Traditore e gentiluomo

Ricordo che anni fa, quando incontrai un alto esponente della curia vaticana, l’eminentissimo mi
confidò con un sospiro quanto gli costasse dover firmare ogni giorno diplomi e onorificenze di
vario genere.
«Ma che ci posso fare? Le cose vanno così…». Il cardinale era evidentemente contrario a
quell’andazzo, ma il suo fatalismo rivelava che pure lui, nonostante la posizione di comando, non ci
si poteva opporre.
Avevo rimosso l’episodio, ma mi è tornato in mente quando sono uscite le notizie circa il
“gentiluomo” Balducci e i suoi traffici.

Sull’annuario pontificio si legge che quella di gentiluomo di sua santità è una dignità che viene
attribuita «a persone che si distinguono per prestigio personale e che hanno acquisito particolari
benemerenze verso la Santa sede». Non dubitiamo che tra loro ci siano autentici gentiluomini, ma la
formula è davvero troppo generica per non far nascere domande e perplessità. Come viene misurato
il prestigio personale, e quali sono queste benemerenze? Si intravede qui una zona grigia rispetto
alla quale è impossibile reprimere i sospetti.
Come avrebbe detto Totò, siamo uomini di mondo
perché abbiamo fatto il militare a Cuneo, e quindi sappiamo che un’istituzione come il Vaticano
vive anche di favori, conoscenze altolocate, amicizie che contano, lasciti, donazioni, e molto spesso
sono proprio queste le benemerenze che portano poi a ottenere titoli, medaglie e nastrini. Tuttavia
non riusciamo a reprimere una domanda: ma che c’entra tutto questo con il Vangelo? Benedetto
XVI, che in questo panorama sconfortante si staglia ogni giorno di più come l’unico punto di
riferimento credibile, già cinque anni fa, prima di diventare papa, aveva lanciato un famoso grido di
dolore denunciando la “sporcizia” che c’è all’interno della Chiesa. E in seguito non si è mai tirato
indietro quando si è trattato di denunciare i peccati e i reati commessi da uomini di Chiesa, come si è ben visto di recente nel caso dei preti irlandesi accusati di molestie e abusi.

È significativo che Ratzinger, nella lettera di indizione dell’anno sacerdotale, abbia citato quel passo esemplare della
Evangelii nuntiandi di Paolo VI, là dove Montini dice che «l’uomo contemporaneo ascolta più
volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni
». Il dovere
della testimonianza è sempre stato decisivo per la Chiesa, e lo è a maggior ragione nei tempi nostri,
che sono tempi di comunicazione. Benedetto XVI insiste sulla questione degli stili di vita, e lo fa
perché è consapevole che il messaggio evangelico passa prima di tutto attraverso di essi, molto più
di quanto non passi attraverso le prediche e i documenti.
Di fronte a casi che provocano sconcerto e suscitano scandalo, la Chiesa deve avere il coraggio di
operare con severità e trasparenza colpendo i responsabili e facendo davvero piazza pulita di
legami, compromessi e orpelli che rappresentano altrettante enormi e pesantissime pietre d’intralcio
sulla via della testimonianza evangelica.
Se la sporcizia c’è, com’è ormai assodato, ci sia anche la
ramazza in grado di fare pulizia.

Non è un problema di immagine. È un problema di conversione. Altrimenti chiunque avrà sempre di più il diritto di chiedersi, magari
in tono beffardo, da che pulpito viene la predica.
Benedetto XVI, che ha vissuto trent’anni della propria vita fra le mura vaticane e conosce la curia
meglio di chiunque altro, in un’intervista del 1985 confidò che stando a Roma aveva a poco a poco
imparato «l’arte del soprassedere», qualcosa di ben poco tedesco ma di molto utile, spiegò, perché
permette alle situazioni di decantarsi, alle polemiche di sopirsi, alle voci di placarsi. C’è in questo
atteggiamento una saggezza curiale che sicuramente avrà dato frutti lungo i secoli, ma che oggi va
messa decisamente da parte perché incompatibile con la società della comunicazione e con quel
bisogno di testimonianza di cui lo stesso pontefice si è fatto interprete con tanta efficacia.
In ballo non ci sono soltanto le malefatte di un “gentiluomo” e di un corista che evidentemente non
aveva il gregoriano come unico hobby. C’è la credibilità della Chiesa. Non è davvero poco. Si abbia
allora il coraggio di prendere spunto da queste tristi vicende per una riforma
che, usando sempre
un’espressione pregnante del cardinale Ratzinger, dovrebbe consistere in una ablatio, cioè un
togliere tutto ciò che offusca l’immagine di Cristo.
Togliere onorificenze poco chiare, togliere
legami poco trasparenti, togliere carrieristi ambiziosi, togliere servitori poco o per nulla fedeli.
È questa una riforma che dovrebbe essere perenne ma che in certi frangenti ha bisogno anche di
gesti e decisioni esemplari.


Aldo Maria Valli       Europa  5 marzo 2010