Tutti clandestini
nelle «Meriche»
Non c’è lavoro, non c’è lavoro, non c'è lavoro… Lo ripete mille volte il grande
Eugenio Balzan
negli straordinari reportage del 1901, che nel Canada dipinto negli opuscoli
stampati per incantare i
contadini italiani ed europei come «una vera terra promessa» non c’era affatto
lavoro per tutti.
Bisognerebbe studiarli nelle scuole, quei vecchi articoli ingialliti
eppure ancora così lucidi e attuali,
e leggerli in tivù e diffonderli nelle adunate dei partiti xenofobi e in certe
osterie padane dove
vengono ripetute da anni, contando sulla credulità e l’impreparazione della
gente, le stesse
stupidaggini. E cioè che l’emigrazione dei nostri nonni era
«completamente diversa» da quella degli
immigrati di oggi in Italia, perché i nostri andavano «coi documenti in regola e
ligi a tantissime
regole» in paesi dove c’erano «tantissime offerte di lavoro» e «tantissimo
spazio » per tutti e dove
ci accoglievano a braccia aperte.
Falso. E lo dimostrano, oltre a molti altri documenti, proprio
le cronache di Balzan. Dove si trova
l’ennesima conferma che accanto all’emigrazione legale c’è sempre stata quella
illegale, ad esempio
di quanti decidevano in questo caso di entrare negli Stati Uniti evitando il
filtro di Ellis Island e
passando attraverso il Canada «anche senza passaporto». Che la promessa di
trovare sempre e
subito una occupazione era bugiarda al punto che non solo i nostri nonni si
sentivano dire ovunque
che «no, non c’è lavoro» e a migliaia «s’aggiravano in pieno inverno per le
strade di Montréal
stendendo le mani ai passanti» ma addirittura i giornali locali scrivevano che
la sorte dei nostri
poveretti ricordava loro quella dei canadesi che cinque anni prima, disperati,
erano emigrati a loro
volta a cercar fortuna in Brasile «dove molti di essi avevano trovato la morte».
Quanto allo spazio per tutti, scrive l’inviato del «Corriere», il Canada è
sicuramente immenso ma la
vita degli immigrati si concentra nelle città e «come alloggino, vi ho detto: in
dieci e più nella stessa
stanza, buttati a terra, uno sopra l’altro». Lo conferma un rapporto al governo
italiano, citato da
Balzan, del console a Montréal Gerolamo Internoscia: «Delle condizioni dei
nostri emigranti i
giornali fanno descrizioni ributtanti e non si può far nulla giacché non fanno
che mettere in luce la
pura verità». Calabresi e veneti, siciliani e friulani:
«ributtanti». Per non dire della favoletta
dell’accoglienza «a braccia aperte», a proposito della quale basta rileggere la
lettera al sindaco di
Thorold, un paese sull’Ontario in faccia a Toronto, dopo l’uccisione di una
guardia giurata in una
rapina il 17 dicembre 1922. Lettera firmata da «Capo Kleagle» del Ku Klux Klan e
pubblicata in
prima pagina dall’«Hamilton Spectator»: «Signor sindaco: se lo straniero che ha
sparato e ucciso il
nostro simile, l’ufficiale Trueman, non verrà catturato entro il prossimo 2
gennaio, i membri del
clan della croce infuocata prenderanno l’iniziativa contro la comunità italiana
di Thorold: 1800
uomini armati della Divisione Scarlatta stanno ripulendo segretamente questo
distretto e aspettano
l’ordine per sterminare questi topi». I bravi cittadini canadesi parlavano
a nome del loro «simile». I
nostri nonni erano «topi».
C’è chi dirà: ma erano altri tempi! Certo. Non c’è uomo che
sia uguale a un altro, ci mancherebbe
che fossero uguali le storie dei popoli. Ogni migrazione è diversa dalle altre
che l’hanno preceduta o
che la seguiranno. Ma una costante c’è: le persone si spostano inseguendo un
sogno, una speranza,
un obiettivo di vita verso paesi più promettenti, più ricchi, più sviluppati.
E spesso la distanza tra il
paese di partenza e quello di arrivo è infinitamente superiore economicamente,
tecnologicamente,
culturalmente, alla distanza chilometrica. Così è oggi ed esattamente così era
allora.
Eugenio Balzan, ad esempio, cita un depliant dove, per invogliare i poveracci
europei a vendere
tutto per raccogliere i soldi e partire per il Canada, si legge: «Gli
agricoltori canadesi vivono più
agiatamente che non i francesi e i belgi. Da essi non si ritrovano case coperte
di paglia e coi pavimenti di terra e col letame ammonticchiato davanti alla
porta».
È la stessa fotografia scattata venti anni prima dalla
commissione parlamentare sulla miseria del mondo contadino presieduta da
Stefano Jacini. Prendiamo il caso della provincia di Treviso, terra oggi
benestante se non ricca,
dimentica del passato di miseria e ostile agli immigrati «troppo sporchi».
Dice la relazione Jacini:
«Ogni sorta d’immondizie dal pattume delle case agli avanzi dei cibi, dallo
sterco degli animali a
quello dell’uomo è raccolta nelle vie e intorno alle case, e vi è quasi
rispettosamente conservata; in
qualche sito si giunge fino a spargere ad arte del fogliame oppure dei ricci di
castagne perché, parte
coll’aiuto dell’acqua piovana e parte con quello dei passanti, il materiale si
maceri, fermenti, e si
converta poi in letame».
Bene: in quello stesso 1882 in cui viene pubblicata l’inchiesta Jacini che
descrive quell’Italia in
parte ancora immersa nel medioevo, un altro giornalista del «Corriere», Dario
Papa, descrive
stupefatto il ponte di Brooklyn: «Il più meraviglioso ponte del mondo (...)
Unisce Brooklyn con
Nuova-York a un dipresso come quello di ferro che unisce Buda con Pesth: ma io
credo sia lungo
più del doppio e mi pare basterebbe per traversare due volte il Po nei punti
della sua maggiore
larghezza...».
C’era un abisso, tra il mondo dei nostri nonni e le Meriche. Un abisso. Ed
Eugenio Balzan, con la
freschezza dei 27 anni che aveva allora, ce lo spiega come meglio forse non si
poteva. A partire
proprio da tre dei punti che uniscono e affratellano tutti gli emigranti di ogni
tempo, paese e colore:
il sogno, l’imbroglio dei venditori di sogni e lo strazio del sogno tradito.
Gian Antonio Stella Corriere
della Sera 11 novembre 2009