Tra mafia e religione un intreccio devoto


«Gesù io confido in te». Così recitavano, scolpiti sull’effigie di Cristo in croce, i 73 santini - tutti
uguali - trovati addosso al padrino Bernardo Provenzano, insieme con la copiosa produzione di
«pizzini», quando fu catturato a Montagna dei Cavalli. Già, «pizzini» e religione: un tema - quello
della «simbologia ossessiva» e del richiamo a Dio - che molto ha fatto discutere. La magistratura ha
addirittura affidato ad un sacerdote «specializzato» l’analisi della produzione epistolare di
Provenzano, comparata con l’utilizzazione - in chiave di comunicazione - che il mafioso faceva
delle Bibbie trovate nel suo nascondiglio.
Per Alessandra Dino (autrice di La mafia devota, Laterza editore, 304 pagg. euro 16), l’enigma
Provenzano è solo una tappa di approfondimento di un fenomeno antico e ben più vasto e radicato
nel tempo. La «mafia devota» è dunque il traguardo di un cammino che scandaglia la contiguità di
mondi che nulla dovrebbero avere in comune e che, invece, sembrano esser andati avanti come due
parallele che più d’una volta si sono incontrate: Chiesa, religione e Cosa nostra. Altri, specialmente
giornalisti, avevano scritto sull’innaturale intreccio, ma l’approccio della cronaca si era fermato alla
superficie. Il rigore della ricerca sistemica della Dino sfugge alla suggestione del facile «scandalo»
per addentrarsi nel groviglio storico-culturale, anche attraverso la ricostruzione dei «cosiddetti
repertori di azione, spesso attinti dal patrimonio di una memoria sociale condivisa, dentro cui si
struttura il rapporto tra Chiesa e universo mafioso: i riti, le cerimonie sacre, le forme di
iniziazione».
Ed ecco frate Giacinto ucciso come un boss nella sua «cella» di francescano, nel silenzio assordante
dei confratelli, atterriti più dalla personalità della vittima che dalla crudeltà dei killer. E la borgata
che sa ma nulla dice, esattamente come le gerarchie ecclesiastiche. Un intreccio che passa attraverso
il collante delle Confraternite, dei funerali, dei matrimoni e dei riti collettivi, come le processioni
promosse dai boss e concesse da sacerdoti «protetti» spesso dalla giustificatoria ricerca della
pecorella smarrita, per dirla con le parole di un altro monaco, don Mario Frittitta, che celebrava
messa nel nascondiglio di un grande latitante.
Un viaggio che sta anche dentro i binari della comunicazione clandestina di Bernardo Provenzano,
attento a veicolare il messaggio di un capo che giudica e può anche condannare, ma «nel nome del
Signore». «Dio vi benedica», «con l’aiuto di Dio», «con il volere di Dio»: così il boss si rivolge sia
ai propri familiari che agli affiliati. Un Dio - scrive Dino - «riprodotto a propria immagine e
somiglianza, inscritto in un universo religioso totalizzante».

  Francesco La Licata       La Stampa    20 maggio 2008