Uguaglianza e
democrazia
Nell'incipit di un saggio una volta famoso, oggetto di una polemica
violentissima, Albert Camus
scriveva che "l'uomo in rivolta", nel "dire no", afferma l'esistenza di
una frontiera, di un limite
intollerabilmente superato, e dunque formula in modo bruciante un giudizio di
valore, che è insieme
per lui "tutto" e "niente", ma in nome del quale vale comunque la pena di
mettersi in gioco. E sono
proprio uomini e donne "in rivolta", nel senso letterale di Camus, quelli
che nei giorni scorsi sono
improvvisamente comparsi per le strade d'Europa: non solo black bloc,
rivoluzionari contro il
capitale - agitatori "no global" carichi di ideologia - ma anche persone
che dicevano semplicemente
"basta", "non si può andar oltre", e che sentivano, confusamente ma pure
in maniera assai forte, che
un confine era stato violato, e che ciò non si poteva accettare in silenzio.
Episodi limitati, per ora. Che abbiamo tuttavia l'obbligo di capire: senza
tragediare, ma anche senza
addolcire. Nella mente di chi protestava, la misura appariva colma fino
all'insopportabile per due
ragioni, molto serie, e anzi cruciali: una ragione che chiamerei di legittimità,
e un'altra che definirei
di eguaglianza. Entrambe arrivano a toccare i fondamenti stessi delle nostre
democrazie.
In questi mesi, in queste settimane, la crisi economica sta cominciando a
investire direttamente la
vita di grandi masse, da un capo all'altro del pianeta: identità, ruoli,
prospettive. Essa non è un
fenomeno "naturale" - anche se sono in molti ad affannarsi per farcela percepire
così. Non era
inevitabile. È un evento prodotto dalle scelte politiche, economiche e culturali
(sì, anche culturali)
del ventennio che ci ha preceduto. Chiama in causa responsabilità,
valutazioni, errori precisi, che
rimandano a individui e cerchie altrettanto determinati e individuabili, che
spesso hanno ricavato
vantaggi enormi dalle loro decisioni. Si pone dunque in modo evidente un
problema di
discontinuità, di rottura rispetto a questo passato. In altri termini, un
problema di rapporto fra masse
e (responsabilità delle) élite, fra governanti e governati. Se non si rende
evidente la novità, che si sta
voltando drasticamente pagina - nelle persone, nelle idee, nei comportamenti -
la legittimazione
popolare di chi detiene il potere ne esce compromessa, se non completamente
spezzata. Questo
innanzitutto esasperava le donne e gli uomini in rivolta, in questi giorni: la
mancata evidenza del
cambiamento. Credo del resto che Obama lo abbia capito benissimo - e che stia
cominciando a
esplorare le strade per la costruzione di un nuovo consenso. Ma le classi
dirigenti europee? E
l'Italia?
C'è poi un problema di eguaglianza: una parola che dobbiamo reimparare a
pronunciare. La crisi sta
creando, soprattutto nei Paesi più ricchi, una dismisura di diseguaglianze mai
prima sperimentata. E
non solo in termini di quantità (che pure non vanno certo trascurati). Ma
soprattutto di qualità, se
così si può dire, di proporzioni nei confronti di quei "nuovi esclusi" di cui ci
hanno appena parlato
Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari su questo giornale. D'improvviso, nel cuore delle
nostre società, si
stanno aprendo voragini di squilibrio che minacciano di inghiottire e di
disintegrare intere trame del
nostro tessuto comunitario, fasci interi di vincoli e di legami.
Democrazia e disuguaglianza sono
compatibili (e addirittura funzionali) solo se queste ultime non superano
livelli di guardia
prestabiliti. Oltre, c'è la comune rovina civile e democratica dei
soggetti coinvolti in entrambi i lati
dello squilibrio. Anche di questo gridavano le nostre inattese rivolte.
Aldo Schiavone la Repubblica 7 aprile 2009