Stola e grembiule
Quando vogliamo designare la Chiesa, la immaginiamo con i paramenti addosso,
il vescovo con la
mitra, il pastorale: ecco il simbolo della Chiesa che prega. Oppure con la
Bibbia in mano: la
Chiesa che spiega la parola... Però l'immagine più bella, direi più consona al
linguaggio biblico, è
la Chiesa del grembiule. Nel Vangelo di Giovanni si dice: "Gesù allora si alzò
da tavola, depose le
vesti, si cinse un grembiule e si mise a lavare i piedi".
Si cinse un grembiule: tra i paramenti ecclesiastici che dovrebbero trovarsi in
sacrestia, l'unico che
avrebbe diritto di starci è il grembiule; invece non c'è. [...] Capite che la
nonviolenza comincia di
lì: l'etica del volto. Sono convinto che noi ci apriremo alla dimensione divina
proprio a partire dal
volto umano.
Don Tonino Bello
Per chi legge oggi gli scritti di mons. Tonino Bello, così come per chi
ebbe la ventura di ascoltarlo,
ciò che risalta è l'ispirazione teologica che dava al suo discorso e quindi al
suo pensiero. Lo faceva.
Questo sembrerebbe ovvio quando trattava problemi di Chiesa dal momento che
"Chiesa" è già di
per sé un tema teologico. Eppure troppo spesso esso viene affrontato sul piano
sociale o, come si
suol dire, "apologetico", cioè sul piano polemico della giustificazione delle
proprie posizioni di
fronte a chi le attacca o le ignora. Lo stesso studio di questo tema iniziava,
ai nostri tempi (ahimé...
sessant'anni fa!) con una lunga trattazione degli aspetti contestati dagli
"avversari", a cui seguiva
(quando non veniva omesso per mancanza di tempo) un rapido accenno agli aspetti
strettamente
teologici.
La Trinità
Fu il Concilio Vaticano II a rovesciare profondamente la prospettiva, partendo -
nella costituzione
sulla Chiesa, chiamata dalle sue prime parole "Lumen gentium" - dalla Chiesa
come "mistero", cioè
derivata dalla SS.ma Trinità e realizzata nel popolo di Dio, che vive ed esprime
la profezia, il
sacerdozio e la regalità di Gesù Cristo, e di cui la gerarchia è al servizio
(ministero). Qui don
Tonino inseriva la sua nota osservazione che la Chiesa, per la comunione interna
dei suoi membri e
per la promozione della solidarietà nel mondo, è chiamata ad essere "parabola,
metafora, icona
della SS. Trinità, in cui il Padre, il Figlio e lo Spirito vivono così
profondamente l'uno per l'altro
che formano un solo Dio" ("Non dico 1 + 1 + 1, perché così fa sempre tre, ma 1 x
1 x 1: fa sempre
uno").
Questa Chiesa-mistero si realizza e si alimenta nel mistero eucaristico: è lo
stesso Concilio - nella
Costituzione sulla Liturgia "Sacrosanctum Concilium" - a dichiarare che la
liturgia eucaristica, la
Messa, è il momento più alto e la fonte della vita della Chiesa, e quindi di
ogni cristiano. Don
Tonino viveva e presentava così la Messa, che parte dalla Parola di Dio, rende
presente Gesù Cristo
nella sua morte e risurrezione e, ravvivando l'azione dello Spirito Santo, rende
possibile la
comunione, sia al di dentro della Chiesa, come ricompattamento e assunzione di
responsabilità (in
primo luogo tra clero e laicato), sia nel mondo come accettazione delle
diversità (la "convivialità
delle differenze") e come impegno di solidarietà e di pace.
Il servizio
Questa sua adorazione viva della SS. Trinità, come questo amore appassionato a
Cristo, lo portava
alla condivisione dell'attenzione e della solidarietà verso i più poveri, i più
sofferenti, i più
abbandonati. Così cercava fosse la sua Chiesa, così auspicava e si impegnava
perché fosse tutta la
Chiesa. E aveva proposto l'immagine della "Chiesa del grembiule". Aveva infatti
osservato che
mentre gli Evangelisti sinottici si dilungano a descrivere - nell'Ultima Cena -
i gesti e le parole con
cui Gesù aveva istituito l'Eucaristia, l'evangelista Giovanni, che scrive dopo
gli altri e si preoccupa
di integrarli, con sintesi teologiche ma anche ricordando particolari omessi,
riassume (nel cap. 13)
l'Ultima Cena - già sufficientemente descritta - con una frase ("Avendo amato i
suoi che erano nel
mondo, li amò sino alla fine"), ma aggiunge l'episodio - che gli altri hanno
omesso - della "lavanda
dei piedi".
È accurata la descrizione che Giovanni fa dei vari momenti di questo episodio
significativo, anche
con le resistenze di Pietro, come sono importanti le deduzioni che Gesù ne fa
sull'atteggiamento di
servizio, che i capi della Chiesa devono avere nei confronti dei "fedeli", ma
anche dei fedeli
cristiani stessi nei confronti di tutti gli uomini. Così come è determinante il
comando che Gesù dà
agli Apostoli dopo la lavanda dei piedi, che corrisponde a quello che gli altri
Evangelisti hanno
ricordato dopo l'istituzione dell'Eucaristia: "Vi ho dato un esempio, infatti,
perché anche voi
facciate come io ho fatto a voi". Poiché Giovanni, collegandosi con gli altri
che avevano iniziato il
racconto dicendo che "Gesù, alzatosi, prese il pane... prese il calice.. .",
dice invece che Gesù... "si
alzò da tavola, depose le vesti, prese un grembiule e se lo cinse alla vita",
commentava che
l'unico "paramento liturgico" della prima Messa era stato appunto il grembiule,
e che la Chiesa - e
ogni cristiano - per celebrare coerentemente l'Eucaristia, avrebbe dovuto farlo
cingendosi il
grembiule, cioè mettendosi nell'atteggiamento del servizio, promuovendolo in sé
e intorno a sé.
Dalla parte dei poveri
Con la sua arguzia, don Tonino scriveva: "Chi sa che non sia il caso di
completare il guardaroba
delle nostre sagrestie con l'aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso
e le pianete di
samice d'oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d'argento", per
aggiungere subito che
"stola", cioè segno e strumento di culto, e "grembiule", simbolo del servizio e
della carità, non sono
alternativi, ma "quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo
sacerdotale". E commenta e
sviluppa, applicando alla vita della Chiesa, del sacerdote e del cristiano, le
tre frasi con cui
Giovanni introduce la lavanda dei piedi: "si alzò da tavola", come dinamismo di
volontà d'impegno,
"depose le vesti" delle abitudini e dell'egoismo, "si cinse di un grembiule"
della condiscendenza,
della condivisione, del coinvolgimento in diretta nella vita dei poveri. (Ed è
un peccato non poter
citare il parlare brillante di don Tonino quando richiama la sfida alla
mentalità corrente:: "Col
cencio ai fianchi, con quel catino nella destra, con quel piglio vagamente
ausiliare, viene fuori
proprio un'immagine che declassa la Chiesa al rango di fantesca").
Don Tonino precisa che un vero servizio ai poveri deve saper risalire alle
cause della loro povertà,
perché accanto alla condivisione dei nostri beni con loro (anche da parte delle
nostre comunità e dei
nostri organismi), ci sia la coraggiosa denuncia delle ingiustizie e dei soprusi
e ci sia l'educazione
dei cristiani al coraggio politico della giustizia e della solidarietà.
Don Tonino amava affermare l'impegno preso dalla CEI di "ripartire dagli
ultimi", e di "ripartire
insieme", riconoscendo che "gli ultimi non vanno considerati solo come
destinatari delle nostre
esuberanze caritative o come terminale delle nostre effusioni umanitarie, ma
soprattutto come i
protagonisti della storia della salvezza che il Signore vuole ancora realizzare
sulla terra a
vantaggio di tutti".
Mi basti solo accennare come don Tonino sapesse vedere nelle guerre, oltre che
un fatto
umanamente immorale, proprio un evento che penalizza in primo luogo i più
poveri, che rende gli
ultimi... più ultimi, e che quindi una forma primaria di servizio che la Chiesa
deve rendere al mondo
è proprio l'annuncio, la promozione della pace, di una pace effettiva al di
dentro delle sue strutture,
come al di fuori di sé, nel mondo. E questo diventerà un criterio primario con
cui la Chiesa - nel suo
insieme e in ciascuna delle sue articolazioni - potrà e dovrà valutare la
propria fedeltà a Gesù Cristo
e al mondo.
Luigi Bettazzi, vescovo in
“mosaico di pace” n. 7 del luglio 2008