Sumatra, la
tragedia è dell'"altro"...
I morti sono 1100 ma, come ha spiegato un telegrafico Franco Frattini, «Nessuna
vittima è italiana».
Traduzione: siamo molto dispiaciuti per quei disgraziati, ma la tragedia
di Sumatra non ci riguarda
in prima persona. Certo, parteciperemo anche noi al doveroso telethon
planetario, faremo anche noi
la nostra parte, ma nei tempi e nei modi che si addicono agli eventi minori.
Qualche pacchetto di viveri, qualche kit di pronto soccorso, qualche bandierina
della solidarietà da
piantare qua e là. Con estrema calma però: il primo torpedone di aiuti forse
partirà martedì,
spiegano dalla flemmatica Unità di crisi della Farnesina. Praticamente una
settimana dopo il
terremoto. Poco importa che il governo indonesiano abbia lanciato un disperato
appello alla
Comunità internazionale affinché "faccia presto". Per le persone intrappolate
tra le macerie, per
quelle rimaste senza un tetto sotto cui dormire, prive di cibo, di acqua e
corrente elettrica, un'ora in
più o un'ora in meno può essere una questione di vita o di morte. Per noi è
giusto un giro di lancette
tra una riunione ministeriale e l'altra.
Eppure nel dicembre 2004, quando le coste di Thailandia,
Indonesia e Sri Lanka vennero devastate
dallo tsunami, le cose andarono molto diversamente. E l'Italia scese in campo
con l'obbiettivo di fare
un figurone. L'allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini bruciò tutti sul
tempo, francesi, tedeschi,
inglesi, anche gli americani. La macchina degli aiuti, la giostra della
generosità italica, si attivò più
veloce della luce, facendo mangiare la polvere ai nostri alleati occidentali.
Vennero raccolti 160
milioni di euro per il solo 2005 tra fondi pubblici e collette private;
complessivamente l'Occidente
mise a disposizione dei popoli flagellati dallo tsunami miliardi e miliardi di
dollari. Una cifra
colossale confrontata ai miseri tre milioni di euro (sic) che oggi l'Europa
offre ai terremotati di
Sumatra. D'altra parte, quella di cinque anni fa (oltre 300mila vittime) è stata
la catastrofe naturale più
grave della storia contemporanea come hanno ampiamente documentato i media
globali. Ma
soprattutto in quell'occasione persero la vita centinaia di turisti occidentali,
tra cui quaranta italiani.
La differenza sta tutta lì.
Non a caso i Paesi più solerti nel prestare aiuto a Giakarta
sono quelli che vedono coinvolti dei loro
cittadini come Australia e Giappone. Il vicepresidente indonesiano, Jusuf Kalla,
ha spiegato ieri che
per fronteggiare l'emergenza immediata e avviare la ricostruzione «serviranno
almeno tre miliardi di
dollari» . Nessuno gli ha ancora spiegato che stavolta gli indonesiani dovranno
accontentarsi delle
briciole, che i governi del "primo mondo" avranno il cosiddetto braccino e che
gran parte del lavoro
sarà svolto dai volontari delle solite Ong. Al massimo ci sarà qualche prestito
della Banca mondiale,
tanto per ricordare chi ha le chiavi della cassaforte.
Sumatra è una tragedia "dell'altro" nel senso più crudele del termine.
Sia detto fuor di retorica: le
morti non sono tutte uguali, ci sono morti "nostre" e morti "altre". Ogni morte,
o meglio, ogni vita è
disposta nella nostra scala di valori secondo una gerarchia precisa. Familiare,
comunitaria,
nazionale, ideologica. Non si tratta di cattiva coscienza, è un riflesso
condizionato. Lo stesso che porta
a nascondere a fondo pagina una strage della Nato in Afghanistan, una pulizia
etnica in Africa o
un'alluvione in Sudamerica. Già ieri pomeriggio la catastrofe di Sumatra era
stata derubricata a
notizia minore nelle edizioni on-line dei grandi quotidiani: al nono posto dal
Corriere.it,
all'undicesimo da Repubblica.it. Mentre l'Ansa ci spiegava che il solo effetto
collaterale a cui siamo
esposti riguarda il mercato dei pneumatici. La "Standard Indonesian Rubber 20"
la gomma naturale
più utilizzata al mondo, viene infatti coltivata a Padang, l'epicentro del
sisma: «Ma l'industria
europea, non dovrebbe risentirne poiché non si approvvigiona a Sumatra». Meno
male...
Attilio Rey in “l'Altro” del 3
ottobre 2009