Trame vaticane. Chi resiste a Benedetto XVI

 La sfrontata disobbedienza dei neocatecumenali. Le leggende nere sul conclave. Il boicottaggio delle traduzioni. Tre modi diversi di avversare il nuovo papa

 Le prime parole della prima lettera enciclica di Benedetto XVI, quasi un’insegna del suo pontificato, sono “Deus Caritas Est”, Dio è amore.  Ma ai gradi alti della Chiesa non tutti sono amorevoli e solidali, con questo papa. Le resistenze ai suoi indirizzi sono tenaci e diffuse, qua e là in crescendo. E si tengono quasi tutte al riparo dell’anonimato.

L’unica resistenza aperta, firmata, è quella che il Cammino Neocatecumenale ha opposto a una normativa papale dello scorso dicembre che ha colpito in pieno uno dei suoi capisaldi.

Il Cammino, fondato e diretto dagli spagnoli Kiko Argüello e Carmen Hernández, è oggi il più rigoglioso dei nuovi movimenti cattolici sbocciati nell’ultimo mezzo secolo. È presente in 900 diocesi di tutti i continenti ed è forte di un milione di seguaci raggruppati in più di 20.000 comunità, con 3.000 preti e 5.000 religiose. Ha una rete internazionale di 63 seminari “Redemptoris Mater” che fanno il pieno delle vocazioni, in controtendenza col vuoto di tanti seminari diocesani.  A contribuire alla sua espansione numerica è anche l’alto numero di figli che le sue famiglie mettono al mondo, fino a dieci, dodici o persino di più. Ogni anno molte dozzine di queste famiglie partono in missione per terre lontane. Lo scorso 12 gennaio ne sono partite d’un sol colpo da Roma 200, con la benedizione personale di Benedetto XVI sceso a incontrarle in un’aula Nervi gremita e vibrante d’entusiasmo: con meta la Patagonia o il Giappone, ma anche le zone più scristianizzate d’Europa, la Francia, l’Olanda, l’ex Germania dell’Est.

Con un simile patrimonio di successi, è naturale che i neocatecumenali raccolgano l’appoggio di vescovi e cardinali in gran numero. Due di questi patroni, il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto della congregazione vaticana “de Propaganda Fide”, e il cardinale Theodore McCarrick, arcivescovo di Washington, erano al loro fianco nell’aula Nervi il 12 gennaio. Sui neocatecumenali sono anche piovute negli anni delle critiche, specie contro il loro ritagliarsi uno spazio separato nella Chiesa, con un proprio catechismo segreto, con propri rituali, con una propria gerarchia parallela. Ma tali critiche sono sempre state soverchiate dal sostegno senza riserve loro concesso da Giovanni Paolo II.  Con Ratzinger papa, però, non è più così. C’è una cosa dei neocatecumenali che il nuovo papa non accetta, e che tocca il cuore della vita cristiana: è il modo atipico con cui essi celebrano la messa.

In effetti, la messa che ogni sabato sera ognuna delle 20.000 comunità del Cammino celebra, separatamente dalla parrocchia e dalle altre comunità sorelle, segue molto più i dettami del fondatore Kiko Argüello che non i canoni liturgici validi universalmente per la Chiesa cattolica. Invece dell’altare nell’abside c’è al centro dell’aula una grande tavola da pranzo quadrata, attorno a cui i neocatecumenali fanno la comunione seduti. Invece delle ostie, si dividono e mangiano un grosso pane azimo di farina di frumento, per due terzi bianca e per un terzo integrale, preparato e cotto per un quarto d’ora con le regole minuziose stabilite da Kiko. ll vino lo bevono da coppe, sempre stando seduti. L’omelia è surrogata dai commenti spontanei dei presenti, prima e dopo ciascuna delle letture del Vangelo, di San Paolo e dell’Antico Testamento.

Ebbene, a tutto questo Benedetto XVI ha ordinato di mettere fine. L’ha fatto con una lettera consegnata a metà dicembre ai tre responsabili supremi del Cammino, Kiko, Carmen e il sacerdote italiano Mario Pezzi. La lettera è firmata dal cardinale Francis Arinze, prefetto della congregazione vaticana per la liturgia, ma fin dalle prime righe dice chiaro che queste sono “le decisioni del Santo Padre”. Seguono sei comandi inequivocabili. Ad esempio, per quanto riguarda la comunione, le diposizioni della lettera sono testualmente queste:

“Sul modo di ricevere la Santa Comunione, si dà al Cammino Neocatecumenale un tempo di transizione (non più di due anni) per passare dal modo invalso nelle sue comunità di ricevere la Santa Comunione (seduti, uso di una mensa addobbata posta al centro della chiesa invece dell’altare dedicato in presbiterio) al modo normale per tutta la Chiesa di ricevere la Santa Comunione. Ciò significa che il Cammino Neocatecumenale deve camminare verso il modo previsto nei libri liturgici per la distribuzione del Corpo e del Sangue di Cristo”. Ma invece che obbedire e basta, i neocatecumenali hanno disobbedito asserendo d’essere obbedientissimi.  Quando il vaticanista Andrea Tornielli ha dato per primo la notizia dei richiami del papa, subito il portavoce ufficiale del Cammino e suo responsabile negli Stati Uniti, Giuseppe Gennarini, ha protestato che quegli ordini erano in realtà un’approvazione.  Quando il 27 dicembre www.chiesa ha pubblicato la lettera di Arinze integrale, lo stesso Gennarini ne ha messo in forse addirittura l’autenticità. Ha aggiunto che, se anche la lettera fosse autentica, “questo non cambia la sua natura di instrumentum laboris confidenziale ed interno”, privo di forza normativa. Ha ribadito che l’unica norma valida “è la conferma della prassi liturgica del Cammino da parte del Santo Padre”. E a riprova ha citato la benedizione che il papa avrebbe concesso di lì a pochi giorni alle famiglie neocatecumenali in partenza per le missioni, nell’udienza del 12 gennaio

L’udienza infatti c’è stata. E anche la benedizione. Ma c’è stato anche un secondo, sonoro richiamo di Benedetto XVI ad obbedire:  “Di recente la congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti vi ha impartito a mio nome alcune norme concernenti la celebrazione eucaristica, dopo il periodo di esperienza che aveva concesso il servo di Dio Giovanni Paolo II. Sono certo che queste norme, che riprendono quanto è previsto nei libri liturgici approvati dalla Chiesa, saranno da voi attentamente osservate”

Nessun commento è venuto dai dirigenti del Cammino, dopo questo secondo richiamo del papa. Risulta però che nelle 20.000 comunità sia passata la consegna di continuare come prima.

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Un seconda forma di resistenza a Benedetto XVI è quella che si manifesta nelle indiscrezioni sul conclave che l’ha eletto . Qui l’anonimato regna, anche per le gravi sanzioni canoniche che cadono sui cardinali che violano il segreto, fino alla scomunica. Ma le intenzioni sono palesi: mostrare che l’elezione di Ratzinger il 19 aprile non è stata per niente plebiscitaria, che è stata in forse fino all’ultimo, che è stata indebitamente favorita dal suo essere decano dei cardinali, che è ipotecata dall’Opus Dei, che i tempi sono maturi per un papa nuovo preferibilmente latinoamericano e che, insomma, a questi suoi limiti congeniti Benedetto XVI dovrebbe sottomettersi. Questo dicono, infatti, le due più diffuse ricostruzioni del conclave.

La prima in ordine di tempo – messa in pubblico dal “Corriere della Sera” e dallo storico Alberto Melloni – indica nel cardinale Carlo Maria Martini l’antagonista e insieme il deus ex machina dell’elezione di Ratzinger. Prima raccogliendo voti a lui alternativi e poi dandogli strada, Martini avrebbe ridimensionato “una soluzione di carattere politicistico ancor più temibile”: quella per la quale avrebbe manovrato, con Karol Wojtyla ancora vivente, un movimento “con adeguata liquidità” impegnato in “un’opa sul papato stesso”. Leggi l’Opus Dei.

La seconda ricostruzione – messa in circolo inizialmente da Tornielli su “il Giornale” e da Lucio Brunelli sul mensile di geopolitica “Limes”, poi ancora dal brasiliano Gerson Camarotti su “O Globo” e infine, pochi giorni fa, da Paul Elie negli Stati Uniti sul numero di gennaio-febbraio di “The Atlantic Monthly”  – si sovrappone alla precedente affiancando a Martini, come antagonista di facciata, il cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio. Su quest’ultimo sarebbero confluiti fino a 40 voti: non sufficienti a far desistere Ratzinger, ma abbastanza per dimezzarne il successo. Il quale porterebbe comunque il marchio infamante della campagna svolta a suo favore dall’Opus Dei.  Sia “Limes” che “O Globo” indicano in un singolo cardinale la fonte delle rispettive rivelazioni. In realtà queste promanano da un coro continuo a più voci, sia in curia che fuori, il cui unico comune denominatore è l’avversione a Ratzinger papa.  Quanto alle campagne del preconclave, sono materia da collezione. Ad esempio, il cardinale Sepe ha puntato scopertamente per anni sull’elezione a papa del cardinale Norberto Rivera Carrera, arcivescovo di Città del Messico.

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C’è poi in Vaticano una terza forma di resistenza, più sorda, a Benedetto XVI. Nei suoi primi mesi di pontificato, il papa s’è concentrato essenzialmente sulle celebrazioni liturgiche e sulla nuda parola: omelie, Angelus, catechesi, discorsi e adesso l’enciclica. Ma perché queste parole arrivino a tutto il mondo occorre almeno che siano tradotte e diffuse nelle lingue principali.  Ebbene, un discorso di importanza capitale come quello rivolto da Benedetto XVI alla curia romana il 22 dicembre, per due terzi dedicato all’interpretazione del Concilio Vaticano II e al rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, per otto giorni è stato disponibile nel sito web del Vaticano soltanto nella versione italiana. Accanto alla quale è poi comparsa la francese, e dopo altri giorni la spagnola, e poi l’inglese, e poi ancora la tedesca. Insomma, quasi un mese dopo l’evento, ancora manca l’ultima delle sei versioni in cui sono tradotti di norma i testi del papa, la portoghese . E la stessa cosa avviene per quasi tutti gli altri suoi testi. Eppure il Vaticano è lo stato più poliglotta del mondo, zeppo di traduttori, e sovrabbonda di enti assegnati alle comunicazioni sociali. Enti inutili, almeno in questo. Anzi, contrari.

Persino Benedetto XVI non ha resistito a manifestare in pubblico il suo disappunto per il cattivo funzionamento della macchina delle traduzioni. Mercoledì 18 gennaio, nell’annunciare ai fedeli che il successivo 25 gennaio avrebbe pubblicato la sua prima enciclica, si è fatto sfuggire un “finalmente”. E ha lamentato che “prima che il testo fosse pronto e tradotto è passato del tempo”. Oltre che la lentezza, risulta che non sia piaciuta a Benedetto XVI anche l’imprecisione di talune traduzioni dell’enciclica, che egli stesso ha dovuto far correggere.

 

Sandro Magister    -   Espresso on line