TUTTO QUELLO CHE NESSUNO
VI HA MAI DETTO SULL'USO DELL'8 PER MILLE
La Trinità ha
quattro persone? Si può discutere. Gesù Cristo non è veramente risorto?
Parliamone. Però al vero clericale non toccare l'otto per mille: quello è
diventato ormai più sicuro di un dogma, più intangibile di un precetto del
catechismo. E non per gretta avidità di denaro: perché trattasi di uno dei
principali ingranaggi su cui si fonda il macchinoso castello della "Chiesa
padrona".
Del resto, discutere della divinità di Gesù Cristo - finché non sboccia in
aperta eresia - interessa al massimo una minoranza di colti, e comunque ammette
un sacco di sfumature magari lecite. Invece sollevare obiezioni «dall'interno»
su tattiche contingenti e discutibili come l'otto per mille (ma anche l'ora di
religione nella scuola, il finanziamento alle scuole cattoliche, il
riconoscimento civile delle coppie di fatto...), sia pur in linea teorica o
ipotetica, rischia di creare una crepa nella quale "i nemici" potrebbero
infilarsi per scardinare l'intero sistema (...).
Proprio il meccanismo dell'otto per mille, pur avendo dischiuso grandi risorse e
prospettive alla Chiesa, mostra un sacco di effetti collaterali di cui tra
credenti ed ecclesiastici non si parla mai. Cominciamo dalle prime. Anzitutto,
il denaro corrisposto dai contribuenti italiani (attraverso una firma sulla
dichiarazione dei redditi) alla Cei - oppure ad altre realtà confessionali
ammesse al sistema - non fa che riconoscere almeno in parte il servizio sociale,
educativo, assistenziale oltre che religioso svolto dalla Chiesa per i cittadini
italiani, non credenti inclusi.
Si tratta dunque di un sacrosanto e probabilmente sottostimato "stipendio" per
una categoria, il clero, che oltre ai suoi doveri di culto compie moltissimo
lavoro "pubblico" e civile; e che, anche quando adempie a un ministero puramente
spirituale, risponde alla domanda di gran parte della popolazione. Dunque ha
diritto a sentirsi garantito di un minimo vitale.
Però proprio questa "garanzia" dovrebbe fare un po' di problemi, ai cattolici e
ai preti stessi. Per esempio, per la mancata responsabilizzazione dei laici
cristiani sul mantenimento del "loro" clero: se in Italia vigesse il sistema
tedesco delle decime, o quello americano delle tasse sul culto, c'è da credere
che i nostri preti farebbero la fame e che la Penisola sarebbe abitata al 99% da
un popolo di agnostici "fiscali". Eppure, sarebbe più rispondente allo spirito
del Vangelo che i credenti stessi provvedessero fraternamente ai loro preti
(ammesso che questi ultimi si fidassero a mettersi nelle mani dei fedeli...).
Utopia? (...)
Troppo "garantismo" sulle risorse, inoltre, non favorisce lo sviluppo nemmeno di
chi usufruisce di tali fondi: è una legge della logica assistenziale. In altre
parole: che lavorino o no, che lo facciano molto o poco, i preti il piatto in
tavola sono sicuri di avercelo (a differenza di molte altre categorie di
persone) e anche qualcosina in più; perché dovrebbero affaticarsi a
guadagnarselo? Certo, si suppone che la loro coscienza sia più scrupolosa di
quella - per esempio - di un "normale" e vituperato dipendente statale: ma anche
loro sono uomini, no? Perché non potrebbero cadere in qualche caso in una
mentalità assistenziale?
Anche per la Chiesa nel suo complesso, il fatto di godere ogni anno di centinaia
di milioni più o meno "sicuri" non stimola certo la fiducia nella Provvidenza,
per non dire lo spirito di povertà francescana. Anzi, pone semmai problemi di
effettiva libertà nei confronti dello Stato o del suo governo, che potrebbero
anche esercitare un sottile ricatto politico (...).
L'otto per mille è assai comodo, solleva da un sacco di problemi e permette
persino di togliersi certi sfizi o di abbondare in qualche investimento; ma pone
pure qualche problema, e qualche domanda scomoda. Per esempio, basta navigare
nel bellissimo sito Internet dedicato al cosiddetto "Sovvenire" oppure guardare
in tv i periodici spot mandati in onda prima del periodo delle dichiarazioni dei
redditi per rendersi conto di quali e quante risorse professionali vi siano
state profuse. Giustamente, forse; ma uno spot simile – poniamo - su Gesù
Cristo, quando mai la Cei lo ha commissionato e fatto trasmettere?
C'è un'altra questione ben più capitale, tuttavia, ed è l'enorme potere
attribuito a chi gestisce i proventi dell'otto per mille e delle altre offerte
del "Sovvenire"; un potere che non deriva "dal basso", da una democratica
elezione, né deve rendere conto del suo operato (al di là dei bilanci generali)
a chi ha versato il suo contributo; un potere che pure ha importantissimi
risvolti ecclesiali e teologici. Quale vescovo per esempio - sapendo che poi
dovrà ricorrere alla Cei per il denaro che gli occorre a sistemare un seminario
o riparare la cattedrale o costruire qualche canonica - alzerà mai la mano in
assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza? In assenza di
separazione dei poteri, come tra Parlamento e magistratura per esempio, il
rischio è quello di far coincidere i controllori con i controllati: un regime
che - anche se (lo speriamo vivamente) di fatto non si verificano abusi né
irregolarità - alimenta il clericalismo, cioè nel caso specifico una gestione
discrezionale del denaro.
Certo, esistono alcune norme per favorire un'equanime distribuzione dei fondi.
Nel 2005, per esempio, la Chiesa cattolica ha ottenuto dal ministero delle
Finanze 984 milioni di euro, dei quali 315 sono andati al sostentamento dei
quasi 39 mila sacerdoti italiani, 155 per le esigenze del culto e della
pastorale e 85 a interventi caritativi (questi ultimi due fondi vengono
ripartiti per metà in parti uguali tra tutte le 226 diocesi italiane e per
l'altra metà sulla base del numero dei loro abitanti). E fin qui si tratta di
meccanismi di divisione automatici e dunque senza possibilità di sperequazioni.
Ma il resto, che poi corrisponde a quasi metà del totale, una somma comunque
enorme?
Una parte, per esempio quella relativa alla costruzione di nuove chiese o alla
tutela dei beni artistici e agli interventi a favore del terzo mondo, dipende
dai progetti presentati alla Cei - ed è bello pensare che non ci siano margini
discrezionali o favoritismi per le diocesi "amiche" -; un'altra finisce a
pioggia sopra vari enti cattolici, compresi alcuni magari benemeriti ma del
tutto sconosciuti se non agli addetti ai lavori - e anche qui è difficile
credere che i destinatari si sentano poi liberi, se fosse il caso, di presentare
obiezioni sull'opera-to di chi fornisce aiuti tanto preziosi -; un'altra ancora
confluisce in fondi come quello intitolato alla catechesi e all'educazione
cristiana, che sarebbe curioso sapere che cosa ne faccia dei ben 60 milioni di
euro erogatigli ogni anno.
Insomma, senza voler prospettare il peggio - e cioè fenomeni di corruzione o
cattiva gestione -, è inevitabile che cifre così rilevanti "riservate" (lo dice
il sito Internet ufficiale) "alla Presidenza della Cei" per "attività di rilievo
nazionale" creino nei confronti della stessa Cei e in specie della sua dirigenza
una fastidiosa posizione di sudditanza almeno psicologica e morale da parte dei
confratelli vescovi e della maggior parte delle istituzioni ecclesiali o
laicali.
Il denaro, soprattutto quando è molto, significa potere; anche nella Chiesa
(...). Proprio in quanto la Chiesa non è un sistema democratico, dotato dunque
di meccanismi di controllo ben precisi, dovrebbe mettersi al riparo da ogni
illazione di parzialità distinguendo l'indirizzo "politico" dalla gestione dei
fondi e garantendo che essi arrivino anche a un eventuale gruppo di dissenzienti
dalla linea della dirigenza.
Spesso la Chiesa ricorda di non essere una democrazia. Ma, se è per questo, non
è nemmeno una monarchia ("Essere Chiesa di comunione", ha scritto il giornalista
Giancarlo Zizola, "significa essere più di una democrazia, non meno") e comunque
dovrebbe aver presenti le anomalie che il suo regime comporta, e cercare di
ovviarvi (...).
La struttura cattolica, infatti, vede lo spirituale e il temporale talmente
sovrapposti che un cortocircuito è quasi inevitabile; l'abuso di potere spesso è
inavvertito persino da chi lo esercita, in quanto costui è convinto di compierlo
a fin di bene; la commistione dei livelli, la mancata distinzione degli ambiti
(in altri contesti si direbbe il conflitto d'interes-si) non vengono neppure
presi in considerazione. Così avviene che, come succede spessissimo negli
ambienti "laici", grazie all'attuale sistema, anche nella Chiesa, quanti reggono
i cordoni della borsa tengano sotto controllo ben più di ciò che effettivamente
gestiscono, ed esercitino un potere ricattatorio che non ha nemmeno bisogno di
essere espresso perché i soggetti lo percepiscano (...).
Basta fare una prova: si troveranno fior di case editrici cattoliche o riviste
espressione di ordini religiosi disposte a ospitare le più estrose e
dubitosamente ortodosse dottrine teologiche; e nessuno o quasi, nella gerarchia,
muoverà un dito. Ma guai a chi si arrischi a esprimere un semplice dubbio sul
meccanismo che garantisce il sostentamento del clero (e tanto altro assieme): lì
la burocrazia clericale agisce senza pietà. Questo stesso libro ha provato la
ventura di essere stato rifiutato, dopo una lettura dei primi capitoli, dalla
pur ottima e ben intenzionata casa editrice cattolica che ne aveva accolto
volentieri il progetto, e non perché il testo sostenesse a parere del
responsabile cose inaccettabili: solo perché la casa "non poteva permettersi" di
indisporre chi nelle alte gerarchie ha poi il potere di esercitare le sue
ritorsioni in tanti e pesanti modi, che magari riguardano la casa editrice
stessa, le sue strutture o la congregazione religiosa che ne è proprietaria.
L'otto per mille come ricatto morale, quindi. Già adesso è d'uso tappar la bocca
a chiunque nella Chiesa non sia d'accordo con la linea dominante,
rinfacciandogli il fatto che pure lui intasca i frutti della convenzione con lo
Stato. Non sei d'accordo? Rinuncia ai finanziamenti per la tua parrocchia, alla
congrua, allo stipendio da giornalista nel quotidiano cattolico... Altrimenti
taci e ringrazia la Provvidenza (e il concordato) che ti danno da mangiare! La
libertà dei figli di Dio scambiata con il biblico piatto di lenticchie...
In fondo, tutta la faccenda posa su un equivoco assai più vecchio dell'otto per
mille: quello che i soldi dei preti siano proprio dei .preti. Non è così,
invece, o almeno non sempre. Non tutte le proprietà ecclesiastiche sono
ascrivibili infatti al lavoro e al risparmio di sacerdoti e religiosi, i quali -
come noto - mettono in comune i frutti del loro impiego oppure reinvestono anche
gli averi personali nell'opera cui collaborano. Spesso i beni e le case derivano
da donazioni, lasciti, legati di benefattori vivi o defunti, che li danno alla
Chiesa sia per le sue necessità, sia per soccorrere i poveri. In questo caso,
benché gli intestatari siano formalmente parrocchie o istituti religiosi, è
evidente che il clero ne è solo amministratore e non proprietario (almeno
moralmente parlando e soprattutto poi se si considera la ricchezza nel contesto
più ampio del possesso secondo i precetti evangelici).
Quanto all'otto per mille, è vero che - si diceva sopra - esso è meritato anche
dalle fatiche e dall'impegno dei singoli sacerdoti. Però non si deve dimenticare
come derivi dalle tasse di tutti i cittadini, non cattolici compresi; dunque
esiste il dovere morale che quel cespite non solo non vada sprecato e
corrisponda al fine per cui è devoluto, ma che venga distribuito davvero a tutti
(persino a coloro che eventualmente hanno idee differenti da quelle dominanti
nelle strutture ecclesiastiche, e che comunque sono rappresentati nella base dei
contribuenti) e che non serva a perpetuare un meccanismo scarsamente
pluralistico e clericale, di per sé dannoso alla Chiesa (...). La Cei (e tanto
meno la sua dirigenza pro tempore) non può considerarsi "padrona" nemmeno
dell'otto per mille.
Roberto Beretta ADISTA documenti n.88 2006