Il terrore e la crisi
Con la scusa della paura: distratti
da Al Qaeda derubati da Wall Street
Suicidio economico. Mettere in ginocchio l’economia Usa e quella mondiale è
stata la follia della guerra al terrorismo
Terrorismo ed economia: ecco i temi più dibattuti degli ultimi anni.
E se tra loro esistesse una relazione che va ben oltre le prime pagine dei
giornali? Se la guerra contro il terrorismo, inaugurata da George W. Bush
all’indomani dell’11 settembre, avesse in qualche modo contribuito alla crisi
del credito? Si tratta d’interrogativi sconcertanti, che recentemente
molti si pongono.
L’amministrazione Bush riceve da Bill Clinton un piccolo surplus e Barack Obama
- che sale al potere nel mezzo della peggiore recessione del dopoguerra -
eredita un debito pubblico di 10mila miliardi di dollari, pari al 70 per cento
del Prodotto interno lordo americano, o meglio, al 18 per cento dell’economia
mondiale. Dove sono finiti tutti quei soldi? Due guerre ancora in
corso e un sistema di sicurezza ambiziosissimo, quanto inconsistente,
prosciugano le finanze dello Stato e proiettano l’America tra i paesi con il
debito pubblico più alto al mondo.
Tutto questo non sarebbe successo fino a vent’anni fa, quando i conflitti si
pagavano con l’erario pubblico anziché con la politica dei bassi tassi
d’interesse. Come dimenticare la storica decisione di Lyndon Johnson, negli anni
Sessanta, di aumentare la pressione fiscale per far fronte agli alti costi della
guerra nel Vietnam? Manovra necessaria e al tempo stesso profondamente
impopolare. A nessuno, infatti, piace finanziare di tasca propria la macchina
militare, anche se l’obiettivo è distruggere un super terrorista come Osama bin
Laden o sbarazzarsi dell’arcidittatore Saddam Hussein. A chi si domanda
perché queste guerre in Iraq e in Afghanistan, che sembrano interminabili, non
abbiano suscitato un movimento d’opposizione simile a quello che pose fine a
quella del Vietnam, si può rispondere che finché la spesa militare non tocca
direttamente il nostro portafoglio o intacca la nostra libertà, costringendoci
ad andare al fronte, i conflitti armati restano virtuali, vissuti esclusivamente
attraverso il filtro dei media.
La
paura del terrorismo. Neppure gli attentati terroristici a Madrid e a
Londra, ambedue legati al conflitto iracheno, ci hanno fatto sentire quest’ultimo
abbastanza vicino da coinvolgerci. Persino la minaccia del terrorismo, dunque,
ci tocca solo di striscio, quando le immagini di sangue e morte fanno capolino
sui nostri teleschermi o quando i politici le usano per spaventarci.
Dopo l’attentato di novembre 2008 a Mumbai, il ministro degli Esteri italiano
dichiara che il vero pericolo non è l’economia ma il terrorismo. Giornali e
telegiornali italiani rincarano la dose ricordando che sette connazionali sono
intrappolati negli alberghi occupati dai terroristi. E l’Italia è presa
nella morsa della paura del fondamentalismo islamico al punto da scambiare due
mitomani marocchini per super terroristi. Il motivo è altrettanto
ridicolo: inculcavano nei figli di due anni il culto di Osama bin Laden e
sognavano di far esplodere con ordigni inesistenti un supermercato di periferia.
La paura del terrorista è uno strumento molto efficace per distrarre
l’attenzione del cittadino occidentale dal caos economico degli ultimi vent’anni
e dalla crisi che sta facendo sprofondare il capitalismo in una nuova Grande
depressione. Tristemente, il legame tra eversione ed economia non è circoscritto
a questa manipolazione: la guerra contro il terrorismo dei neoconservatori
americani ha infatti contribuito alla crisi del credito. Come? Per rispondere
rivisitiamone le fasi più salienti.
Il crollo del Muro di Berlino inaugura la politica del credito facile e a buon
mercato. Alan Greenspan, a capo della Federal Reserve (Fed), ne è l’artefice.
La deflazione agevola il processo di globalizzazione, o meglio, la
colonizzazione del mondo da parte della finanza occidentale. Lo Stato retrocede
dall’arena economica e lascia al mercato finanziario il compito di gestire il
grosso dell’economia. E Alan Greenspan diventa più potente del
presidente Clinton. È lui che tiene le fila dell’economia mondiale, la cui
crescita sembra inarrestabile. Ogni qualvolta le crisi economiche bussano alla
porta del villaggio globale - da quella del rublo fino alla minirecessione
americana del 2000 - Greenspan taglia i tassi. Si tratta di una strategia folle
perché, lungi dal risolvere i problemi strutturali della globalizzazione,
posticipa lo scoppio della crisi aumentandone la portata. (...)
Gli anni Novanta e gran parte degli anni 2000 sono caratterizzati
dall’abbondanza perché vissuti all’insegna del credito facile e a buon mercato;
consumi, investimenti, tutto cresce e nessuno ha voglia di criticare uno Stato
che ha creato tutta questa cuccagna. L’euforia nasconde però una realtà ben
diversa: uno dei cardini del contratto sociale - secondo cui lo Stato deve
rispondere ai cittadini di come gestisce il loro denaro - si sta incrinando.
Due
guerre e molti debiti. Dopo il 2001 la politica dei tassi d’interesse bassi
fa comodo al governo americano che nel giro di due anni si trova invischiato in
due guerre che l’amministrazione aveva anticipato sarebbero state lampo e quindi
a basso costo. In realtà, questi conflitti pesano gravemente sulla spesa
pubblica.
L’indebitamento sul mercato finanziario attraverso la vendita dei buoni del
tesoro permette di evitare l’impopolare manovra fiscale del presidente Johnson,
e cioè aumentare le tasse agli americani. Ma la raccolta del denaro non è
facile, lo Stato deve competere con il settore privato, ecco perché
l’amministrazione Bush fa preme sulla Federal Reserve per mantenere oltremisura
la politica dei tassi d’interesse bassi. Questa infatti rende i buoni del tesoro
americani più competitivi rispetto a quelli dell’industria privata. Cina e
Giappone diventano i maggiori sottoscrittori del debito pubblico statunitense.
(...)
La politica deflazionista di Greenspan, dunque, finanzia prima il benessere
illusorio della globalizzazione e poi la guerra contro il terrorismo. Ecco
spiegata l’origine della crisi del credito. Ma se Greenspan crea la bolla
durante gli anni Novanta, il finanziamento di due guerre dopo l’11 settembre
prima la gonfia e poi la fa esplodere. L’abbattimento dei tassi, subito dopo la
tragedia, innesca il perverso meccanismo dei mutui subprime e inflaziona i
prezzi del mercato immobiliare in America e nel resto del mondo; dà vita,
insomma, alla spirale dell’indebitamento delle banche. Le statistiche mostrano
che dal 2001 al 2007 i prezzi degli immobili registrano, un po’ dovunque, una
crescita eccezionale.
Chi paga questa follia. Naturalmente, a fare le spese di questa follia economica è la popolazione americana che per quindici anni è tenuta all’oscuro delle crisi del mercato globale e per altri sette ignora che Pechino e Tokyo finanziano le guerre “ideologiche” dei neoconservatori, mentre Washington accumula un debito pubblico da Paese in via di sviluppo. E sono ancora i cittadini americani che si sobbarcano tutto il debito delle banche: sebbene incrinato, il contratto sociale è ancora in piedi, e chi risponde degli errori dei politici è la popolazione. Così quando la bolla esplode, nel settembre 2008, e quando la recessione è alle porte all’inizio del 2009, per salvare le banche e mantenere in piedi due guerre, Washington usa i soldi dei contribuenti, quei pochi nell’erario pubblico e quelli ancora da raccogliere, pignora insomma la ricchezza delle future generazioni. Anche il contribuente del villaggio globale paga questi errori. Gli Stati Uniti sono la locomotiva economica del mondo, così la conflagrazione a Wall Street trascina l’intero pianeta nella crisi economica.
Loretta Napoleoni l’Unità 22.4.09
Esperta di terrorismo internazionale