Stranieri a noi stessi e incapaci di ascolto


«Stranieri e pellegrini», così l'autore della Prima lettera di Pietro si rivolge ai propri fratelli nella
fede presenti nella diaspora dell'Asia minore nel primo secolo dell'era cristiana. Termini che non
mirano soltanto a indicare metaforicamente quanti «non hanno quaggiù una città stabile ma cercano
quella futura» nei cieli, ma che tengono conto della reale composizione sociologica delle prime
comunità di discepoli di Gesù di Nazaret: schiavi e liberi, giudei e greci, mercanti e artigiani,
partecipi di fermenti e mobilità lavorative e abitative che possono oggi apparirci sorprendenti. Del
resto, già l'Antico Testamento aveva usato il paradigma della stranierità e del peregrinare per
plasmare l'identità del popolo di Israele, facendo di un insieme di eventi storici del passato più o
meno mitico una cifra di comprensione del presente. Così una volta installato nella "terra
promessa", il popolo dovrà ripetere a se stesso e davanti a Dio questa ricostruzione della propria
vicenda: «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca
gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa...» e agli stessi patriarchi di Israele la
Lettera agli Ebrei attribuirà la condizione di «stranieri e pellegrini sopra la terra».
Proprio il ricordo dell'essere stato "forestiero nel paese d'Egitto" - alimentato dal "fare memoria"
religiosa da parte di generazioni ormai sedentarie e ben installate da secoli nella propria terra determina
per il popolo di Israele una disposizione legislativa fondamentale di sorprendente
modernità nell'antico oriente: «Vi sarà una sola legge per tutta la comunità, per voi e per lo straniero
che soggiorna in mezzo a voi; sarà una legge perenne, di generazione in generazione; come siete
voi, così sarà lo straniero davanti al Signore». Una condivisione del tessuto normativo che arriverà
perfino a rendere partecipe del riposo sabbatico anche lo schiavo e il forestiero: così quello squarcio
di libertà dall'asservimento al tempo e al lavoro costituito dall'astenersi nel settimo giorno da ogni
attività lavorativa diverrà patrimonio di ogni essere umano, suo diritto civile, oltre che dovere
religioso.
E, scavando nel tessuto culturale del bacino mediterraneo che tanto ha influenzato la civiltà greca
prima e poi romana, come dimenticare la sacralità dell'ospitalità presso popolazioni che ben
conoscevano l'asprezza della vita quotidiana, la minaccia costante della siccità e delle carestie,
l'angoscia di chi non ha casa per ripararsi né pane per sfamare i propri figli? Sì, se vogliamo
indagare nelle radici della civiltà europea e italiana, se vogliamo prendere sul serio la troppo
superficialmente decantata eredità ebraico-cristiana, il suo intersecarsi con la cultura ellenistica e il
successivo confrontarsi con l'irruzione dell'Islam dobbiamo riconoscere che princìpi come quello
dell'accoglienza, della solidarietà, dell'apertura verso lo straniero sono stati in costante dialettica con
la tentazione di rinchiudersi nel mondo limitato ai propri "simili", con la paura del diverso, con
l'egoismo di chi pensa a salvare solo se stesso.
Ora, il confronto-scontro tra queste due visioni dei rapporti tra popoli, etnie e nazioni si rivela
quanto mai attuale nell'odierna società globalizzata, in cui il fenomeno migratorio assume
dimensioni proporzionate alle maggiori possibilità materiali di spostamenti di massa. Quello che va
ripensato allora non sono spicciole misure di contenimento o di repressione del fenomeno
migratorio, ma un insieme ben più complesso di problematiche sociali e culturali: il rapporto tra
sovranità nazionali e universalità dei diritti umani, l'opzione giuridica tra l'antico ius sanguinis e il
più articolato ius soli, l'emergenza continua e la certezza del diritto, la sostenibilità dello sviluppo e
dell'accoglienza, il mercato del lavoro e l'ingerenza umanitaria, il partenariato economico e lo
sfruttamento delle risorse naturali... Davvero, cristiani e non cristiani, dobbiamo oggi ripensare alle
categorie della cittadinanza, della stranierità, dell'ospitalità, non come mero esercizio dialettico o
come astratti sistemi giuridici, ma come riflessione sul senso della nostra convivenza civile,
sull'orizzonte che vogliamo dischiudere alla nostra società, sulla qualità della nostra vita e di quella
delle generazioni a venire.
In questa faticosa ricerca, non dimentichiamo l'ammonimento di Edmond Jabès: «La distanza che ci
separa dallo straniero è quella stessa che ci separa da noi: la nostra responsabilità di fronte a lui è
dunque solo quella che abbiamo verso noi stessi». Sì, essere consapevoli di abitare noi stessi la
stranierità non deve essere motivo di ulteriore angoscia o paralisi nell'agire, ma piuttosto stimolo
fecondo alla riflessione operativa in una stagione che vede ciascuno ripiegarsi su se stesso: sapersi e
sentirsi tutti "stranieri" ci aiuterebbe a cogliere l'altro nell'interezza e nella complessità della sua
persona, senza ridurlo ai problemi che la sua presenza comporta. Oggi la sfida è per tutti quella di
articolare verità e alterità nel senso della comunione, dell'ascolto e dell'incontro, non
dell'esclusione, dell'arroganza e dell'autosufficienza. E in questa sfida è grande la tentazione di
continuare a ragionare considerando se stessi come "norma" e, quindi, di esercitare pressioni per
essere riconosciuti nel ruolo di reggenti in una società in cui sono tramontate le ideologie
messianiche e faticano a divenire eloquenti le etiche laiche.
Cedere a questa tentazione porterebbe a sostituire la logica della "maggioranza" che impone le
proprie certezze con quella dell'influenza del gruppo di pressione che utilizza mezzi e strategie
tipici delle lobbies oppure con lo sdegnoso e agguerrito rinchiudersi nei resti di una cittadella
fortificata in attesa di stagioni migliori. Ma in ogni caso non prospetterebbe alcuna soluzione
perché, come scriveva Michel de Certeau, «lo straniero è a un tempo l'irriducibile e colui senza il
quale vivere non è più vivere»

Enzo Bianchi       la Repubblica 10 giugno 2008