
Ma in qualche modo troppo lontane da noi.
«È anche la posizione sociale che determina l’evento. Non è la pietas. Questi
fenomeni succedono tutti i giorni, oggi è in prima pagina perché nessuno si
sente più difeso. Che la prostituta venga ammazzata, beh è colpa sua perché
faceva la prostituta».
C’è un fenomeno di identificazione.
«Certo. Ciascuno di noi nel leggere le disgrazie fa un esame delle proprie
condotte. E se la nostra condotta è più prudente, allora la colpa è dell’altro.
E ci si sente tranquilli. Se invece poteva capitare anche a chi ha una condotta
normale, allora le cose cambiano. Passano da lontane a vicine. Entrano nel
nostro mondo e li sentiamo profondamente nostri».
Galimberti, vuole dire che le cose lontane non sono pericolose per quanto
orribili e drammatiche, ed è questa la cosa che conta?
«I tedeschi hanno due espressioni quando parlano del mondo. Welt, che vuol dire
mondo. E UnWelt che vuol dire mondo circostante. Il lontano è immenso. Quando le
tragedie sono troppo grandi noi abbiamo una sostanziale indifferenza».
Ma allora Hiroschima?
«Hiroschima è diventato un fenomeno culturale. Ma non credo che abbia commosso
individualmente qualcuno. Quando parlo dell’indifferenza psichica sto parlando
dell’indifferenza di ogni singolo individuo di fronte a fenomeni che sono al di
là della sua portata di intervento».
Però i mezzi di comunicazione, oggi, sono in grado di informarci in tempo reale
su tutto. Si dice che il mondo è diventato molto piccolo.
«Non è così. L’immigrazione ci mette di fronte a una contraddizione radicale.
Costituita dal fatto che il fenomeno è irreversibile; non possiamo pensare che
per mantenere il nostro benessere, quello di 800 milioni di occidentali, quattro
quinti dell’umanità debbano morire di fame e di sete. E quindi questi quattro
quinti verranno inevitabilmente qui».
Con quali conseguenze?
«Che ci troviamo di fronte a un processo che confligge con la necessità di
rivedere le nostre abitudini localistiche, di rivedere il nostro rapporto
fiduciario con i vicini: il paese, il quartiere... Ora questo rapporto
fiduciario viene incrinato da persone che sono tutt’altro rispetto a noi. E
scattano dei processi difensivi».
Ma come sarà inevitabile dover accettare le migrazioni - perché sono un fenomeno
epocale - non sarà inevitabile trovare una sorta di nuova empatia con il
diverso?
«I processi psichici sono lentissimi. Noi abbiamo avuto la mondializzazione
nell’arco di trent’anni, ma la nostra psiche non è all’altezza del fenomeno di
mondializzazione. I processi emotivi, i processi di interiorizzazione degli
eventi, è lentissimo. Anche la rivoluzione francese ha predicato la fraternità,
ma non è che nell’Ottocento siamo diventati più buoni».
E dunque?
«La mondializzazione richiede alla nostra psiche un salto di qualità, che ha a
che fare con il sentimento. E il sentimento non si può comandare. Noi siamo
deficitari di sentimento nell’epoca della mondializzazione».
E la pietà, la compassione?
«Si fa presto a dirlo. Ma noi dobbiamo fare i conti con la nostra psiche
limitata».
Non è plausibile che il mondo lontano da noi, in perenne guerra, dove la morte
non ha quasi valore, ci ha dato un’assuefazione alla tragedia?
«Certo, ma il problema più importante è un altro».
Quale?
«Bisogna cominciare a dire una cosa. A partire dalle scuole elementari è
necessario portare i bambini a una educazione emotiva. Cioè dobbiamo allargare
le nostre basi sentimentali».
Ma l’abbiamo persa nel tempo questa educazione emotiva o invece è sempre
mancata?
«Oggi c’è un analfabetismo emotivo totale. Ma un tempo esisteva. I nostri nonni
avevano a che fare molto più di noi con il dolore. La malattia veniva gestita in
casa, i figli vedevano morire i padri, talvolta i padri vedevano morire i figli,
c’erano le guerre, c’erano le pestilenze. Quindi c’era una capacità psichica
dovuta al fatto che si aveva un contatto continuo con il dolore, assai più ampio
del nostro di oggi».
E senza una educazione emotiva?
«Un disastro. Vede, lentamente la scuola, specie negli ultimi anni, ha
privilegiato la parte scientifica e tecnologica. Si sente continuamente dire che
si debbono portare i computer nella scuola, che bisogna far entrare i ragazzi
nel mondo del lavoro. Che bisogna insegnarli internet, e tutte queste belle
cose».
Negroponte vuole far produrre un computer da 200 dollari per i bambini africani.
«Appunto. Ma tutto questa ansia tecnologica è cresciuta a discapito della
cultura umanistica. E a cosa serve la cultura umanistica? Serve a all’educazione
emotiva. Perché i romanzi, la filosofia, la poesia aiuta a riconoscere e a
capire i sentimenti. Se io rendo marginale la cultura umanistica non capisco più
cos’è il dolore, non domino le paura, non capisco neppure cosa significhi
l’amore. E allora quando manca una competenza emotiva, nel collasso della parola
si passa direttamente al gesto. E il dolore dell’altro non lo capisco».
E tutto finisce in un misto ambivalente di indifferenza e intolleranza.
«Appunto. Ed è questo che dobbiamo a tutti i costi evitare».
Roberto Cotroneo l’Unità 2.11.07