Tra stomaco e serbatoio

 

 

Il vertice della Fao che si è concluso ieri a Roma non ha dato alcuna risposta seria a quello che Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, ha chiamato il «silenzioso tsunami» dei prezzi alimentari. Ha risposto con l’afasia, l’indifferenza, la disunione, e una volontà, ferrea, d’impotenza. Al comunicato finale son allegate innumerevoli proteste, soprattutto sudamericane. Il vertice ha ignorato i dati che aveva a disposizione, ha finto di non conoscere le cifre che pure parlano chiaro: gli affamati che vertiginosamente aumentano, man mano che i prezzi di cibo e energia salgono; gli egoismi di lobby e Stati affluenti che dilatano una catastrofe tutta fabbricata dall’uomo; le promesse dei ricchi scordate. Basti rammentare il giuramento del vertice Fao nel 1996: «Dimezzeremo entro il 2015 il numero degli affamati», garantirono, e allora gli affamati erano 800 milioni. Già un anno e mezzo dopo erano 863 milioni e nel frattempo se ne sono aggiunti 100, sfiorando il miliardo. Non sono le organizzazioni internazionali a esser colpevoli di simili disastri, così come non lo sono del degradare del clima, della gestione dei conflitti militari, delle scandalose disparità di ricchezza nel mondo. Le organizzazioni come l’Onu, la Fao, la Banca Mondiale sono grottescamente trascinate sul banco degli imputati, sono ormai macchinalmente ribattezzate con i nomignoli più sprezzanti - son chiamate di volta in volta carrozzoni, elefanti burocratici che mangiano soldi e vanno gettati nella spazzatura - ma tutti questi son giochetti e menzogne, simili ai sotterfugi retorici cui si ricorre in Europa per denigrare gli amministratori di Bruxelles. Giochetti che gli Stati fanno per nascondere le proprie responsabilità; menzogne utili ad allontanare dai governanti, e dal cittadino, verità scomode e elettoralmente costose.

Possiamo pure abolire Fao, Onu, tutti gli organi del dopoguerra: non per questo avremo curato i mali, perché questi ultimi non son generati dalle istituzioni multilaterali ma dagli Stati e dalle loro sovranità assolute, riluttanti a accettare - sopra di sé - qualsivoglia autorità mondiale. Una volta abolite queste istituzioni dovremo ricrearle, perché di istituzioni e di governo mondiale c’è pur sempre e più che mai bisogno, e non di politiche che lusinghino e favoriscano il ciascuno per sé. Tra gli Stati responsabili degli odierni fallimenti ci sono innanzitutto i più ricchi e potenti. È qui il male, qui l’ignoranza militante che impedisce di riconoscere la natura del disastro e aggiustarla. Se oggi non pare possibile la Rivoluzione Verde che negli Anni 60 scongiurò la carestia nei Paesi poveri, è perché un’immobile apatia s’è insediata nei vertici degli Stati nazione, perché nazionalismi acuti sono di ritorno nei Paesi ricchi, perché la mente degli economisti e dei responsabili occidentali si è ossificata, incapace di adattarsi con elasticità al mutare del mondo e di chi lo abita. Il meccanico gioco di mercato non basta a risolvere la crisi e un collettivo intervento pubblico si impone? L’ideologia liberista frena, inorridita. Le politiche nazionali danneggiano la Terra, ostacolano il libero commercio di beni alimentari? Che muoia il mondo e tutti i filistei, purché le marionette regnanti possano accontentare i propri elettori, arrabbiati e resi ciechi dalle bugie che vengono loro raccontate dalle marionette in questione. Certo non esiste un’unica responsabilità per l’immane carovita: sono molte e convergenti le cause.

A differenza degli Anni 60 c’è il deterioramento del clima e il rarefarsi dell’acqua per le irrigazioni. C’è il prezzo di petrolio e gas che ha raggiunto livelli proibitivi. Ci sono interi e popolosi continenti - Cina, India - che escono dalla povertà, che stanno dando alla luce una vastissima classe media, che cominciano ad avere una dieta più variata, comprendente la carne. C’è l’enorme divario che si sta aprendo tra poveri che crescono pur sopportando prezzi alti e poveri che sopportano il carovita ma non hanno redditi in aumento. Siamo al  cospetto di due favole parallele, ha scritto Amartya Sen sul New York Times del 28 maggio: la prima narra l’asimmetria tra poveri e ricchi, la seconda fra poveri e poveri. La condotta più egoista è quella americana. Sono mesi che l’amministrazione insiste esclusivamente sulle responsabilità degli emergenti, e il segretario all’Agricoltura Ed Shafer l’ha ribadito non senza sfacciataggine a Roma: è la domanda cinese e indiana che fa aumentare i prezzi, allo stesso modo in cui sono Cina e India che accelerano, producendo anidride carbonica, la catastrofe climatica. Minimo è invece, secondo Shafer, l’effetto della produzione di biocarburanti intensificata da Bush nel 2005. Non meno colpevoli per Washington sono coloro che si oppongono - non solo in Europa ma in molti Paesi africani - agli organismi geneticamente modificabili (ogm): visti spesso come panacea, gli ogm rinviano mutazioni più ardue dei comportamenti e delle politiche occidentali. Il ruolo degli Stati Uniti e dei ricchi viene completamente negato, e le lobby difese a denti stretti.

Eppure gli esperti sono unanimi nel constatare come la scelta Usa di sovvenzionare massicciamente le coltivazioni di mais per estrarne energia alternativa (etanolo) abbia crudelmente ridotto le superfici coltivabili per produrre cibo per l’uomo: «Lo stomaco degli affamati è costretto a competere con i serbatoi di benzina», denuncia Sen, ed è chiaro chi perde nell’impari battaglia. Ma su questi punti il governo Usa è inamovibile: ha perfino l’appoggio del Brasile, anche se l’etanolo di quest’ultimo è estratto dalla canna da zucchero e penalizza meno le produzioni di cereali. Gli occidentali affluenti hanno la tendenza a puntare il dito su cinesi e indiani che consumano più carne: un’analisi non scorretta, ma che indispettisce profondamente Cina e India, che si sforzano di uscire dall’inferno dell’indigenza. Il loro infuriarsi è comprensibile: dicono che in due secoli di rivoluzione industriale l’Occidente ha rovinato il pianeta ed è diventato obeso a forza di rimpinzarsi, e adesso che è confrontato con penuria e carovita fa di tutto per non rimettere in causa proprie abitudini e scelte, quasi sognasse di ricacciare gli emergenti nella povertà. Il rancore è grande, verso Paesi che s’adoperano molto per correggere gli altri, e poco o nulla per correggere se stessi. Che denigrano le istituzioni internazionali solo per proteggere le proprie lobby, le sovranità intangibili dei propri Stati, le proprie ideologie liberiste.

Va di moda oggi vilipendere le utopie degli Anni 60, che erano speranze di futuro: ma quell’epoca era meno cieca, infinitamente più duttile. Di fronte all’Occidente s’accampava un pericolo vero, il comunismo, e tutti i pericoli veri sono anche una sfida, una straordinaria occasione: nel caso specifico, la sfida era di competere col comunismo nell’aiutare i poveri e i diseredati. Nessun pericolo odierno (terrorismo, Iran) è paragonabile a quella minaccia benefica, che teneva sveglia la coscienza occidentale e la mobilitava. Oggi quella sfida non esiste più: in parte è una disgrazia. Oggi non si tratta di strappare i poveri e gli ultimi alla seduzione sovietica ma di aiutare le singole persone umane a non morire di fame, semplicemente e subito. È questo che gli occidentali non sanno fare. È questo che li rende così afasici, volontariamente impotenti, e vuoti.

 

Barbara Spinelli          La Stampa   6 giugno 2008