Tutti gli spot
portano a Dio
Si usano le profane tecniche dei media per non perdere fedeli: con quali
conseguenze per il
«messaggio»?
Che cosa ha mosso milioni di spettatori, soprattutto americani, a vedere la
Passione di Cristo di Mel
Gibson? La genialità d'un capolavoro del cinema? Il richiamo un po' macabro e
feticista delle
torture subite dall'uomo dei dolori? La pietà religiosa che si alimenta di segni
visibili di redenzione,
che ha bisogno di vedere incarnate le credenze di fede?
Nulla di tutto questo, ci dice Mara Einstein, nel suo libro Il business della
fede. Nelle sale
cinematografiche la gente l'ha portata il marketing, gli spot pubblicitari, la
promozione delle
vendite, un sapiente cocktail di ingredienti (una grande star, una storia
accattivante per un pubblico
da sempre attento ai valori religiosi, un tema che dà spazio alla polemica)
capace di calamitare sia
l'attenzione delle masse che gli interessi degli operatori del sacro. La
Passione di Gibson, dunque,
sarebbe il prototipo di una religione che si fa prodotto di commercio, per nulla
diversa da altre
merci vendute sul mercato.
Si tratta di una tesi che può essere choccante per quanti sono abituati a
pensare ad una sfera del
sacro nettamente separata da quella profana, ma che non coglie di sorpresa né
gli studiosi dei
fenomeni religiosi contemporanei né chi da tempo guarda con curiosità (o
apprensione) ad una
sempre maggior presenza della religione nei mass media e nella pubblicità. Da
alcuni decenni a
questa parte, proprio negli Usa, si è consolidata la teoria delle economie
religiose, attenta a come si
muovono le religioni nell'attuale supermarket delle fedi. In un clima di
forte pluralismo e
concorrenza le religioni possono essere spinte a meglio confezionare i loro
prodotti, mentre i fedeli
tendono a selezionare le offerte religiose più congruenti con i loro interessi.
Il libro di Mara Einstein
non raggiunge questi livelli di analisi, ma offre comunque uno spaccato della
posta in gioco.
Esperta di marketing prima di insegnare in alcune business schools americane,
l'autrice parte dagli
aspetti che più colpiscono l'opinione pubblica. Perché oggi molte religioni si
fanno pubblicità a
suon di megaschermi e spot televisivi? Come mai c'è un grande scambio tra
religione e mercato, per
cui i produttori laici usano le tonache e i pastori d'anime per vendere i beni
di consumo più vari,
mentre le religioni si servono delle tecniche più profane per far crescere il
loro pubblico?
Una spiegazione di questa commistione sta nella libertà di scelta che ha ormai
invaso anche il
campo religioso. Nel passato i marchi religiosi erano rappresentati dalle
diverse confessioni, dove
protestanti, ebrei, cattolici indicavano specifiche storie migratorie e
appartenenze sociali. Oggi
invece prevale la libertà individuale all'affiliazione religiosa, anche perché
la generazione del baby
boom non ha seguito anche in questo campo le orme dei padri.
Oltre a ciò, per molti americani le chiese non sono più la fonte primaria di
sostegno spirituale. Otto
americani su dieci credono in Dio, ma solo il 36% va regolarmente in chiesa o in
sinagoga. La
maggior parte della gente, dunque, si nutre al self-service religioso, coltiva
la propria fede attraverso
canali inusuali, come il cinema, i libri su temi spirituali, le chat room
religiose, i cd di musica rock
cristiana, i simboli della New Age. Wal-Mart, il gigante dei rivenditori al
dettaglio, guadagna più di
un miliardo di dollari all'anno in libri e musica cristiani, e considera questo
mercato di grande
sviluppo per il futuro.
Così la religione si sposta sempre più dai banchi di chiesa ai pixel, dai
pastori ai consulenti di
marketing. Ciò non significa però - a detta di Mara Einstein - che la sinagoghe,
le moschee, le
chiese debbano scomparire, che il computer e la tv sostituiranno il luogo di
culto locale. La gente è
ancora interessata agli eventi di una comunità reale, ma questi devono essere
accattivanti, in grado
di competere con l'esuberanza delle chiese on line, con i canali di musica
gospel, con i network
religiosi 24h su 24. Le chiese competono non soltanto con le altre chiese di
mattoni, ma soprattutto
con quelle elettroniche e virtuali, con le megachiese, con i tele-evangelisti;
tutte realtà più capaci di
rispondere alle domande dei consumatori e del mercato.
Di qui la conversione al marketing da parte delle religioni sia per attirare
nuovi fedeli, sia per
tenersi quelli vecchi. Si tratta di offrire un prodotto che valga lo sforzo, che
permetta alle chiese di
«emergere dal caos» e di farsi sentire oltre i rumori di un ambiente affollato.
Da questa affannata rincorsa mediatica non ne derivano delle religioni
annacquate? Che per trovare
un marchio ultramoderno rischiano di perdere quel linguaggio distintivo che le
ha rese salde nella
storia? I media e la pubblicità non fagocitano il messaggio? Il testo in
questione non affronta questi
temi, ma più si procede nella lettura più si vedono i rischi di una fede che si
confonde troppo col
mondo.
Franco Garelli La Stampa 20 settembre 2008
Mara Einstein
IL BUSINESS DELLA FEDE
Marketing e religione
trad. di L. Miccoli
ODOYA, pp. 317, € 18