Tutti i laici del mondo

intervista a Jean Baubérot a cura di Giancarlo Bosetti


Jean Baubérot, storico e sociologo delle religioni e della laicità, è presidente onorario della pariginaÉcole pratique des hautes études. Autorità nel campo, è molto disincantato nei confronti della  mitica «laicité à la française», sia quando invita a ridimensionare l'eccezionalismo laico di quel
paese, sia quando punzecchia la «laicità positiva» di Sarkozy, che assume le radici cristiane di
Francia e sostituisce, secondo lui semplicisticamente, la religione repubblicana con il modello
americano di religione civile. Il disincanto di Baubérot verso la laicità è al suo meglio nel sintetico
Le tante laicità del mondo, che esce ora in italiano per Luiss University Press (pagg 122, euro 12).
L'autore verrà a discutere le sue tesi domani, in via Parenzo 11, alle 18.30, con studenti e docenti
dell'università romana.

Parlare di laicità al plurale significa inevitabilmente relativizzare. Il suo libro spiega bene che
c'è una soglia minima di laicità, quella costituita da istituzioni politiche legittimate dalla
sovranità popolare e non più da elementi religiosi, ma così essa non è più un assoluto, né una
eccezione francese.
«In effetti la laicità è stata un po' sacralizzata in Francia. Il termine è stato inventato negli anni 1870
e la prima definizione fu di Ferdinand Buisson, filosofo, direttore dell'istruzione primaria all'epoca
in cui Jules Ferry ha laicizzato la scuola pubblica: affermò che la laicità consisteva nello Stato
indipendente da ogni culto e da ogni clero, allo scopo di realizzare la libertà di tutti i culti e
l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, indipendentemente dalla loro appartenenza
religiosa. Questa definizione può essere applicata a un certo numero di paesi; in Francia la laicità è
diventata il rifiuto di qualsiasi espressione della religione nella sfera pubblica».

Rifiuto che allora non era nelle origini della laicité?

«No, non era nell'intenzione dei suoi padri fondatori. Quella francese ne è una versione
nazionalista: la Francia è stata una grande potenza, mentre ora è una potenza media e questo spinge
i francesi alla eterna ricerca di una qualche loro specificità, di situazioni in cui sono i soli a pensare
come pensano, una ricerca di "eccezione". Ma la laicità come "eccezione francese" compare per la
prima volta nel 1989, dopo il primo scontro sull'uso del velo. Buisson diceva sì che la Francia stava
diventando il paese più laico d'Europa, ma anche che ce n'erano di più laici in altri continenti: il
Messico, gli Stati Uniti, che avevano già realizzato la separazione delle chiese dallo Stato, in
un'epoca in cui la Francia non l'aveva ancora attuata. Bene dunque relativizzare».

C'è una posizione liberale standard, formata nelle battaglie per i diritti degli individui e della
donna, che ha lasciato spesso immaginare che tutto ciò che viene dalla laicità è un bene, tutto
quello che viene dalla religione è un pericolo per la libertà.


«E' bene distinguere tra religione in quanto predominio e religione in quanto risorsa. La religione
come predominio, quella che cerca di far passare le proprie norme in tutta la società facendo
pressione sullo Stato, è la religione che la laicità ha combattuto, il clericalismo. La religione come
risorsa è cosa diversa; si tratta della scelta personale di credere o non credere, e sottolineo che la
scelta di credere è rispettabile quanto quella di non credere.
Nello specifico, sono contrario a questa
definizione negativa, "non credere", perché le persone che non sono religiose hanno credenze di
ordine filosofico e non sono prive di credenze sulle grandi questioni della vita, quelle che non
possono essere dimostrate scientificamente. Diciamo così: tra le persone che hanno credenze
diverse, alcune sono religiose, altre non lo sono. Quando queste credenze religiose si organizzano in
forma collettiva, per dare vita ad un culto, avviene un fatto normale, un fatto che contribuisce alla
ricchezza della diversità di questa società, purché non vi sia una volontà di predominio sulla società
stessa.
Alcuni hanno fatto un cortocircuito tra clericalismo e religione in quanto tale, ma non i padri
fondatori della laicità: Jules Ferry ha detto di essere anticlericale ma non antireligioso, né allora né
mai».


Oggi abbiamo situazioni nel mondo in cui la laicità ha bisogno di essere democratizzata.
Democratizzare il secolarismo, dicono per esempio i riformisti in Turchia, ma vale anche per
l'Egitto, per la Tunisia.


«Ecco una delle cause della difficile situazione nella quale ci troviamo oggi: nel mondo arabo-
musulmano le laicità sono state autoritarie e la gente non ha potuto capire che un regime di laicità
fosse un regime di libertà. E' necessario evitare che la laicità sia confusa con la repressione della
religione, compresa quella tradizionale, che ha il diritto di esistere: può avere autorità, ma non deve
avere potere».


Nel suo libro lei tratta anche il comunismo come forma di laicità autoritaria.

«Autoritaria e decisamente antireligiosa, perché lo Stato nel comunismo è diventato Stato filosofico,
sostenitore di una certa ideologia. Quindi, malgrado la contraddizione, si tratta quasi di una forma di
laicità teocratica: in fin dei conti, l'ateismo di Stato si avvicina a ciò che era lo Stato teocratico, lo
Stato confessionale; tra la Spagna franchista, dove il cattolicesimo era un dogma di Stato, e l'Unione
Sovietica, dove l'ateismo era a sua volta un dogma di Stato, le differenze non sono enormi.
Condividevano la stessa idea di imporre dogmi civili alla popolazione. E una laicità democratica
non può ovviamente che prendere le distanze da questi casi».


Per gli europei pensare alla laicità significa avere a che fare con l'enigma del rapporto tra
religione e politica negli Stati Uniti. Obama parla un linguaggio religioso, come Lincoln, come
Luther King.


«Gli Stati Uniti sono l'eccesso opposto: la politica ha strumentalizzato la religione. Georges W.
Bush, ad esempio, ha invaso l'Iraq invocando Dio, un Dio che sosteneva l'America nelle sue mire
guerresche. Colpisce molto che la maggioranza delle grandi chiese americane fosse contraria a
questa guerra, tanto che il Consiglio cristiano delle chiese cercò di avere un incontro con Bush, ma
lui rifiutò di riceverlo. Alcune chiese potevano condividere questa linea di guerra, ma certo non
tutte. Obama ritorna invece alla religione civile tradizionale americana, più culturale che politica».

Obama non avrebbe alcuna possibilità di vincere se non fosse capace di avvicinare la religione
e il progressismo; per questo parla di un progressismo religioso.

«Il limite della democrazia americana sta nel fatto che apparentemente una persona atea o
agnostica, purché non cerchi di imporre il proprio ateismo alla società, dovrebbe avere le stesse
possibilità di diventare presidente di una persona credente. Negli Stati Uniti questo non è
immaginabile. Ma questo genere di problematica è diffusamente presente anche nelle nostre
democrazie, benché non sia ovviamente ufficializzata. E' difficile immaginare che un musulmano
diventi oggi presidente di una repubblica europea».

Lei parla, nel libro, del fatto che nella Costituzione americana è previsto il giuramento
davanti a Dio, ma anche che è possibile esserne esentati a richiesta. Non ricordo di aver mai
visto in un film americano qualcuno che chieda l'esenzione.


«Dal punto di vista storico l'esenzione è stata rivendicata all'inizio della repubblica americana dai
quaccheri, addirittura prima della fondazione della repubblica. E' stato re Guglielmo III
d'Inghilterra, all'inizio del XVIII secolo a concederla. E questa possibilità è rimasta. Non so in che
misura sia ancora praticata. Anche nelle democrazie europee è molto difficile eliminare il
giuramento davanti a Dio».

Lei condivide la prospettiva post-secolare di Habermas, quella di un liberalismo capace di
dare spazio alla religione nella vita pubblica, perché, ad alcune condizioni, si ha bisogno della
religione come risorsa?


«Sì, a condizione che vi sia una chiara distinzione nella vita pubblica e nello spazio pubblico, tra i
due aspetti che sono differenti. Nella vita pubblica, nello spazio pubblico sociale, le religioni
debbono poter contribuire al dibattito della società. Viene poi il processo istituzionale, politico,
nella vita pubblica, e questo processo deve essere indipendente dalla religione. C'è lo spazio
pubblico della società civile, dell'approfondimento, e poi lo spazio pubblico istituzionale e politico,
dove deve prevalere la neutralità nei confronti della religione».

 

 

la Repubblica    5 novembre 2008