Sui binari del razzismo

"Segnalare eventuali passeggeri di etnia giudea che salgano sui treni delle Ferrovie dello Stato;
riportare i dati anagrafici dei suddetti giudei nell’apposito formulario; trasmettere alle autorità
competenti la segnalazione per i provvedimenti del caso..
.». Se ci capitasse tra le mani una circolare
di questo tono, sappiamo cosa accadrebbe: notisti, editorialisti, intellettuali, parlamentari di questa o
quella parte, direttori, professori, sacerdoti, sindacati, papi, vescovi, ambasciatori... tutti giustamente
indignati per quel refuso di burocrazia razzista che refuso non sarebbe affatto
: scriverebbero che in
quel riferimento alla razza e ai giudei c’è lo specchio di un paese malato, ci sono i suoi umori
profondi, l’instancabile ricerca di un diverso, di uno straniero su cui scaricare tossine e fatiche. In
Europa ci direbbero, senza troppi fronzoli, che siamo diventati un paese di merda, razzista e
omofobo, umile con i forti e miserabile con tutti gli altri.
Avrebbero ragione? Certo che avrebbero
ragione.

Com’è allora che nessuno s’è indignato quando due giorni fa è saltata fuori la notizia di questa
schedatura?
Identica, parola per parola, al virgolettato che vi ho offerto all’inizio di questa pagina.
Con un unico irrilevante dettaglio: la parola “Rom” al posto di quella “giudeo”. È accaduto su uno
dei treni regionali che da Roma battono lentamente le campagne e i Castelli: un modulo che invita i
controllori a segnalare e, naturalmente, a schedare i passeggeri di etnia Rom. Sfugge la ragione di
questa richiesta: per farli arrestare? Per invitare gli altri passeggeri a tenere la mano sul portafogli?
Per cambiare vagone? Qual è il motivo per cui un controllore dovrebbe chiedere a un viaggiatore in
regola con il suo biglietto se è o meno un Rom? Quale pensiero storto sta dietro quella richiesta? In
quale paese vivono i dirigenti delle ferrovie che si sono inventati questo surrogato della stella gialla
da attaccare alle giacche dei rom italiani? E che razza (sì, razza) di gente siamo diventati noi italiani
che ci strapperemmo i capelli se quel gesto di grossolana villanìa fosse stato esercitato contro gli
ebrei, ma non alziamo nemmeno gli occhi dal giornale quando scopriamo che non di ebrei ma di
zingari si tratta?

Come ci hanno spiegato i nazisti settant’anni fa, il problema non sono gli ebrei, i neri o gli zingari
ma il concetto alto e patriottico di razza.
In quel patetico formulario distribuito dalle ferrovie
italiane ciò che offende è proprio questo: la parola razza, la pretesa che un cittadino, un viaggiatore,
un uomo possa essere identificato (e poi, forse, discriminato) per il sangue che si porta dentro, per il
profilo del naso, la linea degli zigomi, il taglio degli occhi, il colore dei capelli… In questo siamo
cambiati. Abbiamo accettato, senza protestare, l’idea che esistano molte razze, e che dentro questa
parola oscena ci siano ragioni oggettive di diversità: diversi i destini, diversi i diritti, diversa la
dignità. Più o meno quello che accadeva mezzo secolo fa con i siciliani e i calabresi che
s’imbarcavano su un vapore.

Mio figlio ha sei anni, lo abbiamo adottato. Cittadino italiano ma nato in una città dal suono strano.
L’ho iscritto in palestra, e in attesa della sua prima gara è arrivata la formale richiesta della
federazione sportiva: per essere tesserato e partecipare alle gare, il bambino dovrà produrre il
permesso di soggiorno. Poco importa che mio figlio sia italiano, che non gli spetti esibire certificati
nè permessi: ma se non lo fosse? Se un bambino di sei anni (turco, rom, ebreo, nero) vuole
iscriversi in una piscina o in una palestra, cosa gli tocca fare e dire? E se a suo padre quel permesso
è scaduto, cosa gli infliggiamo? Niente scuola, niente palestra, niente ospedale, accontentati di star
qui, tra noi ariani, che per te è già tanto…

Insomma, il problema non sta nella zucca di qualche funzionario delle ferrovie, convinto che per
tenere più pulite le tradotte dei treni locali è bene schedare i passeggeri. Il problema non è
quell’eccesso di zelo un po’ ottuso, né la giustificazione subito fornita dalle Ferrovie Italiane («il
modulo esiste, ma tanto non l’abbiamo mai usato...»): il problema è che dentro un paese di caste e
razze noi ci stiamo bene. E’ un’immagine che ci protegge, ci conforta, ci fornisce alibi buoni per
ogni nostra rabbia. Invece di cercare il nemico in alto, ci aiuta a trovarlo in basso.
Anche negli
scompartimenti dei treni regionali.


Claudio Fava     l'Unità 8 maggio 2010