Stiglitz, ve la spiego io la globalizzazione

 

E se al Pil opponessimo la Fnl? Che non è un nuovo fronte di liberazione, ma la Felicità Nazionale Lorda: sigla che non esiste, ma che il re del Bhutan propose qualche anno fa come misura dello stato di salute di un Paese. Una trovata da Woody Allen, probabilmente, se non fosse che Joseph Stiglitz, premio Nobel per l´Economia nel 2001, ne ha fatto l´argomento centrale del suo ultimo libro (La globalizzazione che funziona, Einaudi) un viaggio di 342 pagine tra i motivi che hanno trasformato la globalizzazione da grande promessa a globale illusione. Quella che doveva essere la mappa per guidare i Paesi poveri lungo la strada della prosperità e dello sviluppo si è rivelata infatti un modo nuovo, ma ugualmente perverso, di lasciare le cose come sono da sempre: con i ricchi, pochi, da una parte e il resto del mondo dall´altra.

 Che la globalizzazione non abbia funzionato è ormai evidente. Meno chiaro, invece, che a finire nel cestino non sia la globalizzazione in sé, ma il modo in cui è stata applicata finora. Anche perché pensata, gestita e controllata a senso unico: quello dei Paesi occidentali in generale, e degli Stati Uniti in particolare.

 «Durante gli anni trascorsi alla Banca Mondiale mi sono reso conto dei motivi per cui la globalizzazione suscitava tanto scontento. Avevo visto Paesi in cui la povertà aumentava anziché diminuire», dice Stiglitz. «I paesi industrializzati hanno di fatto creato un regime commerciale globale su misura per servire gli interessi della finanza e delle grandi società dell´Occidente, naturalmente a scapito dei paesi poveri del mondo. Invece, è nell´interesse di tutti i cittadini del mondo, sia dei paesi industrializzati che di quelli in via di sviluppo, che la globalizzazione cominci a funzionare».

 In che modo? Nessuno ha la bacchetta magica, dice il premio Nobel, ma ci sono tanti cambiamenti che, se attuati, potrebbero far funzionare meglio la globalizzazione, specie nei Paesi in via di sviluppo. Si tratta di cambiamenti in politica, nelle istituzioni economiche, nelle regole del gioco e nella mentalità. E che Stiglitz snocciola bombardando il lettore di proposte e progetti, un manuale delle idee per mostrare che un´altra globalizzazione è possibile: non questa, a uso e consumo dei soliti ricchi, ma una globalizzazione dal volto umano, anzi solidale. L´unica che potrebbe realmente funzionare perché in grado di parlare e comprendere un alfabeto completamente diverso. Vediamo alcune lettere.

 A come ambiente. Il riscaldamento globale è un problema di tutti, ma nessuno vuole tirar fuori un centesimo. Il minimo che possiamo fare è agire perché il protocollo di Kyoto, per quanto limitato, funzioni davvero. E questo significa rompere un tabù e tentare una mission impossible. Il tabù riguarda i Paesi in Via di Sviluppo per i quali il protocollo non prevede obblighi: eppure nel 2005 questi Paesi hanno prodotto il 40% delle emissioni serra e nel 2025 ne produrranno più del mondo sviluppato. Se davvero si vuole cambiare strada bisogna coinvolgere queste nazioni con obbiettivi equi e raggiungibili. La mission impossible invece riguarda gli Usa che, a tutt´oggi, non hanno firmato il protocollo. È evidente che la strada della persuasione, percorsa finora, non porterà a nulla: ci vuole una robusta trattativa commerciale (vedi alla lettera Sanzioni).

 D come deforestazione. È doppiamente negativa: diminuisce gli alberi in grado di trasformare l´anidride carbonica (il principale dei gas serra) in ossigeno e, quando il legno viene bruciato, si rilascia nell´atmosfera il carbonio immagazzinato. Negli ultimi anni, il 20% dell´aumento dei gas serra è dovuto alla deforestazione: un danno pari a quello provocato dagli Usa con le loro emissioni. Cosa accadrebbe se riuscissimo a diminuire del 20% la deforestazione in corso oggi? A un prezzo di 30 dollari per tonnellata di carbonio («tariffa Kyoto») il mancato rilascio di carbonio nell´atmosfera avrebbe un valore compreso tra i 30 e i 40 miliardi dollari l´anno: per avere un´idea, gli aiuti economici che vengono dati ogni anno ai Paesi in Via di Sviluppo sono circa 60 miliardi di dollari.

 L come liberismo. Il dibattito sulla globalizzazione si intreccia con quello sui valori e la teoria economica. Un quarto di secolo fa entrarono in competizione tre grandi scuole di pensiero in ambito economico: il capitalismo del libero mercato, il comunismo e l´economia di mercato gestita. Con la caduta del muro di Berlino, le tre scuole si ridussero a due e oggi resta aperto il dibattito tra chi sostiene l´ideologia del libero mercato e chi attribuisce un ruolo importante sia allo Stato sia al settore privato. I punti di vista sono molto distanti. Le strategie del Washington Consensus (in pratica Fondo Monetario, Banca Mondiale e dipartimento del Tesoro americano) miravano a ridurre al minimo il ruolo dei governi, mettendo l´accento su privatizzazione, liberalizzazione del commercio e del mercato dei capitali e deregulation. Il tutto ignorando volutamente concetti come equità e redistribuzione: il Washington Consensus era infatti convinto che dal tavolo di un´economia ricca sarebbero cadute (trickle down) briciole preziose per i più poveri. Una visione che Stiglitz boccia duramente, anche perché sconfessata dai fatti. «L´alternativa in cui credo vede lo Stato svolgere un ruolo più attivo sia nel promuovere lo sviluppo sia nel tutelare i poveri. Se si lascia tutto in mano ai mercati, vi sarà eccesso di qualcosa (ad esempio inquinamento) e carenza di qualcos´altro (come la ricerca)».

 P come Pil. Essendo facile da misurare, il Pil si è trasformato in una autentica fissazione per gli economisti. Il problema è che finiamo per lottare solo per ciò che si può misurare. Anche perché non sempre gli aumenti del Pil sono accompagnati da una riduzione della povertà: negli Usa tra il 1999 e il 2004 il reddito medio disponibile è aumentato dell´11%, ma il reddito medio delle famiglie (quelle del ceto medio) è diminuito del 3%. In America Latina dal 1981 al 1993 il Pil è aumentato del 25% ma anche la popolazione che vive con appena 2,15 dollari al giorno è passata dal 26,9% al 29,5%. Se i benefici della crescita economica non vengono divisi tra tutti, lo sviluppo può dirsi fallito.

 S come sanzioni. Ci vogliono delle sanzioni commerciali, come quelle previste dal protocollo di Montreal sui gas antiozono (che infatti funziona) e che non esistono nel protocollo di Kyoto. Non c´è bisogno di alcun ente supremo, basta l´attuale Wto. Il ragionamento è semplice: le aziende Usa, non pagando i danni che provocano all´ambiente con un uso indiscriminato dell´energia, è come se ricevessero delle sovvenzioni dal proprio governo (cioè è come se pagassero il danno, ma al contempo ricevessero dei finanziamenti per coprire quei costi). Ora, uno dei compiti del Wto è proprio quello di rendere il gioco del commercio internazionale uguale per tutti: ad esempio imponendo dei dazi a quelle merci che, prodotte in Paesi con regime di sovvenzioni, vengono esportate. Immaginiamo che il prezzo dell´acciao "Made in Usa" sia di 500 dollari per tonnellata e che per produrlo vengano rilasciate nell´atmosfera due tonnellate di carbonio. Ora, poiché il prezzo di una tonnellata di carbonio è di 30 euro (tariffa 2006 riferita al sistema delle quote vigente in Europa) è come se le aziende americane, non adeguandosi alle normative di Kyoto, ricevessero una sovvenzione di 60 euro per tonnellata di acciaio prodotto. Le altre nazioni, quelle che invece aderiscono a Kyoto e fanno il possibile per contenere le emissioni, potrebbero imporre un dazio di 60 dollari per ogni tonnellata di acciaio proveniente dall´America. Questo, sicuramente, sarebbe il miglior argomento per convincere Washington a firmare l´odiato protocollo.

 S come sostenibile. Il Pil è una misura pratica della crescita economica, ma non è l´aspetto più importante dello sviluppo. La crescita, ad esempio, deve essere sostenibile. Si può anche aumentare il Pil saccheggiando l´ambiente, esaurendo le già scarse risorse naturali, contraendo prestiti all'estero, ma si tratta di una crescita non sostenibile. La Papua Nuova Guinea sta abbattendo la sua foresta tropicale, dove vivono migliaia di specie; oggi le vendite di legname fanno aumentare il Pil, ma tra vent´anni non ci sarà più niente da tagliare.

 C´è un´ultima lettera, anzi un intero dizionario per descrivere i problemi e la disperazione di chi oggi vive in condizioni di povertà. Tra i «miracoli» compiuti dalla globalizzazione, quella conosciuta finora, figura l´aumento della povertà registrato negli ultimi due decenni nel Terzo mondo (Cina esclusa, ovviamente). Oggi l´80% della popolazione mondiale vive in Paesi caratterizzati da redditi bassi, alta povertà, alta disoccupazione e bassa scolarità. Più precisamente, il 40% dei 6,5 miliardi di inquilini che abitano il pianeta vive in povertà con un aumento del 36% rispetto al 1981, mentre un sesto (877 milioni) vive in estrema povertà (3% in più rispetto al 1981). Perché funzioni davvero, la globalizzazione deve funzionare prima di tutto per loro. Per i poveri del mondo.

 

Luca Landò    l'Unita’  14.11.06