Tra Stato e Chiesa.
Il peso di un aggettivo sull'idea di laicità
Il papato odierno propone la «sana laicità» come il criterio decisivo per
stabilire la corretta
definizione dei rapporti tra le chiese e lo stato. Il contenuto di questa
espressione è dato in prima
istanza da una differenziazione rispetto al laicismo: questo
implicherebbe una separazione ostile tra
l'autorità civile e le confessioni religiose, anziché quella distinzione tra i
due poteri che viene
ritenuta conforme alla dottrina cattolica, anzi direttamente ricondotta a una
radice evangelica.
Inoltre il ricorso a quel sintagma implica, nell'attuale discorso pontificio,
non solo l'accettazione di
una presenza del religioso, in particolare della chiesa cattolica, nella sfera
del dibattito politico in
vista del contributo che esso può dare all'edificazione della città democratica,
ma anche la richiesta
di un riconoscimento, sul piano costituzionale, delle radici cristiane della
civiltà occidentale e, in
virtù di tale riconoscimento, di un ruolo pubblico della chiesa.
Questa concezione di laicità trova talora consenso anche in settori del mondo
politico: senza voler
insistere sul rumoroso ossequio manifestato dalle correnti degli «atei
devoti», occorre osservare che
il richiamo alla «laicità positiva» del presidente francese Sarkozy
sostanzialmente coincide, come è
emerso nel recente viaggio in Francia di Benedetto XVI, con l'auspicio papale di
una «sana laicità».
Non mi sembra poi un caso che in questi giorni anche il presidente della Camera,
l'onorevole Fini,
abbia espresso, nel quadro delle celebrazioni della revisione del Concordato del
1984, la sua piena
adesione proprio a questa impostazione delle relazioni tra chiesa e stato. (...)
Si tratta dunque di una tematica che merita di essere approfondita. Tanto più
che né nel discorso
pontificio né del discorso politico sulla «sana laicità» viene con chiarezza
specificato cosa implichi
concretamente il riconoscimento di quel ruolo pubblico che, tramite essa, si
dovrebbe assicurare alla
chiesa. Per cercare di capire le effettive questioni che sono in gioco dietro
l'odierno uso di questa
espressione credo sia indispensabile muoversi in una prospettiva storica.
La locuzione «sana laicità» appare nel magistero pontificio
nel marzo 1958. Pio XII, in occasione di
un pellegrinaggio dei marchigiani residenti a Roma, affrontando alcune questioni
politiche di
attualità, sosteneva che una «sana e legittima laicità dello stato» costituisce
uno dei principii della
dottrina cattolica. (...) Non abbiamo carte archivistiche che ci aiutino, ma il
contesto ci fornisce
sufficienti indicazioni: esisteva nel mondo cattolico una contrapposizione tra
quanti, ad esempio il
cardinal Ottaviani, rifiutavano ogni riferimento alla laicità proponendo come
modello esemplare lo
stato cattolico che aveva trovato la sua realizzazione nel concordato della
Santa Sede con la Spagna
franchista; e quanti, come il filosofo Jacques Maritain, presentavano
nell'impegno dei cattolici a
basare la convivenza civile sui fondamentali diritti umani riconosciuti nella
Dichiarazione
universale del 1948 la via per giungere alla costruzione di uno stato laico, pur
cristianamente
costituito. Il tentativo di Ottaviani di far condannare nel 1956 dal Sant'Ufficio
le opere del pensatore
francese non era riuscito e il dibattito era continuato sia pure in maniera ora
più sotterranea ora più
esplicita.
Cosa cambia con il Concilio
In questo contesto l'intervento di Pacelli sembra assumere un preciso
significato: il papa intendeva
proporre una mediazione tra la linee divergenti presenti nella cultura
cattolica. Prendeva infatti le
distanze da coloro che volevano far scomparire il termine laicità dal lessico
cattolico - in quanto
ritenevano ogni forma di indipendenza politica dalla chiesa, soprattutto se
rivendicata da credenti,
come un attentato laicista allo stato cattolico - per renderla invece una
«ipotesi» praticabile almeno
in determinate circostanze. Tuttavia l'apposizione degli aggettivi «sana» e
«legittima» al sostantivo
specificava in maniera assai limitativa la maniera in cui la laicità veniva così
accettata. Rinviando
alla sfera della morale, delle cui regole la gerarchia si proclamava suprema
detentrice, tali aggettivi
in effetti indicavano che la laicità era lecita nella misura in cui si riservava
all'autorità ecclesiastica
la «competenza delle competenze», vale a dire il diritto di determinare i
confini del suo potere
d'intervento nella direzione della vita pubblica. Ne emergeva una
visione della laicità che assicurava
la permanenza di una parola a lungo osteggiata nel vocabolario della cultura
cattolica - in tal modo,
ad esempio, si legittimava il sostegno dell'episcopato francese nel referendum
del 1958 alla
costituzione che proclamava la Repubblica «indivisibile e laica »; ma al
contempo svuotava in
realtà il sostantivo del suo concreto contenuto politico, finendo per convergere
con le concezioni di
Ottaviani.
Si trattava comunque di una linea che non sembrava incontrare grande successo
nell'episcopato
italiano: la lettera pastorale collettiva sul laicismo emanata dalla Cei nel
1960 - assai apprezzata
anche da Giovanni XXIII, come mostrano le sue agende private da poco pubblicate
- mostrava che
nella gerarchia del nostro paese continuava a prevalere quella sostanziale
identificazione tra laicità e
laicismo che gli ambienti cattolici francesi avevano cominciato a distinguere:
nella penisola la
costruzione di forme di vita associata indipendenti dalle direttive
ecclesiastiche veniva qualificata
come una aggressione laicista alla chiesa dettata dalla volontà di cancellare il
cristianesimo dalla
sfera pubblica. Ma, con l'avvento di Roncalli, si apriva l'innovativa stagione
conciliare, sicché si
può porre la domanda se il Vaticano II modificava o meno questa linea.
La questione della laicità non emerge direttamente in nessuno dei suoi
documenti, ma non va
nemmeno dimenticato che la dichiarazione Dignitatis humanae ha mutato uno
degli elementi che
ostacolavano una valutazione positiva dello stato laico: il riconoscimento
della libertà religiosa
come uno dei diritti inerenti alla natura dell'uomo e la conseguente
proclamazione del dovere
dell'autorità civile di garantire il pubblico esercizio del culto ha posto
evidentemente fine alla
concezione che vedeva nella parificazione delle confessioni la «peste del
laicismo» secondo
l'espressione usata da Pio XI nel 1925 per caratterizzare l'uguaglianza dei
diritti tra le diverse
confessioni religiose presenti in uno stato. La dichiarazione conciliare
ribadisce l'obbligo per ogni
uomo di ricercare la verità, ma abbandona la tesi del magistero precedente
secondo cui solo la verità
può godere dei diritti civili e politici. Non a caso proprio John Courtney
Murray - il gesuita
americano che negli anni Cinquanta era stato ridotto al silenzio dal Sant'Ufficio
guidato dal cardinal
Ottaviani per la sua affermazione della piena coerenza tra dottrina cattolica e
diritto alla libertà
religiosa - è stato tra i principali periti cui si deve la redazione del
documento.
Tuttavia questo risultato significa che il concilio determinava un superamento
dell'insegnamento
proposto nell'ultima fase del magistero pacelliano? Ci si può insomma
chiedere se, a seguito del
riconoscimento del diritto alla libertà religiosa proclamato dal Vaticano II, la
laicità non appare più
un'ipotesi, accettabile solo nei casi cui il papato la giudica lecita. Credo
che una pur rapida analisi
del rapporto tra chiesa e stato esposto nella costituzione pastorale Gaudium
et spes sulla chiesa nella
società contemporanea possa aiutarci a trovare una risposta.
Una presa di distanza
Il documento preparatorio, redatto sotto l'influenza di Ottaviani, riprendeva la
concezione
tradizionale secondo cui lo stato, avendo fini temporali subordinati a quelli
spirituali, doveva
svolgere una funzione ministeriale nei confronti della chiesa: vi si ribadiva la
visione dello stato
cattolico secondo quel modello che il cardinale aveva esaltato nel concordato
stipulato con la
Spagna franchista. La discussione nell'aula conciliare modificò profondamente
questa prospettiva.
La redazione finale della costituzione proclamava che la comunità politica e la
chiesa sono
indipendenti e autonomi, in quanto la loro natura è profondamente diversa: la
chiesa - popolo scelto
da Dio e riunito dalla sua Parola - è infatti una realtà comunionale e mistica
che non entra in
concorrenza con gli stati che perseguono finalità temporali. Si auspicava però
tra di essi una «sana
collaborazione»: per realizzarla la chiesa non chiedeva privilegi - anzi si
dichiarava disposta a
rinunciare a quelli pur legittimamente acquisiti nel passato se rendevano poco
credibile la sua
testimonianza -e domandava soltanto la libertà di poter esercitare la propria
missione. Tuttavia
rivendicava anche un diritto, quello di «dare il suo giudizio morale, anche su
cose che riguardano
l'ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della
persona e dalla salvezza delle
anime. E questo si farà, utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi
al Vangelo e al bene di
tutti».
Se era dunque evidente il rifiuto della tesi dello stato cattolico - che
giungeva al punto di mostrare la
disponibilità a rinunciare anche ai privilegi legittimamente ottenuti tramite la
prassi concordataria -
non meno netta risultava la presa di distanza da quel paradigma di laicità
che si richiamava al
modello separatista. In primo luogo infatti si auspicava una
collaborazione tra stato e chiesa, in vista
del raggiungimento del bene comune del consorzio umano. Inoltre si stabilivano
le ragioni che
legittimavano un intervento ecclesiastico nella sfera politica: esso poteva
avvenire, oltre che per la
tradizionale esigenza di assicurare la salvezza ultraterrena, anche in nome di
una nuova istanza di
natura temporale e politica: la salvaguardia dei diritti fondamentali della
persona. (...)
Le leggi «naturali»
Se dunque dal dettato della Gaudium et spes si ricavava un abbandono
della prospettiva dello stato
confessionale - e non si può non sottolineare il mutamento notevole così
compiuto rispetto alle
concezioni presenti in curia all'inizio dei lavori dell'assise ecumenica -,
bisogna anche aggiungere
che il documento conciliare non cancellava la prospettiva di un intervento sul
piano politico della
gerarchia, mostrando la distanza tra la concezione cattolica e quella visione
della laicità che si
incentrava sull'autonomia del politico dal religioso e del religioso dal
politico. È però vero che la
costituzione sulla chiesa nel mondo contemporaneo ricordava soltanto che
la chiesa manifestava in
materia un «giudizio» che, per di più, doveva essere espresso servendosi di
mezzi poveri, come
lasciava intendere il richiamo alla loro conformità con il Vangelo.
Quale era dunque il significato di
questa formulazione? Si trattava di una valutazione indirizzata a illuminare le
coscienze che poi
liberamente la traducevano in un concreto e determinato impegno sul piano
storico-politico oppure
di una direttiva volta a dettare o almeno ispirare le norme regolatrici della
comunità? Evidentemente
solo nel primo caso si avrebbe un sostanziale rispetto della nozione di laicità
così come è stata
elaborata dalla cultura occidentale nel corso del Novecento.
Ora gli orientamenti generali fissati nella Gaudium et spes non credo
lascino molti dubbi in
proposito. In effetti tutte le volte che il testo affronta la questione
dell'autonomia del temporale o
della libertà dell'uomo, pur affermando che si tratta di valori leciti, cui
spesso in passato la chiesa
non aveva riservato la debita attenzione, specifica pur sempre tali valori con
l'apposizione di un
aggettivo - «legittima», «giusta», «ordinata» - che ne circoscrivono la portata,
rinviando alla
necessità di una valutazione morale sulla loro pratica. In tal modo la
chiesa rivendica il possesso di
una verità morale in ordine alla società cui le strutture e le istituzioni della
collettività devono
conformarsi. Del resto il Vaticano II fornisce anche le ragioni di
questa concezione. In diversi passi
si trova infatti l'asserzione che la convivenza civile si basa sulle leggi
naturali di cui la chiesa si
proclama depositaria ed interprete in quanto esse sono determinate dall'ordine
voluto da Dio per
l'universo.
Mi pare dunque che, in ragione di questa ottica, l'intervento
ecclesiastico sulla politica assuma
inevitabilmente la forma della prescrizione vincolante quando la chiesa ritenga
che sia in gioco una
di quelle norme fondamentali che, corrispondendo alla natura dell'uomo, non
possono essere violate
dall'ordinamento giuridico della vita collettiva. Ritornava la
prospettiva pacelliana di apporre un
aggettivo a un termine per riservare all'autorità ecclesiastica la facoltà di
specificarne il significato
politico. A palesare in termini espliciti la continuità di questa impostazione
sulla questione della
laicità sarebbe stato Paolo VI. Nel corso dell'udienza tenuta il 22 maggio 1968
(la data non è priva
di significato, se si tiene presente quanto quel maggio ha rappresentato
nell'immaginario collettivo
dell'epoca) dapprima il papa si richiamava con una diretta citazione al discorso
pronunciato da
Pacelli nel marzo 1958 sulla sana e legittima laicità e poi affermava che la
chiesa era ormai giunta a
distinguere «fra laicità, cioè fra la sfera propria delle realtà temporali, che
si reggono con propri
principi e con relativa autonomia derivante dalle esigenze intrinseche di tali
realtà... e il laicismo
(cioè) l'esclusione dell'ordinamento umano dai riferimenti morali e globalmente
umani che
postulano rapporti imprescrittibili con la religione».
Ma, proseguiva il papa, la laicità si rivelava sana nella misura in cui
l'ordinamento civile recepiva
dalla chiesa «il duplice lume dei principi e dei fini che devono orientare e
sorreggere la vita umana
in quanto tale». E il laicato cattolico era tenuto a seguire queste
direttive in modo da far
«risplendere l'ordine ... voluto da Dio anche nella sfera realtà temporali». In
tal modo, pur
legittimando la distinzione tra laicità e laicismo che tanti ostacoli aveva
incontrato nella cultura
cattolica del secondo dopoguerra, Montini ribadiva che l'accettazione
cattolica della laicità passava
attraverso l'apposizione di un aggettivo che riservava all'autorità
ecclesiastica la concreta
determinazione dei suoi contenuti.
Daniele Menozzi il manifesto 27 febbraio 2009