STORIE E PENSIERI DI UN PRETE MINORE
Il mio non è un trattato sulla famiglia. Perché oggi scrivo di famiglia, di
matrimoni, di convivenze? Chi sei tu - mi sono detto - per scriverne? E poi non
stiamo forse arrivando alla sazietà dei discorsi e dunque alla repulsione? Dopo
mesi e mesi di dichiarazioni, dopo mesi e mesi di strategie politiche ed
ecclesiastiche? Che cosa c'è ancora da dire che non sia già stato detto? Non
penso - non mi appartiene questa pretesa - di dire cose nuove, sento anzi il
fiato debole di questa mia voce. Nei miei occhi, tu lo sai, non ha dimora la
lucentezza delle cattedre teologiche. Abita i miei occhi la debole luce del
cristiano quotidiano. Che pensa. Abita i miei occhi la tenera interrogazione di
chi accarezza ogni giorno la vita e si commuove alle storie e ricerca nelle
parole antiche, di una Scrittura che è sacra, un barbaglio di luce per la
strada. Abita i miei occhi la memoria insonne di Gesù, luce del mondo, la
nostalgia di una presenza, la sua, che lungi dall'incenerire i volti, metteva
sorprendentemente in cammino: "alzati" diceva "e cammina". Proprio quando i
difensori della legge erano in assenza di misericordia. E lui, la misericordia,
la sentiva, nell'anima, come il sobbalzo di un bambino nel grembo. Viscere di
misericordia: era scritto di
Dio. E lui sulla terra a dare carne e trasparenza al volto di Dio, al volto
della misericordia.
Nostalgia accresciuta, devo
confessarlo, in questi mesi, perché le strategie ecclesiastiche hanno parlato di
tutto e poco, troppo poco, di lui. Alla difesa di assetti legislativi o in lotta
contro ipotesi di nuove
configurazioni giuridiche in fatto di convivenze. In distanza da memorie di
vangelo.
Strategie dall'alto. E poi ci
sei tu, prete quotidiano, giustamente guardato con una dose benevola di
sufficienza. Prete di una razza un poco strana, una volta li chiamavano "preti
badilanti", quasi una chiesa minore. Minore certo, ma ancora non dimentica
dell'invito del Maestro: "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
Prete minore è uno che quotidianamente si sente ferito, perché gli altri per lui
non sono un caso teologico, numeri senza volto, il poveraccio su cui si può
discettare se per colpa sua o dei suoi genitori sia nato cieco. Gli altri sono
per lui, prete minore, storie vissute, sofferte. Le famiglie per
lui non sono bandiere per una battaglia, sono case in cui entra, ne conosce il
profumo ma a volte anche il peso e l'aria quasi irrespirabile. Papà e mamme per
lui non sono astrazioni, sono occhi, sono quegli occhi, è il corpo di quella
donna, di quell'uomo. Li ha toccati. Conosce, perché fatto partecipe, il
luccicare dell'emozione e il gonfiarsi del pianto. I volti scavati dalla fatica.
I conviventi non sono per lui una categoria sociale, sono in larga misura quei
ragazzi e quelle ragazze che ha l'avventura, avventura di grazia, di incrociare
agli incontri per i fidanzati. Si sente interrogato dalle loro storie.
Interrogato dall'immagine di una chiesa senza misericordia che, a ragione o
senza ragione, pesa nei loro occhi.
I preti minori vedono luccicare
i loro occhi quando si parla di un Dio amore, perduto come loro nell'amare,
perduto, come loro e più di loro, dietro ognuno di noi. E gli occhi dei
cosiddetti atei si accendono, quasi li abitasse un brivido di nostalgia,
nostalgia dell'acqua viva, l'acqua che il rabbì del pozzo di Sicar faceva
sognare alla donna dei cinque mariti. I preti minori non riescono a convincersi,
anche perché non hanno ancora dimenticato il vangelo, che l'amore per la
famiglia stia, prima di tutto,
nella battaglia per le leggi. Si guardano attorno, "pacs" e "dico" ancora non
esistono, eppure la famiglia è in processi di rapida evoluzione e a volte di
sofferenza. C'è chi pensa che rimedio sia costruire intorno
all'albero che intristisce muretti di protezione. Quasi bastasse un muricciolo a
rinverdire le foglie e non l'acqua viva.
Eppure la Parola di Dio in cui
crediamo ci mette in guardia da un eccesso di fiducia nelle protezioni
esteriori: "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo". Al contrario: "Benedetto
l'uomo che confida nel Signore". "Sarà" dice il salmo "come albero piantato
lungo corsi d'acqua, darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno."
Insipienza, secondo la Bibbia, sarebbe pensare di porre rimedio all'inaridirsi
dell'albero con stratagemmi puramente umani. Quale ingenuità! Al contrario
lavora perché all'albero
arrivi l'acqua di Dio, l'acqua della sua parola. Di lui ha sete. Della sua
parola ha sete.
Saremo ingenui agli occhi di tanti, ma noi confidiamo nella forza disarmata di Dio, di Gesù, del suo vangelo: "Benedetto l'uomo che confida nel Signore".
E confidiamo nello stile di Gesù, uno stile che i preti minori si sono sentiti ancora una volta ricordare da un vangelo della quaresima ambrosiana, quello di Gesù al pozzo di Sicar. Non ci spetterebbe forse questo come gerarchie e come preti, anche, a proposito di amore, di matrimoni, di famiglie e di convivenze, non ci spetterebbe di sconfinare, come Gesù ha sconfinato? Prese quel giorno non la strada dritta, la tradizionale, per recarsi in Galilea. Deviò, sconfinò in terra di gente che nel giudizio del suo popolo aveva fama di razza religiosamente bastarda, popolo stupido agli occhi dei puri. E non dovremmo sconfinare anche noi, e anziché parlare dalle cattedre, sedere al pozzo nell'ora più calda del giorno?
C'è da rimanere ancora oggi illuminati e riscaldati, se crediamo più al vangelo che alle nostre strategie, illuminati e riscaldati dal fascino di quell'incontro tra Gesù e la donna al pozzo di Sicar. E il sole splendeva alto. Illuminati e riscaldati da un incontro dove traspira da ogni riga la tenerezza di un amore più forte di ogni pregiudizio. E la donna li conosceva, li aveva portati sulla sua pelle i pregiudizi, i pregiudizi sul suo popolo ritenuto bastardo, i pregiudizi sul suo essere donna. Forse si accorse, fino a sentire pesantezza, dello sguardo indagatore dei discepoli che si meravigliavano che il loro rabbì stesse parlando con una donna. Li aveva sentiti fin sulla pelle i pregiudizi sulla sua femminilità guardata con sospetto, lei donna dei cinque mariti.
E sarebbe dovuto fermarsi molto ma molto prima di arrivare al pozzo, molto ma molto prima di arrivare a lei, quel rabbì, se avesse ascoltato i giudizi, le malignità, le tradizioni. Ma lui sovvertiva giudizi, malignità e tradizioni. La donna sentiva quello sguardo, il suo. Lei ne aveva sentiti tanti di sguardi, spudorati e spietati. Il suo no, era uno sguardo che aveva un calore, ma dolce, non invadente, come un tepore di sole. E lei fioriva, lei che tutti giudicavano ramo secco, lei a quel tepore di sole si apriva, come fanno i rami degli alberi in questo preludio di primavera. Il nostro mandorlo fiorito in questo inizio di marzo, accanto alla mensa dell'altare, sembra quasi simbolo tenero, icona, della donna samaritana. Che cosa l'ha fatto fiorire? Forse il gelo dell'inverno?
Sarà opinione di un prete
minore, ma ti dirò che oggi, quando mi guardo attorno e mi capita di riflettere
su ciò che vado osservando, mi viene spontaneo pensare che siamo lontani,
lontanissimi dall'aver imparato la
lezione del pozzo di Sicar. Ma pensate che si possa far fiorire persone o
situazioni con il nostro gelo, con i nostri occhi spietati, con l'accecamento
dei nostri pregiudizi, con l'inverno delle nostre separatezze? Ma ci ricordiamo
ancora di Gesù? Di questo Gesù che passa i confini, il confine tra ortodossi e
non ortodossi, il confine tra puro e impuro, il confine tra un monte
dell'adorazione e un altro monte antagonista? Abbiamo
imparato qualcosa dal vangelo o siamo ancora a meravigliarci, come i discepoli,
che lui stia a parlare con una donna? E per giunta con una donna come quella!
Quale chiesa, secondo voi, può far pulsare un fiotto di vita nelle vene di questa umanità? Forse i volti segnati da durezze, da separatezze, da condanne? Avete trovato ombra, una che è una, ombra di durezza, di separatezza, di condanna, ne avete trovata una, una sola, nel colloquio presso il pozzo? E chi lo avrà raccontato, quell'incontro, chi se non lui o la donna?
A far pulsare un fiotto di vita
nelle vene di questa umanità non sarà invece la chiesa che siede al pozzo, una
chiesa mai stanca dell'umanità, mai stanca della compagnia degli uomini e delle
donne del nostro tempo, una chiesa che parla sottovoce, come il rabbì alla donna
del pozzo, una chiesa che sa chiedere un po' d'acqua confessando il suo bisogno,
una chiesa che parla delle cose della vita, una chiesa che non invade le
coscienze, che fa emergere pazientemente le attese del cuore, scavando nel bene,
nel bene che
rimane, rimane comunque in ogni cuore, una chiesa che non ha nel suo stile
quello di far sentire un verme nessuno, ha invece la passione di portare alla
luce la vena preziosa nascosta in ogni cuore senza distinzione? È questo, me lo
chiedo, lo stile che ci contraddistingue nella vita? Con che volto accostiamo
l'altro, con che occhi lo guardiamo? Ci abita, dentro, lo sguardo del rabbì del
pozzo per la donna samaritana? E sappiamo sognare, come faceva lui, il maestro
davanti ai piccoli germogli? O ci interessa solo il cibo, la nostra voracità di
cose, di persone, di potere? "Maestro mangia!": gli dicevano i discepoli di
ritorno dalla città in cui erano recati a far provviste di cibo. Ma lui si era
già sfamato. Dissetato lui e
la donna a quell'incontro, un incontro che in ognuno aveva lasciato qualcosa. In
lei, nella donna, la percezione, incancellabile, di aver trovato finalmente
qualcuno che le aveva letto nel più profondo del cuore e le aveva rivolto parole
che erano acqua zampillante, e in lui, Gesù, la percezione che i campi, induriti
per crosta di gelo e di inverno, già si aprissero, fuori stagione, alla
fioritura. Era fiorita la donna. "Levate i vostri occhi" diceva "e guardate i
campi che già biondeggiano per la mietitura."
don Angelo - parroco a Milano