Trafficanti d’armi. L’unica crisi che non c’è
 

Le esportazioni italiane di fucili e pistole macinano record Business da 1 miliardo di euro in due anni, in aumento.


Crisi? Non per i fabbricanti italiani di armi. A loro non è mai andata bene come ora. Dal Rapporto 2010 dell’Archivio Disarmo che Il Fatto Quotidiano ha avuto in esclusiva emerge che le esportazioni di fucili e pistole macinano record. Quasi 1 miliardo di euro in un due anni, il 2007 e il 2008, gli ultimi per i quali sono disponibili i dati Istat (Istituto nazionale di statistica) utilizzati come base per la ricerca. L’incremento percentuale è impressionante: più 12 per cento rispetto al biennio precedente. Bisogna risalire a quasi un quindicennio fa per trovare exploit così vistosi. Nessun altro settore industriale è cresciuto così tanto, anzi, gli altri in genere faticano a tenere le posizioni acquisite e molti arretrano di brutto.

LE RIVOLTELLE. Le armi prese in considerazione dal rapporto sono quelle in gergo definite “leggere”, non dichiaratamente da guerra, tipo i mitra e i bazooka in uso alle forze armate dei vari paesi. Le armi leggere sono classificate come tali in base ad una legge di 35 anni fa e comprendono in prevalenza fucili di vario tipo e dimensione, rivoltelle, pistole, carabine. Tutti strumenti con cui non si scherza, estremamente efficaci e letali al pari delle armi ufficialmente considerate belliche, anche se in teoria destinati solo ai cacciatori o agli appassionati di tiro al bersaglio. Probabilmente una parte delle esportazioni italiane finisce davvero in mani amatoriali e da questo punto di vista il successo dell’industria armiera nazionale non è affatto negativo, anzi, è ricchezza prodotta, lavoro per migliaia di operai, quattrini che entrano nel nostro paese e fanno bene alla bilancia dei pagamenti.

GUERRE E CRIMINALI.
Ma non sempre le armi commercializzate sono usate così come viene dichiarato e il boom delle esportazioni di fucili e pistole è così vistoso da far emergere dubbi e aspetti inquietanti. Almeno tre. Primo: l’export italiano in qualche modo contribuisce ad amplificare l’uso abnorme e spesso sregolato delle armi per difesa personale nei paesi dove è consentito, in particolare gli Stati Uniti. Proprio gli Usa sono uno dei mercati forti delle esportazioni italiane (circa 30 per cento del totale) e proprio lì da tempo è avviato un dibattito acceso sia nell’opinione pubblica sia a livello parlamentare sull’opportunità di continuare a riempire le case di strumenti così micidiali. La scelta è demandata ai singoli e comunque è un diritto addirittura espressamente garantito dalla Costituzione.
Il secondo aspetto inquietante si basa su qualcosa che è più di un sospetto: è molto improbabile, infatti, che volumi così elevati di armi, anche quelli indirizzati verso paesi senza conflitti interni o guerriglie come gli Stati Uniti, il Canada o la Francia e la Germania, alla fine siano utilizzati sempre e solo dai cacciatori o per uso di difesa personale. Evidentemente c’è dell’altro. E questo “altro” può essere solo intuito perché non può risultare dalle statistiche ufficiali. Il sospetto è che quegli arsenali gira e rigira alimentino un commercio parallelo e clandestino e le armi letali ancorché classificate come leggere finiscano in mano a bande criminali e alla delinquenza organizzata. Il terzo aspetto è che una fetta di quelle esportazioni italiane è indirizzata verso paesi canaglia o comunque verso aree del pianeta dove imperversano guerre, guerriglie, tumulti e rivolte. E’ una quota modesta rispetto al totale, ma la dimensione non cancella il problema.

AFGHANISTAN. E’ assai probabile, per esempio, che le armi leggere italiane esportate in Afghanistan non siano utilizzate per la caccia ai fagiani. In quel paese e negli altri che gli somigliano, fucili, pistole, munizioni ed esplosivi tricolori servono per uccidere e alimentare le guerriglie, le macellerie tra bande paramilitari rivali e i focolai di guerra che si accendono a ripetizione. Il titolo della ricerca dell’istituto a suo tempo fondato dal senatore Luigi Anderlini, spiega bene il concetto: “Armi leggere, guerre pesanti”. L’esperienza conferma il sospetto. La mattanza nella ex Jugoslavia, per esempio, fu perpetrata anche con le armi leggere di provenienza italiana le cui esportazioni conobbero proprio in quel periodo un incremento simile a quello odierno.

L’ARCHIVIO DISARMO.
Secondo l’accurato studio dell’Archivio disarmo tra i paesi verso cui si dirigono i flussi di esportazioni di armi italiane ce ne sono diversi sottoposti ad embarghi internazionali proprio per le armi, come la Cina, il Libano, la Repubblica democratica del Congo, l’Iran, l’Uzbekistan, l’Armenia, l’Azerbaijan. E ce ne sono altri in cui sono in corso conflitti o si verificano gravi violazioni dei diritti umani denunciate non solo da organizzazioni non governative tipo Amnesty International o Human Rights Watch, ma dalle Nazioni unite e dall’Unione europea. Tra questi la Russia, Thailandia, Filippine, Pakistan, India, Colombia, Israele e Kenia. Da un punto di vista strettamente formale non è compito delle industrie e degli esportatori indagare sulla fine che faranno le armi prodotte ed esportate e come saranno utilizzate davvero. Ma certi tipi di commerci per loro natura sono particolari e alla fine impegnano gli Stati che li sostengono e che, infatti, li regolamentano con leggi specifiche.
In Italia l’esportazione di armi da guerra è regolata da una legge del 1990 considerata dagli stessi pacifisti una delle più avanzate al mondo.
Per quanto riguarda le armi leggere, invece, la norma è confusa, contraddittoria e ritenuta molto meno efficace e rigorosa dell’altra.

Daniele Martini      il Fatto 17.6.10