Il testamento
biologico e l'ondata neoguelfa
Era il dicembre 1967 quando il chirurgo Christian Barnard si trovò di fronte una
giovane donna
vittima di un grave incidente, nel quale aveva riportato un grave trauma
encefalico. Non era morta,
ma Christian Barnard, decise di certificarne la «morte imminente». Solo così
poté procedere
all'espianto del cuore ancora battente per trapiantarlo in un paziente
cardiopatico ricoverato nello
stesso ospedale. Aveva inizio una nuova epoca per la medicina, l'epoca dei
trapianti. Solo l'anno
successivo, nell'agosto del 1968, un rapporto della Harvard Medical School
definirà il coma
irreversibile come nuovo criterio di certificazione della morte. È la
definizione di morte ormai
dovunque accettata.
Era il 1978 quando vide la luce, in Inghilterra, Louise Brown il primo essere
umano concepito,
anziché in utero, in provetta. Oggi ha più di trent'anni e un figlio, Cameron,
di diciotto mesi. Non
sappiamo quanti sono oggi nel mondo i "bambini della provetta", certamente molte
decine e decine
di migliaia. E, dopo i "bambini della provetta" sono stati messi a punto, con la
fecondazione
assistita, altri sistemi e metodi, fino allora inconcepibili, di gravidanza e
maternità.
Fino al 1968 insomma si veniva dichiarati morti solo quando il cuore cessava di
battere. Fino al
1978 i bambini venivano concepiti, nel matrimonio (o fuori del matrimonio) solo
in virtù di un
rapporto sessuale tra un uomo e una donna.
Sono passati, da allora solo quarant'anni, pochi nella vita di una persona,
quasi nulla nella storia
dell'umanità. Ma le due date possono essere ricordate come l'inizio di una
storia nuova per
l'umanità, una storia di cui ci è difficile immaginare oggi tutti i possibili
sviluppi. La nascita e la
morte, per dirla con un recente intervento di Aldo Schiavone, «stanno svanendo
come eventi
"naturali" e si stanno trasformando in eventi "artificiali", dominati dalla
cultura e dalla tecnica». E,
come tali, ci propongono nuovi problemi e interrogativi, scientifici e morali.
C'è chi saluta questo intervento della scienze e della tecnica come uno
straordinario progresso, un
annuncio di benessere e persino di felicità, c'è chi di fronte a questa
pervasività della scienza e della
tecnica si ritrae spaventato o inorridito. C'è chi ancora oggi è contrario alla
pratica degli espianti,
che infatti deve essere esplicitamente prevista dal paziente o autorizzata dai
parenti. C'è la donna
che, per avere un figlio è disposta a sottoporsi ad una serie di procedimenti e
pratiche mediche
spesso dolorose e sempre invasive, e quella che preferisce rinunciare ad una
maternità biologica e
scegliere, invece, la strada dell'adozione.
Di tutto questo, delle possibilità che ci vengono offerte dalla medicina e
dalla ricerca scientifica
ancora in corso, non solo si può, ma si deve poter discutere. E si discute
infatti, in tutti i paesi prima di giungere a soluzioni legislative. È bene
discuterne anche nel nostro paese senza preconcetti e chiusure. Senza arroganze
né faziosità. Ma, soprattutto, senza timidezze o subalternità nei confronti
delle gerarchie, quasi si ritenesse la Chiesa Cattolica l'unica o la più
autorevole depositaria di quei
principi etici di cui tutti riconosciamo l'importanza e la necessità ma che non
tutti decliniamo nello
stesso modo.
Basti ricordare a questo proposito il caso di Eluana Englaro, che ci propone in
maniera drammatica,
un quesito, quello della disponibilità della vita, anche della propria, sul
quale la Chiesa appare
assolutamente intransigente, ma che è già stato risolto in modo diverso non solo
nella coscienza del
padre della fanciulla (e nella opinione della maggioranza degli italiani, stando
ai più recenti
sondaggi), ma anche da una serie di sentenze dei tribunali italiani. Com'è
possibile che la
esecuzione di queste sentenze venga impedita dalla opinione di un pur autorevole
vescovo?
La questione della disponibilità della propria vita è delicata e controversa. La
Chiesa cattolica vi si
oppone fermamente. Ma il tema viene affrontato in modo diverso da autorevoli
pensatori cattolici,
come Vittorio Possenti, che recentemente sosteneva che «sul piano razionale il
criterio di una
indisponibilità della propria vita non è fondato». Ieri su queste pagine Luca e
Francesco Cavalli
Sforza hanno proposto di sottoporre a referendum popolare l'ipotesi del
cosiddetto "testamento
biologico", il diritto di ognuno di noi di decidere se e fino a quando essere
tenuto in vita
artificialmente.
Il caso di Eluana Englaro ha aperto drammaticamente il dibattito su questo tema:
se ognuno di noi
può decidere quali cure accettare e quali rifiutare. La questione in realtà
dovrebbe considerarsi già
risolta in virtù dell'art. 32 della nostra Costituzione che afferma che nessuno
può essere obbligato a
un qualsivoglia trattamento sanitario. La nostra vita ci appartiene, dunque,
siamo noi che ne
disponiamo. Il rifiuto delle cure, secondo la nostra Costituzione, è legittimo
anche quando dovesse
comportare la morte del soggetto. L'ultimo caso si è verificato, come tutti
ricordiamo, solo qualche
giorno fa, quando una paziente gravemente ustionata e ricoverata in ospedale ha
rifiutato
l'amputazione di una gamba, pur sapendo che questo rifiuto ne avrebbe provocato
la morte. I
medici, dopo averla interpellata e informata delle conseguenze della sua
decisione, si sono limitati a
rispettarne la volontà, liberamente e ripetutamente espressa.
Si tratta certamente di una materia delicata, che sarà presto presa in esame dal
Senato, dove già
sono state presentate in tema di testamento biologico o disposizioni di fine
vita, numerose proposte
di legge. A differenza di Schiavone però, io non ho percepito finora
nessun vero, serio, segnale di
disponibilità in questa materia da parte delle gerarchie. E mi chiedo anche
perché nel nostro paese, e
solo nel nostro paese, l'attività del legislatore debba essere condizionata in
ultima istanza dal
giudizio del Vaticano.
Si parla meno, ma anche questa materia andrebbe meglio approfondita, della zona
grigia che attiene
al diritto della donna al controllo della sessualità e della maternità. Anche
qui c'è un costante, tenace
intervento delle gerarchie. C'è stato nel corso del dibattito sulla legge 40
sulla fecondazione
assistita. Ma molte norme di quella legge, in particolare quella che obbliga
all'impianto in utero di
tutti gli embrioni prodotti e quella che vieta l'esame preimpianto sono state
giudicate illegittime da
molti nostri Tribunali su ricorso di coppie affette da malattie trasmissibili.
Queste sentenze tuttavia
non sono state sufficienti per consigliare una revisione di quelle norme di
legge. E che non poche
coppie affette da gravi malattie trasmissibili, preferiscono "emigrare" in altri
paesi europei e lì
procedere alla fecondazione assistita. (Paradossi della nostra storia: una
volta, prima del 1978 si
emigrava per poter abortire, oggi si emigra per avere un figlio esente da gravi
malattie). E ancora: è
di questi giorni la feroce opposizione del sottosegretario Eugenia Roccella alla
introduzione in Italia
della pillola RU486, che consente il cosiddetto "aborto farmacologico".
Anche qui, in materia di
aborto e maternità, la scienza propone e la Chiesa si oppone. Ed anche in questa
materia non
registro finora, a differenza di Aldo Schiavone, nessuna nuova disponibilità
della Chiesa. Ma vedo
invece avanzare, anche per le incertezze e le debolezze della cultura laica, una
pericolosa "ondata
neoguelfa".
Miriam Mafai la Repubblica
3 gennaio 2009